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Una nota sulla “chiusura”, Paola

27 mercoledì Dic 2017

Posted by Paola in Inserimenti, Paola, Percezione, Tempo

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Sulla “chiusura”, Paola (nota  al gruppo di pratica)

Vorrei condividere alcuni pensieri sull’importanza di una “chiusura“ appropriata.

Nel nostro paradigma il concetto di chiusura non sottintende esclusione ma conclusione. Nella nostra chiusura non c’è l’idea di liberarsi di qualcosa dandogli un calcio, di eliminarlo o cacciarlo via, di disfarcene in quanto sgradevole e indesiderato. Non è così. La nostra chiusura è un momento di riconoscimento del valore di un’esperienza, è un momento in cui noi volutamente e consapevolmente non giudichiamo in senso di positivo o negativo, ma consideriamo l’utilità o il servizio che l’esperienza, il rapporto, l’evento o la cosa che si è chiusa o sta chiudendosi, ci ha donato. Lo andiamo a considerare come un nutrimento che ci è stato dato, che ci ha fatto crescere e comprendere meglio alcuni aspetti di noi.

Nel corso della nostra vita dobbiamo riconoscere e prendere coscienza dei momenti in cui una cosa si trasforma o cambia, che non è più quella che intendevamo, o che non va più bene, per noi o gli altri. Pertanto, quando la cosa finisce per cause esterne, oppure decidiamo di abbandonarla o di togliere noi stessi dalla situazione, prendiamo atto che per noi – ribadisco per “noi” e non necessariamente per le altre parti in causa – la situazione, l’evento, il contesto si sono esauriti.

A volte delle nuove iniziative non partono proprio perché non hanno lo spazio o la libertà necessaria a svilupparsi a causa delle influenze delle esperienze passate. E mi riferisco alle esperienze negative tanto quanto a quelle positive. Generalmente, tendiamo a considerare condizionanti solo gli eventi che riteniamo negativi, mentre di quelli positivi vogliamo farne tesoro. Tuttavia, per quanto riguarda i condizionamenti non si possono usare due pesi e due misure secondo criteri di “piacevolezza” personale. A tal proposito vorrei citare il pensiero di C. G. Jung: “Non dobbiamo soggiacere a nulla, nemmeno al bene. Un cosiddetto bene al quale si soccombe perde il carattere etico. Non che diventi cattivo in sé, ma è il fatto di esserne succubi che può avere cattive conseguenze. Ogni forma di intossicazione è un male, non importa se si tratta di alcol, morfina o idealismo. Dobbiamo guardarci dal considerare il male e il bene come due opposti.”

Un’esperienza esaltante o profondamente felice lascia un’impronta condizionante sulle esperienze future tanto quanto un’esperienza tragica. Condiziona la percezione assumendo il carattere di termine di paragone per una felicità futura, crea uno schema altrettanto inficiante a vivere liberamente ogni diversa manifestazione del nuovo e del diverso, bloccando ogni altro diverso godimento.

È per questo motivo che noi riconosciamo l’importanza di operare un qualche atto di chiusura, soprattutto per ciò che si è già dichiaratamente concluso e che fa parte di un passato decisamente alle nostre spalle. Dal punto di vista del nostro paradigma tutto ciò che non ci serve più, che si è ormai esaurito e che vogliamo lasciare, deve essere chiuso in modo appropriato. Abbiamo il compito verso noi stessi di entrare in contatto con queste forze limitanti e scioglierle, così da non restare legati a immagini di noi cristallizzanti e disattivanti.

Quando riconosciamo o consideriamo la conclusione di qualcosa, dobbiamo esprimerla; dobbiamo compiere un atto che in qualche modo lo attesti in modo manifesto e palese nella realtà di consenso. Può essere con un rituale, oppure con una festa, un biglietto, un regalo, un pensiero: azioni e gesti accompagnati da un sincero e reale ringraziamento. Anche se l’esperienza non è stata piacevole, dovrebbe essere portata a buon fine con grazia e in armonia.

Per me, gli elementi di un atto di chiusura sono: 1) Riconoscimento che l’esperienza o l’evento si sono conclusi. 2) Apprezzamento e gratitudine per il dono che l’esperienza o l’evento mi ha lasciato come conoscenza o saggezza. 3) Ringraziamento e congedo senza giudizio.

Questi tre punti dovrebbero essere sentiti sinceramente e non essere azioni o parole dette per formalità.

Anche se è stata vissuta con un senso di profondo dolore o infelicità, se non si vuole che una certa esperienza influenzi il proprio futuro, deve essere congedata con sincera gratitudine, con il pensiero che è solo per suo merito che si è giunti a questo nostro momento di reale (e non immaginario) punto di svolta. La Provvida Sventura di manzoniana memoria, insegna.

Altrettanto vale nel chiudere un’esperienza ritenuta felice, quelle di cui si è portati a dire: “più di così non potrò avere…”, o “ il futuro non sarà mai più così radioso…”, o anche “non troverò più una persona/un lavoro/un contesto migliore di…”. E lo stesso vale quando questa felicità ci è stata data da un profondo affetto che ci ha lasciato: è bene congedarla.

