Abitare l’intreccio del mondo vivente, Sofia Belardinelli (da Il Tascabile)

Estratto interno – Articolo completo: https://www.iltascabile.com/scienze/margulis-eco-evo-devo-evoluzione/

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(…) La visione propugnata da Margulis si poneva in netto contrasto con questa narrazione. La vita si basa sulla cooperazione, scriveva la biologa, piuttosto che sulla competizione: dallo sviluppo individuale (ontogenesi) fino ai fenomeni macroevolutivi come la speciazione, tutto dipende in primo luogo da una pacifica collaborazione tra viventi, che si realizza spesso sotto forma di unioni simbiotiche.

Tale proposta, sebbene scientificamente solida e molto esplicativa, era inaccettabile per la teoria dominante: un suo riconoscimento, anche solo parziale, avrebbe messo in discussione troppi dei suoi capisaldi. Ma uno dei meriti di Margulis, dotata di grande caparbietà e conscia della validità delle proprie ipotesi, fu proprio questo: aprire una crepa nel muro di certezze su cui poggiava l’evoluzionismo “gene-centrico” novecentesco, creare le condizioni per l’avvio di un dibattito sui fondamenti teorici di questo campo della ricerca scientifica.

In tal modo, insomma, veniva per la prima volta messa in dubbio l’effettiva oggettività della descrizione del mondo naturale costruita, a partire dal nucleo esplicativo darwiniano, dalla Sintesi Moderna della biologia evoluzionistica. Una volta riconosciuto che processi quali la competizione, l’individualismo, la lotta hanno un’importanza tutto sommato secondaria in natura rispetto a processi come la cooperazione multilivello e la simbiosi, diviene infatti evidente come quella narrazione sia figlia di una specifica Weltanschaaung, la stessa che ha portato, quasi parallelamente, all’emersione del capitalismo. L’operazione teorica di Margulis e dei (pochi) studiosi che, in quegli anni, iniziavano a mettere in discussione gli assunti principali della Sintesi Moderna consisteva, perciò, anche nell’allontanamento (seppur parziale) da uno dei punti nodali della visione darwiniana: la descrizione della natura incentrata sul principio di selezione naturale, il quale agisce in risposta alle necessità che emergono da un preciso contesto ecologico – quello della lotta per l’esistenza (struggle for existence) – e che il naturalista inglese aveva elaborato a partire dalle analisi malthusiane sul contrasto tra gli alti tassi di fecondità delle popolazioni naturali e l’insuperabile scarsità delle risorse disponibili.

Processi quali la competizione, l’individualismo, la lotta hanno un’importanza tutto sommato secondaria in natura rispetto a processi come la cooperazione multilivello e la simbiosi.

Proprio grazie all’avanguardistico lavoro di Margulis e degli scienziati che, nei decenni successivi, seguirono la sua suggestione di un altro modo di intendere il mondo naturale, la comprensione della fitta rete di relazioni collaborative che permea il mondo vivente ha compiuto nel tempo grandi progressi, rivelando che, proprio come ipotizzato dalla biologa statunitense, la cooperazione è un motore evolutivo fondamentale e operante ad ogni livello.

Oggi sono sempre più numerosi i ricercatori che abbracciano questa prospettiva, riconoscendo alla cooperazione un ruolo di primo piano nella storia della vita sulla Terra. I meccanismi collaborativi che muovono la vita sono indagati sempre più a fondo e, a poco a poco, emerge con chiarezza quanto la visione unicamente focalizzata su geni, selezione naturale e competizione fosse ristretta e parziale. Questo non significa – come sottolineano in un meraviglioso manuale Scott Gilbert e David Epel, due dei più importanti studiosi di una nuova branca dell’evoluzione, l’ecologia dello sviluppo o eco-evo-devo – che concetti come la competizione e la selezione naturale non siano più validi, o che debbano essere abbandonati. Essi mantengono, senz’altro, tutta la loro rilevanza teorica e pratica, ma devono essere inseriti all’interno di un più ampio quadro di fenomeni e processi che caratterizza il mondo dei viventi nella sua pluralità. (segue)

Testo integrale: https://www.iltascabile.com/scienze/margulis-eco-evo-devo-evoluzione/

Quando abbiamo iniziato a “vedere” il colore blu?, Davide Giorgio Berta

Perchè il cielo è blu? È una delle domande più comuni poste da bambini e adulti, a meno che non si provenga dall’antica Grecia, dove il blu non lo consideravano proprio. Se pensiamo che questo Paese è conosciuto in tutto il mondo per i suoi tipici tetti blu, le acque cristalline e una bandiera bianca e blu, è logico supporre che abbia una lunga tradizione con questo colore. Invece, niente di più sbagliato. Leggendo Omero, il famoso poeta greco dell’VIII secolo a.C., notiamo che la parola “blu” non viene menzionata una singola volta. Nelle centinaia di pagine de “L’Iliade“, il nero è menzionato 170 volte, il bianco 100, il rosso 13 volte, il giallo e il verde 10 volte ciascuno, mentre il blu non compare mai. Un fatto curioso è che Omero descrive l’oceano, color “vino scuro”. Altre stranezze cromatiche riguardano il “verde miele” e il “viola pecora”.

Inizialmente si pensava che gli antichi Greci vedessero i colori in modo diverso da come li percepiamo oggigiorno, o che fossero tutti daltonici. Tuttavia non è così. Ora sappiamo che la visione dei colori si è sviluppata circa 30 milioni di anni fa, quindi non è possibile che i Greci antichi vedessero i colori in modo diverso. La situazione diventa ancora più curiosa quando vengono considerate anche altre civiltà antiche: quasi nessuna ha mai utilizzato la parola “blu” nei propri testi.

Dai testi islandesi agli antichi poemi epici indiani risalenti a circa 4000 anni fa, dagli antichi scritti cinesi fino all’originale Bibbia ebraica, nessuno menziona il colore blu, mentre tutti menzionano il nero, il bianco e il rosso, e molti, inclusa la Bibbia, anche il verde e il giallo. Ad esempio, in questi testi l’oceano viene descritto come ampio, tempestoso e silenzioso, ma mai blu.

A partire dalla metà del XIX secolo, i linguisti iniziarono ad analizzare la storia delle lingue e scoprirono qualcosa di peculiare: in ogni cultura, il bianco e il nero sono i primi colori a comparire, poi subentra il rosso, poi il giallo e infine il verde. Il blu è sempre l’ultimo colore ad essere introdotto nel linguaggio di ogni cultura. Nel corso degli anni, i ricercatori hanno scoperto alcune piccole eccezioni con l’ordine di apparizione di verde e giallo, che ogni tanto si scambiano di posizione, ma il rosso è sempre il terzo e il blu l’ultimo.

Perché questo ordine? Ci sono due teorie principali.

Una è più semplice e riguarda il processo evolutivo. Il bianco e il nero aiutano a distinguere tra notte e giorno, luce e buio, e sono i più chiari e utili, quindi ogni cultura li assimila per primi. Il rosso è spesso associato al sangue oppure a un pericolo. Inoltre anche i volti umani e la comunicazione sfruttano il colore rosso, per esempio attraverso la risposta galvanica della pelle, come quando si arrossisce o si è stressati. Il verde e il giallo potrebbero essere stati introdotti nel linguaggio in seguito alla necessità di distinguere tra cibi maturi e acerbi. E il blu? Ci sono pochissime cose blu con le quali si interagisce: i frutti blu sono piuttosto rari, e lo stesso vale per gli animali.

In base alla seconda ipotesi, una parola non entra a far parte del linguaggio di un popolo fino a quando le persone non hanno utilizzato l’elemento che questa descrive. Il rosso è il colore più facile e accessibile, perché basta prendere un pezzo di argilla secca e usarlo come un pastello. Pensiamo alle pitture rupestri: la maggior parte dei dipinti contengono il nero e il rosso. Mentre il blu? È uno dei colori più difficili da creare. Per migliaia di anni, nessuno è stato in grado di produrlo, ad eccezione degli antichi Egizi, che infatti avevano una parola per descriverlo. (segue)

Testo integrale:https://trustinscience.com/2021/10/15/colore-blu/

I Ching | 33 DUN – Ritrarsi (Taoist Master Huang)

I Ching | 33 DUN – Ritrarsi (Taoist Master A. Huang)

NOME E STRUTTURA

Dun significa celarsi, trattenersi, ritrarsi. Wilhelm traduce Dun con Ritiro e Blofeld come Resa, Ritirata. In questo libro viene utilizzato il termine “Ritrarsi”. L’ideogramma di Dun consiste di due parti. A sinistra vi è un ideogramma che viene da un lontano passato: tre tratti curvi che rappresentano tre impronte che avanzano. Sotto i tre tratti vi è il piccolo ideogramma zhi, che significa “stop”. Questi due ideogrammi insieme creano l’immagine di andare avanti e fermarsi bruscamente. Sulla destra vi è un ideogramma complesso dato da tre immagini: un maialino, un pezzo di carne e una mano. Un pezzo di maiale era l’offerta sacrificale durante una cerimonia commemorativa. Il maialino è tagliato in due parti, rappresentate in alto e in basso all’ideogramma. Nel centro, un pezzo di carne è sulla sinistra e una mano sulla destra, che nell’insieme rappresentano l’immagine di qualcuno che sta eseguendo un sacrificio cerimoniale durante una ritirata.