Vorrei sottolineare che oggetto dell’atto di chiusura sono le esperienze o gli eventi, e non le persone. Le persone di per sé sono anime eterne e da esse non ci separeremo mai, le troviamo sempre e comunque nostre compagne di viaggio. Le persone sono gli attori che allestiscono la scena di cui noi siamo protagonisti, e nei loro diversi ruoli danno l’estro alla nostra interpretazione. Pertanto è possibile chiudere appropriatamente qualcosa di nostro: un atteggiamento, un’abitudine, un’esperienza di cui riconosciamo realmente di aver assimilato il valore e che, di conseguenza, sono diventate per noi preziose. In caso contrario ci ritroveremo in breve tempo a riviverle in apparentemente altre diverse scene con differenti attori.

Perché dobbiamo farlo in questo modo? Innanzitutto perché chiudere formalmente con riconoscenza e apprezzamento rompe i ponti e impedisce al passato di protendere i suoi tentacoli nel nostro futuro. Inoltre, con queste tre attenzioni – in particolare con la gratitudine – noi recuperiamo l’energia emozionale che abbiamo immesso in quel vissuto, e la recuperiamo con il valore aggiunto di una saggezza che ci porterà senza fallo a superare con facilità e grazia ogni altra situazione simile. Una volta appresa e assimilata la comprensione diventata nostra, la manifesteremo in modo libero e spontaneo.

Un’ulteriore nota: il distacco. L’esperienza insegna che se eseguito con puro intento e sincerità emozionale, l’atto di chiusura è efficace e spesso pressoché immediato. Tuttavia, ci sono situazioni in cui la persona, pur essendo ormai libera da quel passato, continua a trovarsi in una certa situazione per il bene degli altri partecipanti.

Noi che intendiamo vivere in armonia con tutto e tutti, accettiamo anche il ruolo che interpretiamo per gli altri attori sulla scena per tutto il tempo che serve, perché anch’essi sono a loro volta protagonisti della loro rappresentazione e noi siamo ugualmente, e coerentemente, attori che danno a loro l’estro della loro libera interpretazione. Così può capitare che ci troviamo a continuare a vivere un evento che non ci appartiene più e accorgerci con stupore che, nonostante tutto, lo viviamo e vi agiamo con libertà e senso di impermanenza. In tale situazione, invece di depauperarci, ci apriamo a nuove possibilità. —

Paola, Paradigma 3

I Ching, Augusto Shantena Sabbadini (conversazione) (audio)

30 domenica Lug 2017

Posted by Paola in Audio, I Ching, Inserimenti, Tempo

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L’I Ching, conversazione con Augusto Shantena Sabbadini – Registrazione audio dal programma “Uomini e Profeti” / Radio 3, 12/02/2011

Augusto Shantena Sabbadini – è un traduttore, fisico e scrittore italiano. Ha lavorato come fisico teorico presso l’Università di Milano e l’Università della California. A Milano si è dedicato ai fondamenti della fisica quantistica, concentrandosi sulla descrizione del processo di quantum di osservazione, un problema che mantiene il suo fascino fino ad oggi. In California ha contribuito all’identificazione del primo buco nero. Nel 1990 è stato consulente scientifico per la Fondazione Eranos, un centro di ricerca est-ovest fondato sotto la guida di C.G. Jung nel 1930. In questo contesto ha studiato i classici cinesi sotto la guida del sinologo olandese Rudolf Ritsema e prodotto varie traduzioni e commenti, tra cui il Yijing e la Daodejing. Dal 2002 è direttore associato del Centro Pari per New Learning, un istituto di istruzione alternativa situato nel piccolo borgo medievale di Pari, Toscana, Italia. Insegna corsi brevi presso la Schumacher College e conduce workshop sul Taoismo, la fisica quantistica e la Yijing come strumento di introspezione. [da Wikipedia.it]

Riferimenti: http://www.shantena.com

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https://inseparatasede.files.wordpress.com/2017/07/uomini-e-profeti-del-110212-e28093-i-ching.mp3

Elementi di divinazione, Paola

05 giovedì Gen 2017

Posted by Paola in Estendere i confini, Paola, Percezione, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza, Tempo

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ombra-della-seraElementi di divinazione, Paola

Se volete sapere dove vi trovate, domandatelo ai non-locali. 

–  M. Talbot, Tutto è Uno

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Con questo scritto mi piacerebbe portare un contributo per ravvivare l’arte della divinazione soprattutto a livello personale, perché penso che mai come in questi tempi frettolosi, tecnologici e quasi insensibili alle pause, all’osservazione e alle sfumature, questa pratica possa ricollegarci a noi stessi e alla nostra realtà personale. Conoscere ciò che non si sa o non si comprende è da sempre uguale, le mantiche e gli strumenti per raggiungerlo sono da sempre diversi. Non è mia intenzione entrare nello specifico dei tipi di mantica, poiché la scelta dipende dalle inclinazioni personali e dal contesto culturale; piuttosto, vorrei soffermarmi su alcuni elementi comuni e un’esperienza personale di metodo, consapevole che l’argomento ha spazi di esplorazione ben più vasti.