Sequenza del Gua – Le cose non possono durare a lungo nello stesso posto. Quindi, dopo Perdurare/Perseverare, seguono Ritrarsi e Ritirata.

La struttura del gua è Cielo sopra e Monte sotto. L’attributo di Cielo è il potere creativo. In questo gua rappresenta un saggio che vive in accordo con il volere di Cielo. L’attributo di Monte è restare fermo. La struttura mostra che una persona saggia si confronta con l’immobilità e si ritrae.

In questo gua vi sono quattro linee forti e due deboli. Le due linee deboli stanno in basso; e stanno avanzando. Qui si presenta la condizione in cui delle persone inferiori vanno moltiplicandosi e accrescendo il loro potere. È il momento per il saggio di ritirarsi. Ritirarsi non è fuggire. Fuggire, scappare da una circostanza pericolosa, è codardia. Tuttavia il ritrarsi può essere finalizzato a preservare la propria forza, in attesa del momento giusto per una futura avanzata. Una persona saggia si serve della forza in modo appropriato: quando il momento non è appropriato, si ritira. La Decisione di Re Wen dice che è favorevole per il piccolo restare saldo e retto. La parola “piccolo” denota la gente inferiore. In tempi in cui le persone inferiori sono favorite, è meglio per il saggio ritirarsi, rimanere saldo e retto per futuri avanzamenti. Questo gua, Dun, è uno dei dodici gua mareali. Rappresenta il sesto mese del calendario lunare cinese.

Decisione (interpretazione di Re Wen)

Ritrarsi. /  Prospero e sereno. / Il piccolo: favorevole essere saldi e retti.

Commentario sulla Decisione (elaborazione di Confucio sulla Decisione di Re Wen)

Ritrarsi, prospero e sereno. / Prosperità e serenità giacciono nel ritrarsi.

La (linea) solida è al posto giusto / e corrisponde in modo appropriato. / Si accorda al tempo.

Il piccolo: / Favorevole essere saldo e retto. / Esso avanza e cresce.

Commentario sul Simbolo (interpretazione di Confucio sulla giustapposizione dei trigrammi superiore e inferiore)

Monte sotto Cielo. / Un’immagine di Ritrarsi/Ritirata. / In corrispondenza con questo / La persona superiore tiene le persone inferiori a distanza con dignità ma senza malevolenza.

SIGNIFICATO

Questo gua si serve dell’immagine di un alto monte e di un Cielo lontano per esporre il significato costruttivo del ritrarsi. Quando le forse oscure dilagano e la luce è troppo alta e lontana da raggiungere, ci si dovrebbe ritirare piuttosto che scendere a compromessi con l’oscurità. Pertanto, Ritrarsi ha un significato positivo. Dato che Ritrarsi è costruttivo, la maggior parte delle linee sono favorevoli, tranne la prima e la terza linea. La prima indica che è troppo tardi per la ritirata e l’altra che si è già ritirata ma è ancora collegata all’oscurità.

Questo gua ha tre linee che sono qualificate per essere il conduttore del gua: le due linee deboli alla base e la linea forte al quinto posto. Il Commentario di Confucio sulla Decisione dice: “Il forte è al posto giusto e corrisponde in modo appropriato. Si accorda al tempo”, e questo commento si riferisce alla linea forte al quinto posto. Tuttavia, il nome del gua è Ritrarsi/ Ritirata; la ragione della ritirata è data dalle due linee deboli alla base. Stanno avanzando, perciò stanno costringendo le linee forti a ritrarsi. Pertanto, il conduttore più appropriato di questo gua è una delle linee deboli: è la linea spezzata al secondo posto, in quanto centrale e corretta. Le due linee deboli di Dun rappresentano le forze oscure che vanno moltiplicandosi e aumentando di forza. Le quattro linee forti simboleggiano le forze luminose. Si stanno ritirando, ma il loro ritiro è costruttivo. Dato che il tempo non è favorevole per la luce, la loro ritirata giunge al momento giusto e con atteggiamento appropriato. Il loro scopo è di preservare la propria forza per avanzare in futuro e avere successo.