La divinazione è una pratica che accompagna l’uomo fin da quando ha cominciato a riflettere su di sé e sul suo rapporto con i suoi simili, il suo ambiente e le forze misteriose alle quali si vedeva soggetto. Oggi l’uomo moderno con fatica accetta l’idea di qualcosa di più vasto in cui è inserito e di cui fa parte, o che sia oltre la sua comprensione. Dopo secoli di visione meccanicistica del mondo, alcuni scienziati stanno ora proponendoci la teoria dell’Intelligent Design (letteralmente, Progetto Intelligente), secondo la quale: «alcune caratteristiche dell’universo e delle cose viventi sono spiegabili meglio attraverso una causa intelligente, e non attraverso un processo non pilotato come la selezione naturale» [Wikipedia].

INTRODUZIONE

La divinazione può apparire a prima vista un intrico oscuro e incerto, e magari incutere un certo timore. Se i giochi divinatori dimostrano un’affidabilità di vario grado, ciò dipende dai giocatori e non certo dagli strumenti, che di per sé sono neutri come le lettere dell’alfabeto che possono trasmettere ispirazione o menzogna, secondo chi le adopera.

Nella pratica divinatoria ci sono tre personaggi e una scena, tutti sullo stesso piano e interconnessi, dove la debolezza o la forza dell’uno pregiudica o esalta gli altri: consultante – mantica – divinante (che può coincidere con il consultante) e una scena predisposta secondo set, setting e mind–set. Questi ultimi sono termini nello studio sulle esperienze negli stati di coscienza espansi, e mi sembrano pertinenti anche in questa sede, in quanto la divinazione prevede uno stato di coscienza diverso da quello della comune attività di veglia. Oltre a questi elementi, la sfera che – secondo me – racchiude scena e partecipanti è una sorta di sacralità (non superstizione) poiché la divinazione, come chiaramente lascia intendere il termine, riconosce e si affida alla presenza di un “divino”, di qualcosa che trascende gli aspetti terreni, l’apparenza degli eventi, la personalità e le conoscenze intellettuali.

SET – SETTING – MIND-SET

In questo contesto, il set sono le caratteristiche della persona: tutto il suo mondo interiore, la conoscenza o non conoscenza, l’esperienza o non esperienza, lo stato di salute, le credenze, le aspettative, le paure, le dipendenze; in breve, il suo bagaglio mentale ed emotivo.

Il setting è il luogo dove si svolge la pratica e il suo allestimento, quindi ciò che è esterno: l’ambiente con le sue caratteristiche di luci, musiche, profumi, decorazioni, oggetti, l’abbigliamento, la postura e quant’altro.

Il mind-set è l’atteggiamento mentale, l’intento o l’intenzione con cui ci si appresta all’opera.

Il set è certamente cruciale per colui che divina, che deve leggere i segni che arrivano dalla sfera della divinità. Nell’antichità la divinazione era appannaggio di persone distaccate dalla mondanità e quasi esclusivamente dedite al servizio divino nei templi, o che vivevano una vita a volte austera, altre volte isolata. In ogni cultura tali persone vivevano ai margini della società, in esilio dal mondo.

Tuttavia, il set non è meno importante per il richiedente, perché il suo desiderio di conoscere, la passione o la necessità che lo lega alla domanda sono indicatori di uno stato di coscienza. Anticamente, chi cercava risposte vitali affrontava molti disagi, percorrendo grandi distanze, soggiornando e purificandosi a lungo prima di poter accedere al contatto con la divinità o il divinante.

Anche oggi, la preparazione è requisito fondamentale: in primis per chiedere ed entrare in contatto con il divino, e successivamente per ricevere/comprendere/interpretare la visione/risposta.

Il setting può svolgere un ruolo di rilievo nell’espansione della coscienza. Per qualcuno si tratta di seguire rituali consolidati, altri si preparano e preparano il luogo secondo criteri personali dati da esperienze precedenti o intuizioni. Il setting è generalmente predisposto dal divinante al fine di fornire un ambiente che aiuti a creare/entrare in una diversa dimensione spaziale e temporale.

In questo elemento, ciascuno deve essere consapevole della natura dei suoi allestimenti, poiché questi dovrebbero servire ad espandere la percezione e non a confinarla o condizionarla in costrutti predefiniti, in una sorta di auto-suggestione o superstizione: il divino non può manifestarsi là dove tutto lo spazio è occupato da convinzioni, preconcetti, aspettative e orgoglio personali. Se una persona si conosce, sa che ciò che per qualcuno va bene potrebbe non essere opportuno per sé. Per esempio, io mi riconosco come una persona piuttosto impressionabile, per cui il mio setting è il più possibile neutro.

Inoltre, il setting coinvolge anche il consultante, quindi anche la sua apertura sia a esprimersi che a ricevere. Non sempre ciò che aiuta il divinante è altrettanto utile per il consultante. La divinazione è un’arte ispirata oltre che una pratica, e come ogni ispirazione segue flussi che spesso la razionalità non può seguire.

Il mind-set è, come detto, l’atteggiamento mentale, l’intenzione o l’attenzione con cui si opera. È, quindi, anche la domanda. Entrare nello stato di divinazione è entrare in uno stato alterato di coscienza, diversamente si rimarrebbe nello stato comune di veglia e razionalità e ciò che sembra “arrivare” in realtà “non arriva”, ma è un prodotto della propria mente razionale che, pur capace di dare buoni consigli, nella divinazione deve tacere per accogliere il non-limitato e il non-razionale, che non significa irrazionale.

Il mind-set è simile a un’antenna o a un telescopio che necessitano di sintonizzazione o direzione per catturare ciò che cercano. Può anche essere paragonato a un magnete che attrae solo ciò che attrae. Nel corso del tempo il significato di “divinazione” è andato abbassandosi di frequenza per adattarsi a differenti stati di coscienza, a differenti mondi di realtà, di intervento e risposte. Divino è un aggettivo il cui sostantivo risponde a varie concetti intellettuali e, pertanto, non è un termine di chiaro o univoco intendimento. Come diceva Tolstoj: “Un’idea di Dio non è Dio.”

Nella divinazione, entrando in una dimensione dove tempo e spazio non esistono, spariscono limiti, convenzioni, riferimenti e conoscenze razionali e tutto può comparire insieme. Questo “tutto” può apparire confuso, confondente o evanescente se il mind-set non è il più possibile cristallino e immacolato. Questo non perché la “risposta” sia di per sé confusa o vaga, ma perché la lente attraverso cui si guarda è opaca o distorcente: in quei piani o dimensioni, divinante/consultante, la loro coscienza e le loro lenti coincidono con la visione stessa.

INFORMAZIONI

In Wikipedia, sotto la voce divinazione sono elencate esattamente 100 mantiche (e probabilmente ce ne saranno altre ancora) dalle più note a quelle più impensabili che pure, da quel che si legge, non solo sono state pensate ma anche esercitate. Ciò ben illustra non solo il desiderio di conoscere ciò che è nascosto – che è sempre presente nell’umanità senza differenze di tempo, luogo e cultura, ma anche come l’uomo creda e abbia sempre creduto di poterlo sapere. Quindi, ecco che la presenza di strumenti di ogni specie in grado di dare risposte a domande sia pratiche che esistenziali ci potrebbe portare a riflettere sulle implicazioni della teoria dell’ordine implicato di Bohm per cui: “ … nell’universo esisterebbe un ordine implicato che non vediamo, e che Bohm paragona a un ologramma nel quale la sua struttura complessiva è identificabile in quella di ogni sua singola parte” [Wikipedia].

Dove si trovano le informazioni desiderate, quelle che preconizzano il futuro, illuminano il passato o mostrano ciò che è nascosto? Chi lo può dire con certezza? Nell’antichità si parlava di mondo degli dei, delle idee, di mondi angelici, spiriti e così via; con la psicologia sono nate nuove espressioni come inconscio personale, inconscio collettivo, mondo degli archetipi; con la moderna fisica si parla di energia, non-località, energia del punto zero. E dove si trovano queste dimensioni, essendo oltre la sfera della fisica conosciuta? Dentro, fuori, dappertutto o da nessuna parte? A prescindere da come ipotizziamo la sede delle informazioni, queste ultime esistono e possono essere trasferite da una dimensione sconosciuta a una ritenuta conosciuta.

Sempre tenendo a mente che set, setting e mind-set agiscono in collettivo, l’informazione è leggermente più responsiva al mind-set. In questo caso si può paragonare il mind-set a un missile dotato di un sistema d’inseguimento e intercettazione, ma dato che caratteristica di questo “dove” sembra essere l’assenza di tempo e spazio, non c’è alcuna distanza da percorrere e il bersaglio è colpito nel momento stesso in cui si preme il pulsante di lancio. Quindi non c’è nessun manuale di fisica da studiare, ma solo essere estremamente precisi, limpidi e distaccati; quindi, liberare la mente da secondi fini, mezze parole, mezze verità, illusioni, speranze, fantasie, giudizi, buone intenzioni e quant’altro circola in un cervello confuso e in un cuore turbato; ogni interferenza mentale ed emotiva influisce sulla chiarezza della visione.

La domanda, quindi, catalizza e precipita la risposta. Aver ben delineato i termini di ciò che si vuole conoscere è una condizione iniziale importante.

LINGUAGGIO

“Il dio, il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde, ma indica” [Eraclito]. Quale che sia per noi questo “dio” a cui attingere nella divinazione, parla una lingua diversa da quella ordinaria. Per entrare nella dimensione più profonda, efficace e guaritrice di una divinazione bisogna imparare a conoscerne la lingua.

Ogni mantica ha un suo linguaggio che va acquisito, interiorizzato ed esercitato, e non solo strettamente in sede di consulto. Addentrarsi nella pratica della divinazione significa instaurare una comunicazione costante con l’invisibile perché, al di là del momento in cui si sceglie di entrare nella procedura, la comunicazione è sempre in continuo scambio e interazione, dove ogni attimo precedente divina il successivo. Le mantiche mostrano le dinamiche, e – a un certo livello – non rappresentano persone ed eventi, ma momenti e movimenti coscienziali travestiti da persone ed eventi.