Durante il periodo delle investiture feudali e di stabilizzazione della vita del popolo, le situazioni non erano sempre serene. Re Wen reggeva sulle spalle pesanti responsabilità. Quando le persone inferiori dell’entourage del Tiranno di Shang andavano moltiplicandosi e acquisendo potere, Re Wen si ritirò. Il ritiro fu una concessione strategica al fine di definire le intenzioni ostili di quelle persone meschine. Il Duca di Zhou cita differenti modi di ritrarsi. Consiglia che nei momenti in cui è favorevole una ritirata, uno deve celare le sue capacità e attendere il suo momento. Ritrarsi è costruttivo per preservare la propria forza, in attesa del tempo giusto per una futura avanzata.—

– Estratto da: The complete I Ching, the definitive translation of Master Taoist Alfred Huang, Inner Traditions Publishing

Traduzione: Paola

Ritorno ai giganti azzurri, Massimo Sandal (da Il Tascabile)

Sopra di noi, i giganti azzurri attendono. Più vasti della Terra, di Marte, di Venere, eppure così distanti da essere invisibili a occhio nudo. Li incontrammo solo una volta, quando la sonda Voyager 2 li sfiorò e passò oltre. Urano, settimo pianeta del sistema solare, nel 1986; Nettuno, ottavo e il più lontano dei pianeti, nel 1989. Nuove sonde, negli oltre trent’anni passati da quel breve rendezvous, hanno visitato tutti gli altri pianeti del nostro Sistema. Loro no. Eppure custodiscono la chiave per capire com’è nato il nostro Sistema Solare, e sono pietra di paragone per i sistemi planetari di altre stelle.

Forse torneremo. Nell’aprile 2022, un comitato di scienziati della National Academy of Sciences degli Stati Uniti ha ufficialmente appoggiato la proposta di una missione NASA che orbiterà intorno a Urano – Nettuno è stato escluso perché al momento troppo difficile da raggiungere. Non che ci sia da trattenere il respiro. Con una data di lancio prevista per l’inizio degli anni Trenta; l’arrivo è previsto intorno al 2044-45, ma potrebbe slittare addirittura al 2053: fra più di trent’anni. L’esplorazione del cosmo è uno dei pochi campi rimasti in cui si può lavorare per le generazioni.

Due pianeti, due momenti fondamentali della storia della scienza. Dalle origini della storia gli esseri umani conobbero sei pianeti, viandanti familiari nel cielo, fino alla sera del 13 marzo 1781. Quando “tra le dieci e le undici, mentre esaminavo le piccole stelle nelle vicinanze di H Geminorum” nel suo osservatorio a Bath, Frederick William Herschel, scorse un piccolo disco verdeazzurro. Seguendolo, e accorgendosi giorno dopo giorno che si muoveva nel cielo, Frederick William Herschel fu dunque il primo essere umano a rivelare che nuovi mondi invisibili orbitavano il Sole. O almeno, così dicono le enciclopedie; ma tutto dipende da cosa intendiamo per scoperta scientifica. Fu Herschel il primo a vedere Urano? No; altri astronomi lo avevano visto, come Flamsteed nel 1690; forse perfino Ipparco 150 anni prima di Cristo, se riuscì a scorgerlo a occhio nudo. Galileo nientemeno osservò invece Nettuno, tra 1612 e 1613 – ed ebbe pure il sospetto che si fosse mosso. Ma tutti credettero di vedere delle stelle, e passarono oltre.

Herschel fu invece il primo a identificare, in quella stellina sfumata, un oggetto del nostro sistema solare che si muoveva nel cielo. Ma capì subito che era un pianeta? No, di nuovo. All’inizio pensò fosse una cometa, come quelle che scopriva sua sorella Caroline. Si può dire che Herschel scoprì Urano nel senso che fu il primo a dire esplicitamente ehi, guardate qui, ad attirare l’attenzione. Realizzare cosa fosse Urano fu però un affare collettivo, quando nei mesi successivi astronomi di prima grandezza, come Lalande, Boscovich, Messier e altri, accertarono che sì, quello era il settimo pianeta. (segue)

Articolo integrale: Ritorno ai giganti azzurri (Il Tascabile)

L’imprescindibile umanità delle scienze, dialogo con Isabella Blum (da Il Tascabile)

 

Parole scientifiche e parole letterarie: un dialogo con Isabella C. Blum, traduttrice dei libri di Oliver Sacks e di tanti altri grandi saggi scientifici.