Ci sono diversi tipi di linguaggio, alcuni utilizzano supporti esterni come, per esempio, i Tarocchi, l’I Ching, le Rune, ecc., che hanno in sé codificati simboli e significati secondo una lunga tradizione; poi ci sono pratiche che si servono degli stati espansi di coscienza della persona: di tipo naturale come l’oniromantica e il viaggio sciamanico, oppure indotti attraverso condizioni di privazione o con l’uso di sostanze enteogene. [Poiché qui si parla di divinazione, trovo l’aggettivo “enteogeno” più appropriato di psicotropo o allucinogeno, perché dal greco entheos-genesthai, dove en=dentro, theos=dio e genesthai=generare, quindi “ciò che genera Dio (o l’ispirazione divina) nella persona.] Inoltre, parallelamente a ogni pratica umana, la comunicazione divina si serve anche degli elementi ambientali (sincronicità, fenomeni naturali, ecc.).

Al di là della tecnica utilizzata, il linguaggio dell’esperienza divinatoria assume nel tempo carattere individuale e personale. Come si sa, il comune linguaggio è una struttura convenzionale limitata alla comunicazione in certi ambiti di esperienza, per lo più fenomenica e materiale, che assolve l’esigenza primaria di relazione tra umani. Nella divinazione, sia con l’utilizzo di strumenti che per auto-induzione e comunicazione ambientale, compare la necessità di tradurre immagini, simboli, visioni e altri tipi di percezione in una risposta intellegibile e coerente. Poiché, come dice Eraclito, il dio non dice ma indica (o accenna, secondo altra traduzione) consegue che questo divino lascia ampio margine di interpretazione all’uomo; così, a mio parere, non è il dio ma l’uomo che gestisce la risposta, verbalizzata secondo la sua sensibilità e capacità di intendere e tradurre.

Per quanto sopra, essendo il linguaggio del divino (dell’inconscio collettivo o del non-locale, che dir si voglia) non strutturato e tanto meno limitato a una lingua o a immagini standardizzate, ritengo che sia compito di chi vuole avvicinarsi all’arte divinatoria acquisire il più ampio vocabolario possibile esercitandosi in più mantiche e di diverso genere, perché a volte limitarsi a una sola lingua è condizionare a una manciata di termini la traduzione di un flusso che proviene dal magazzino dell’universo intero e delle esperienze di tutta l’umanità nel corso di molti millenni.

Considero, inoltre, buona cosa avere strumenti diversi in funzione della domanda o della dimensione cui ci si rivolge, perché alcune mantiche possono sembrare più consone a responsi di ordine pratico e altre a responsi di ordine più esistenziale o impersonale.

FEEDBACK

La divinazione è un’arte e una scienza, e la loro padronanza prevede studio, esercizio e verifica. È un’arte che opera con l’invisibile e questo invisibile non è un semplice “visibile che non si vede” ma qualcosa che ha leggi diverse, modalità diverse, realizzazioni diverse, intendimenti diversi. Quindi non può essere avvicinato con meccanicità e stereotipi ma con sensibilità, calma e apertura. Spesso l’accesso avviene non per visione centrale ma periferica, così come le stupende ma fioche Pleiadi si colgono meglio con la coda dell’occhio fissando le stelle più brillanti intorno. Le risposte sono sempre e ovunque presenti ma celate, come nella nube confusa di uno stereogramma. Talvolta basta che lo sguardo sia diversamente a fuoco ed ecco che miracolosamente compaiono, ad ogni livello di manifestazione.

Ciò che si definisce spirituale ha delle “dinamiche” che non sono limitate alle abitudini e alle aspettative della personalità, per cui divinante/consultante dovrebbero approcciarsi aperti a ricevere anche risposte che potrebbero apparire in un primo momento non chiare, contrarie alle regole o illogiche, o anche scontate… Una volta che si ha l’immagine, la visione o l’indicazione, non sempre si è in grado di capirla chiaramente o correttamente; alcune volte è necessario astenersi e lasciare a quel “divino cenno” tempo e spazio per manifestarsi con più consistenza e chiarezza. L’ansia da prestazione di aver capito tutto subito e attribuire immediata certezza a ogni affermazione è un imperativo dei tempi moderni a cui non si deve cedere. Nella divinazione i tempi sono altri, sono i tempi della coscienza e non degli eventi; talvolta una risposta non è “la riposta ricevuta”, ma un moto iniziale o un seme che, lasciato libero, si sviluppa in qualcosa d’imprevisto che meglio corrisponderà alla necessità.

Riguardo alla visione o al responso, poche volte ho incontrato chi dopo una divinazione attende una conferma sul piano oggettivo; la maggior parte dei divinanti e dei consultanti si limita ad accettare piuttosto acriticamente, come se il divino si offendesse ad essere messo in dubbio.

Personalmente, prima di dare credibilità a una percezione, visione o lettura, soprattutto se suscita perplessità o dubbio o indica un’azione drastica, attendo (o faccio attendere al richiedente) un feedback o conferma attraverso il sogno, la sincronicità o l’ambiente esterno entro un periodo di tempo che, per quanto mi riguarda, ho stabilito di 24 ore. Se entro tale termine non si riceve il feedback, quell’interpretazione è sospesa.

Mente e percezione non sono facili da tenere limpide e distaccate, specialmente se la divinazione viene fatta per se stessi. Chiedere il feedback significa anche uscire dalla presunzione di infallibilità riguardo la propria interpretazione, ciò che si visualizza o passa per la testa; è un atto di umiltà e fiducia permettere al divino di manifestarsi anche con altri mezzi e lasciare ad esso l’ultima parola.

La teoria che sta dietro a questa modalità è che se qualcosa è veramente “vero/reale” deve rivelarsi tale su tutti i piani, quindi anche sul piano ordinario e non solo quello raggiunto in stato alterato. Questo risponde al paradigma olografico, dove nella parte c’è il tutto – e se una parte proviene da un “intero”, ogni altra e diversa parte di quell’intero lo rivelerà allo stesso modo. Parafrasando il Mahabharata: “Ciò che c’è qui lo si può trovare anche altrove; ma ciò che qui non si trova, non esiste in nessun luogo.” Questo il motivo per cui – sempre a parer mio – è importante riconoscere che la comunicazione può essere confermata attraverso molti messaggeri, e che spesso è bene avere più di una testimonianza prima di dar credito e procedere. È quasi incredibile come le conferme arrivino tempestive e tramite i più disparati ignari emissari.

REALTA’ PERSONALE

Alla divinazione si oppone spesso la “realtà” della validità delle risposte. Cosa significa “realtà” è una questione dibattuta e infinita, per cui – in questo contesto in modo particolare – per me la realtà è una realtà personale.

Se abbiamo un problema, lo abbiamo nella nostra realtà. Delle persone che ci circondano abbiamo immagini mentali che riflettono la nostra relazione con loro, gli avvenimenti che ci accadono sono quelli che ci toccano direttamente. Così, nella divinazione, le domande sono sempre personali e hanno risposte personali. Chiedere per altri è inutile, perché la risposta che si può ottenere non è diretta all’“altro”, ma al richiedente. Ho notato che c’è come una sorta di legge sulla privacy. Quando da giovane facevo ingenue domande sulle faccende altrui, le risposte ottenute non avevano mai riscontro reale. Ho capito, quindi, che ciascuno di noi attinge esclusivamente al proprio magazzino di esistenza passata e futura perché ha il suo proprio viaggio di andata e ritorno. Sono del parere che l’immensità della sfera individuale sia proprietà privata: solo l’interessato è autorizzato ad accedervi. Diversamente, la considero un’intrusione non autorizzata.

La divinazione ha senso per coloro che sentono il divino partecipe della loro vita e loro stessi partecipi di una vita divina. Se questo divino sia inteso secondo un ideale religioso, psicologico o scientifico è – secondo me – ininfluente. Entrare nella pratica della divinazione significa riconoscere che la manifestazione origina da una sede apparentemente diversa da quella che definiamo realtà oggettiva. Non ritengo importante sapere dove sia e darle un nome, ma lo è arrivare a cogliere quelle informazioni mancanti che danno a certi aspetti della nostra vita un senso o una direzione quando non riusciamo a trovarli con la mente razionale. A volte non si tratta di capire e nemmeno di credere, si tratta semplicemente di agire.

CONCLUSIONE

La divinazione è sia un fine che un mezzo per acquisire conoscenza ed esperienza di noi stessi e di una realtà ampliata. Tutti i nomi che possono venir dati a dimensioni che sconfinano dalla realtà consensuale sono semplici modelli di comunicazione, il loro valore non consiste nell’idea della loro esistenza e descrizione ma nella plasticità con cui si manifestano in tempo, spazio, materia e, di conseguenza, coscienza. Nel momento in cui si entra in un vero stato di divinazione, in una dimensione espansa e impredicibile, si è in un eterno presente a contatto con le energie indifferenziate della creazione, pronte a modellarsi alla richiesta.

Il valore di una divinazione non sta nella bontà o nel conforto di un responso che ci solleva dal nostro stato, ma nella possibilità di osservare un quadro più ampio così da acquisire quell’ulteriore conoscenza che aiuta a prendere una decisione personale e autonoma assumendocene la responsabilità.

La divinazione può essere praticata per diversi fini, dalle urgenze legate alla sopravvivenza e alla soddisfazione materiale ed emozionale, a quelle della ricerca di uno scopo o del significato degli accadimenti, fino ad arrivare all’esperienza di una dimensione collegata a quella terrena unicamente dal filo sottile della vita che tutto pervade.

L’affinamento nella pratica della divinazione risponde all’affinamento del nostro stato di coscienza, per cui vorrei concludere con A. Huxley: “Ciò che percepiamo e ciò che comprendiamo dipendono da ciò che noi siamo.” —

– Estendere i confini, 6

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Nota

Michael Talbot, Tutto è uno (The Holographic Universe) – Urra/Feltrinelli

Il giorno più buio, Deng Ming-Dao

21 mercoledì Dic 2016

Posted by Paola in Deng Ming-Dao, Filosofia, Taoismo, Tempo

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deng-ming-daoIl giorno più buio, Deng Ming-Dao (2013)

Ogni anno ha il suo giorno più buio; ogni giorno buio è seguito dalla luce.

Chi di noi vive i trecento giorni senza passare qualche sventura o problema? Tutti noi sperimentiamo delle difficoltà. I problemi possono spesso rattristarci e farci guardare confusi il buio fuori dalla finestra.

Per tutti noi, allora, il solstizio d’inverno è il promemoria che il buio ha raggiunto il suo estremo: esattamente per un giorno. In questo giorno, su tutti gli altri, vi è una proporzione precisa e dinamica tra luce e buio. È misurabile, è completo. È, per un giorno, immutabile. Il buio del solstizio non può essere evitato, ma gli esseri umani possono sopravvivere e vedere il giorno dopo.