Isabella C. Blum è biologa e traduttrice. Ha tradotto e curato libri per moltissime case editrici, da romanzi a testi scolastici, specializzandosi poi in “saggistica letteraria”: è, per esempio, la voce italiana di Oliver Sacks per Adelphi. Ha tradotto negli anni i libri del neuroscienziato Antonio Damasio, del biologo Stephen J. Gould, del matematico John D. Barrow, del Peter Godfrey Smith. Ma anche classici della scienza scritti da Francis Crick, James Dewey Watson, Charles Darwin.

Che si tratti di biologia o astrofisica, neuroscienze o storia della psichedelia, il lavoro di Blum è sempre al confine fra traduzione scientifica e traduzione letteraria, cercando di riportare in lingua italiana i migliori divulgatori di lingua inglese: grandi scienziati quindi, ma anche ottimi scrittori. Un lavoro fatto di attenzione e cura ai dettagli, chiarezza espositiva e orecchio per lo stile, rigore accademico e poesia.

Vorrei partire dall’inizio: qual è la sua formazione? Come è arrivata a fare il lavoro che fa?

Sono due domande molto diverse. La prima è quella più semplice. La mia formazione è stata fortunatamente, o forse dovrei dire fortunosamente, eclettica. Ho avuto una madre innamorata della letteratura e dell’arte, della lettura e della scrittura, e un padre con una cultura da ingegnere; ho fatto un liceo classico nel corso del quale mi sono capitati (anche) alcuni splendidi docenti, ho studiato musica con un grande Maestro, e ho una laurea scientifica. Tutti questi sono tasselli che hanno contribuito in modo importante alla mia forma mentis, infondendomi l’amore per le parole, per la lettura e la scrittura, l’approccio scientifico al testo, e una certa sensibilità musicale. A posteriori, l’insegnamento più alto che mi venne dal mio Maestro di pianoforte, Alberto Mozzati, fu quello del rispetto verso se stessi e quindi verso il proprio lavoro. Mai esibirsi impreparati, mai o la va o la spacca, sempre un’attenzione certosina – amorevole – al dettaglio: il dettaglio che non è minuzia irrilevante ma componente essenziale. Non pedanteria ma cura. Sono insegnamenti fondamentali, non solo per un musicista, non solo per un traduttore; io li ricevetti da adolescente e li capii molto più tardi. Me li porto sempre dentro.

Per quanto riguarda la seconda domanda, cioè come io sia arrivata alla traduzione – rispondere è un po’ più complicato. Posso dire che terminati gli studi universitari – studi scientifici: io sono laureata in Scienze Biologiche – la mia idea era quella di fare ricerca, possibilmente rimanendo nell’ambiente accademico, oppure anche in campo farmaceutico. Avevo però una grande passione per la divulgazione scientifica e per la scrittura, e quindi avevo già pensato anche a uno sbocco professionale alternativo, in ambito editoriale. Quando capii che le possibilità di guadagnarmi da vivere rimanendo all’università erano prossime allo zero, mi attivai cercando lavoro sia nelle aziende farmaceutiche, sia proponendomi come traduttrice alle case editrici. Fui assunta da una casa farmaceutica che non mi impiegò nella ricerca, ma nel lavoro sulla documentazione scientifica relativa ai suoi prodotti. E contemporaneamente ottenni i primi contratti per traduzioni editoriali – saggistica scientifica. Per qualche anno seguii questo doppio binario, poi decisi che il lavoro editoriale mi interessava decisamente di più, e la mia attività si concentrò in modo sempre più esclusivo sulla saggistica scientifica. (segue)

Testo integrale:https://www.iltascabile.com/scienze/isabella-c-blum/

Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Julian Jaynes (libro)

Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Julian Jaynes – Edizioni Adelphi

La coscienza della coscienza, Cap. I – Estratto

Quando ci poniamo la domanda:”che cos’è la coscienza?”, diventiamo coscienti della coscienza. E la maggior parte di noi ritiene che proprio questa coscienza della coscienza sia la coscienza. Ma non è così.