Gli uomini del passato ci hanno lasciato molte indicazioni su cosa fare: ci si riunisce con la famiglia, ci si nutre l’un l’altro, si ringraziano gli antenati e, seduti al tavolo guardando le appiccicose palline di riso nelle loro ciotole, si riafferma che tutta la vita è un ciclo.

deng-ming-dao-the-lunar_taoI Taoisti osservano con attenzione questo giorno, allineandosi con i più grandi cicli cosmici del sorgere e tramontare del sole e della rotazione terrestre. Celebrano anche i Tre Puri onorando e volgendosi con fede a un momento in cui il cielo è buio e i cicli della vita cambiano così profondamente. Il calendario lunare è calibrato sul solstizio d’inverno, quindi questo giorno è il punto di riferimento per l’anno che verrà.

In ogni momento della tua vita puoi trovarti in un inverno e sentire di essere in tempi di profonda oscurità. Ripensa, allora, a questo giorno e fai ciò che si è fatto per migliaia di anni: unisciti alla tua famiglia, nutri te stesso e gli altri, fissa la mente sulla verità dei cicli e trova rifugio nell’onorare il sacro.

Ogni giorno buio è seguito dalla luce; ricordalo, se vuoi un futuro felice.

Fonte: Deng Ming-Dao, The Lunar Tao (Meditations in harmony with the seasons) HarperOne Publishing, 2013

Traduzione: Paola

Il tempo quantico, Julian Barbour

06 sabato Ago 2016

Posted by Paola in Inserimenti, Personaggi, Tempo

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Julian BarbourIl tempo quantico, Julian Barbour

Julian Barbour è inglese ed è un teorico di astrofisica e del tempo. La sua teoria è che l’universo quantico sia statico, esistente come un set di stati indipendenti dal tempo, governato solo dalla loro probabilità. La nostra nozione di tempo deriva dall’osservazione di questi stati. Dice Barbour: “… Il tempo è un’illusione. I fenomeni dai quali deduciamo la sua esistenza sono reali, ma li interpretiamo in modo sbagliato. I miei argomenti sono presentati in La Fine del Tempo (ed. Einaudi)”.

D.: Qual è la sua definizione di tempo?
Barbour: Dobbiamo stare molto attenti perchè ci sono due forme di fisica ben distinte. Nella fisica classica, il tempo è qualcosa come un invisibile filo per stendere i panni. In ciascun punto lungo quel filo, l’universo ha una qualche sistemazione delle sue parti, qualche struttura particolare. Si può immaginare di fare un’istantanea di quella particolare configurazione di come l’universo si presenta, poi si può appenderla al file nel tempo che gli corrisponde. Un minuto più tardi si può fare un’altra istantanea e molte cose nell’universo si saranno mosse in qualche modo. Perciò si otterrà un’istantanea leggermente diversa da appendere al filo un minuto più tardi. Allora si avrebbero molte istantanee appese al filo della biancheria, tutte con la loro corretta spaziatura.

Questo è esattamente quello che Isaac Newton pensava del tempo ed è ancora il modo in cui la gente pensa al tempo tutt’oggi. Ora, per ciò che riguarda la fisica classica, al punto iniziale del mio lavoro è molto semplice dire: beh, guarda, in effetti, il filo dei panni non serve assolutamente a niente. L’universo non ha una struttura esterna di questo tipo. Mi sono messo a descrivere, secondo la fisica classica, come le cose cambiano la loro posizione nel mondo, ma buttando via quel filo.

Sono riuscito a farlo, e penso che la gente riconosca sempre più che quello è un modo interessante e possibile di guardare le cose. Nella fisica classica, io non cambio l’idea che esista una sequenza unica di eventi. Sto solo dicendo che non c’è bisogno di un filo su cui stenderli. Supponiamo di avere un universo composto da solo tre particelle. Potremmo fare delle istantanee di quelle tre particelle creando la storia di questo universo. Potrebbe esserci un’intera successione di queste tre particelle che formerebbero dei triangoli. Si potrebbero immaginare triangoli appesi al filo dei panni. L’universo newtoniano di tre particelle sarebbe solo una successione di triangoli.

La meccanica quantistica è tutta un’altra storia. Presume che non ci sia una singola successione di stati. C’è ogni possibile successione di stati. La meccanica quantistica presume che in qualche modo che tutti i triangoli siano presenti allo stesso tempo ed è alquanto sbagliato pensare ai triangoli allineati su un filo. Formano come uno spazio multidimensionale. Si potrebbero anche immaginare in un grande mucchio.

Ritornando alla foto newtoniana, – poichè mi sono sbarazzato del filo dei panni – , si potrebbe chiamare ogni triangolo individuale, che sto descrivendo in questo modellino, un istante di tempo. Non c’è un filo dei panni, non c’è nessuna linea del tempo, ma ci sono istanti individuali di tempo ed essi sono come delle istantanee dell’universo. Sono appunto quella che è la forma dell’universo in ogni dato istante.

Per avere un’immagine appropriata della meccanica quantistica, si deve ampliare la propria visione e pensare che tutti gli istanti possibili di tempo, tutte le forme possibili dell’universo sono presenti nello stesso momento. La meccanica quantistica è molto, molto diversa e le mie idee non cominciano ad avere implicazioni entusiasmanti finchè non si assume la possibilità che possano esserci tutti contemporaneamente. Questo è un grosso cambiamento. La meccanica quantistica è molto misteriosa. Sembrano esserci delle probabilità.

Ora ci addentriamo in acque molto profonde. La meccanica quantistica, quando si cerca di interpretarla, è molto profonda. In un modo o nell’altro ci sono delle probabilità per questi possibili istanti di tempo – i triangoli del mio modello o istantanee dell’intero universo, se siamo realisti. In qualche modo ognuna di esse ha una probabilità, che è determinata con una regola ben definita. Questa è la figura matematica che emerge, o almeno è emersa da quello che sto facendo e proponendo. E’ molto, molto diverso dal metodo ortodosso in cui uno pensa al tempo.

D.: Qual è la grande implicazione della meccanica quantistica nel cambiare la definizione del tempo da parte sua?

Barbour: La cosa veramente interessante è la legge che determina quali probabilità ha ogni istante di tempo – ogni possibile configurazione dell’universo – e come funziona. Questo ha grandi implicazioni potenziali per la causalità, la predeterminazione e molte altre cose, perchè presuppone che l’universo funzioni in un modo molto diverso.

Nel vecchio modo di vedere – (ed è il modo in cui praticamente tutti i miei colleghi fisici ancora pensano; vedo questo ogni volta che leggo un articolo di fisica) – ci sono condizioni iniziali e poi ci sono leggi e come l’universo si evolve. Per qualche ragione vengono create le condizioni iniziali, sia da Dio o spontaneamente, e poi le leggi prendono il sopravvento e l’universo di evolve da questo. Perciò quello che troviamo intorno a noi ora è la conseguenza di quello che è stato messo a punto in un passato molto lontano o nel big-bang.

Non credo affatto che la legge funzioni così. Penso che sia una legge che funzioni tutta d’un colpo e scelga delle probabilità tutte in modo olistico. In un certo senso, dico che gli istanti di tempo stanno competendo o possibilmente collaborando uno con l’altro per avere più probabilità possibili. Suona tutto molto astratto e difficile. E’ una congettura da parte mia, ma penso che sia così.

D.: Il cambiamento diventa qualcosa di molto più reale in ogni momento, piuttosto che nel precedente modo di vedere le cose, anche se a volte gli scienziati descrivono qualcosa in termini di fisica quantistica ancora con un modo di pensare lineare.

Barbour.: Quello che veramente conta ora, non è il cambiamento ma la differenza. Due cose, che sono più o meno le stesse ma non esattamente le stesse, possono avere diverse probabilità. Questo è tutto determinato, a mio avviso, da un’enorme legge, che in qualche modo determina tutte le probabilità nello stesso momento. Sono tutte in risonanza l’una con l’altra in qualche modo. Se le cose sono fortemente in simpatia le une con le altre, allora questo le aiuta ad avere una maggiore probabilità.

È proprio un bel modo olistico di pensare alle cose. Non è stato programmato in quel modo, ma piace alla gente con inclinazioni religiose e filosofiche perchè uno può vedere tutta la creazione contemporaneamente. Da parte mia non provengo da nessuna corrente religiosa. Penso che abbia più a che fare con il fatto che la scienza lavora con leggi e, in un certo senso, le leggi sono qualcosa di eterno. Questo introduce la visione teista delle cose.

D.: Gli scienziati più convenzionali al di fuori della fisica, pensano ancora in termini di fisica classica, in termini di una visione lineare e materialista. Lei sta dicendo che molti fisici pensano ancora in quel modo?

Barbour.: Sì, penso sia vero.

D.: Come si può apportare un cambiamento di pensiero?

Barbour: Per prima cosa, non è facile cambiare il modo in cui la gente pensa al mondo. Questo è un processo che richiede molto tempo, per usare il linguaggio convenzionale. Ci vollero qualcosa come 150 anni perchè la proposta di Copernico fosse generalmente accettata.

La meccanica quantistica ha un’interpretazione notevole e radicale, detta interpretazione dei mondi multipli. All’inizio poche persone la presero seriamente. Circa dieci anni fa un piccolo gruppo di persone che cercavano di dare un senso alla cosmologia e alla meccanica quantistica, cercarono di creare quella che si potrebbe definire cosmologia quantica. La maggioranza di queste persone favorirono l’interpretazione dei mondi multipli perchè si trovarono nell’assoluta impossibilità di dare un senso alla meccanica quantistica in qualsiasi altro modo. ( …)

Penso che ci sia una prova chiara che più persone ora prendono seriamente l’interpretazione dei mondi multipli. Se diventa l’opinione di maggioranza tra i fisici, allora l’idea che ho proposto nel mio libro sarà molto più facile da accettare per la gente.
La cosa migliore che mi potrebbe succedere, sarebbe che gli scienziati cominciassero seriamente a cercare di smentire la mia teoria, perchè è sempre bene quando la gente non può smentire una teoria. Se non ce la fanno, allora ne viene fuori il meglio. (…)

Estratto da: Intervista a Julian Barbour – Scienza e Conoscenza n.3, 2003

 
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