Quando siamo coscienti della coscienza, siamo convinti che la coscienza è la cosa più evidente che si possa immaginare. Pensiamo che la coscienza sia l’attributo che definisce tutti i nostri stati di veglia, i nostri stati d’animo e sentimenti, i nostri ricordi, pensieri, attenzioni e volizioni. Ci sentiamo confortevolmente sicuri che la coscienza è la base dei concetti, dell’apprendimento e del ragionamento, del pensiero e del giudizio, e che è tale perchè registra e immagazzina le nostre esperienze man mano che si verificano, consentendoci di esaminarle introspettivamente e di imparare da esse a nostro arbitrio. Siamo anche pienamente coscienti che tutto questo meraviglioso complesso di operazioni e di contenuti che chiamiamo coscienza è situato da qualche parte all’interno della testa.

A un esame critico, tutte queste proposizioni si rivelano erronee. Esso sono il costume con cui la coscienza si è mascherata per secoli. Sono le idee errate che hanno impedito di pervenire a una soluzione del problema dell’origine della coscienza. Dimostrare questi errori e indicare che cosa non è la coscienza è il compito lungo, ma io spero avventuroso, di questo capitolo.—

Indice: Introduzione [Il problema della coscienza] – I. La mente dell’uomo [1. La coscienza della coscienza – 2.  La coscienza – 3. La mente dell’Iliade – 4. Il doppio cervello – 5. L’origine della civiltà] – II. La testimonianza della storia [1. Dèi, tombe e idoli – 2. Teocrazie bicamerali in possesso della scrittura – 3. Le cause della coscienza – 4. Una nuova mente in Mesopotamia – 5. La coscienza intellettuale della Grecia – 6. La coscienza morale dei khabiru] – III. Vestigia della mente bicamerale nel mondo moderno [1. La ricerca dell’autorizzazione – 2. Dei profeti e della possessione – 3. Della poesia e della musica – 4. L’ipnosi – 5. La schizofrenia – 6. Gli auspici della scienza] – Post scriptum (1990)

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Julian Jaynes (1920-1997) – La sua carriera di ricercatore fu dedicata al tema della coscienza intesa come “la differenza tra ciò che gli altri vedono di noi e la nostra auto consapevolezza unita al senso profondo che la sostiene. [Wikipedia] – Julian Jaynes Society

L’osco, questo strano conosciuto – S. Cabriolu (da “Il Mercurio”)

A tutti sarà capitato di sentire parlare, anche solo di sfuggita, del popolo degli ‘Osci’ o ‘Oschi’, e della lingua osca, e magari avrà inteso che si tratta di un’antica cultura della nostra penisola. Ma di preciso di che cosa stiamo parlando? Di quale popolo, di quale lingua? E quale è l’eredità che ci ha lasciato, l’impronta che persiste nell’italiano dei nostri giorni? Lo scopriremo insieme, e queste domande ci porteranno a rievocare un passato dal sapore italiano o, meglio, italico, ma di respiro ampio. Basti pensare a parole di uso comunissimo come ʻpadreʼ o ʻdonoʼ le quali, in lingua osca, suonano come patír e dúnúm, non poi tanto diverse da lingue più note come il latino pătĕr e dōnum, il greco πατήρ (patḕr) e δῶρον (dṑron) il sanscrito dāna e pitṛ.

L’osco era una lingua indoeuropea e la sua vastissima area di estensione andava da Messina, attraverso il Bruttium (Calabria) e la Lucania (quasi tutta l’odierna Basilicata) e parte dell’area apula (attuale Puglia con l’esclusione della penisola salentina), fino alla Campania, al Samnium (pressappoco corrispondente a buona parte dell’attuale Molise, alla fascia meridionale dell’Abruzzo nonché ai settori nord-orientali della Campania) e alla regione costiera adriatica centrale popolata dai Frentani (Abruzzo adriatico meridionale). La lingua osca era parlata grosso modo dal VI-V secolo a.C. fino al processo di romanizzazione (circa I secolo a.C.), vale a dire l’egemonia politica di Roma sulle altre popolazioni italiche tra le quali, appunto, gli Osci. Il processo di romanizzazione ebbe come immediata conseguenza la cosiddetta latinizzazione linguistica, cioè la diffusione del latino rispetto alle altre preesistenti tradizioni linguistiche che concorsero alla preistoria dell’italiano.  (segue)

Ttesto integrale: https://unaparolaalgiorno.it/articoli/lingue-e-popoli/l-osco-questo-strano-conosciuto-55