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Coincidenza di linguaggio, Paola

11 martedì Set 2018

Posted by Paola in Estendere i confini, Paola, Percezione, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

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Coincidenza di linguaggio, Paola (2005)

“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo.” 

Wittgenstein

– – – – – – – – – – –

L’idea comune vede nel linguaggio (verbale, corporeo, musicale, visivo, etc.) il mezzo per il trasferimento delle informazioni dando per scontato che l’appartenere a una specifica cultura o gruppo garantisca la corretta comunicazione.

Quello che si nota a una più attenta osservazione è che nel passaggio da emittente a ricevente spesso avviene una distorsione, se non una perdita, dell’informazione originale. La complessità e le variabili sono tali da determinare in alcuni l’idea dell’incomunicabilità di qualsivoglia informazione. Se questo è un problema nella comunicazione interpersonale in ambito sociale, a maggior ragione sembrerebbe esserlo nell’acquisizione di ciò che si definisce “conoscenza spirituale”.

Ciò che s’intende come spirituale, è una conoscenza alla quale l’uomo sa – in modo innato – di poter accedere, pur percependola come superiore e immanente. Nonostante l’aggettivo “spirituale” abbia un significato ben preciso, succede che – a volte – questa conoscenza non venga considerata come il termine esplicitamente intende, ma affrontata come una qualsiasi materia accademica, trasferibile per via discorsiva o logica, supponendo che una mente allenata e un pensiero educato siano i requisiti necessari.

LA DIMENSIONE DELLA TRASMISSIONE

Il messaggio spirituale rimane nella sua integrità solo restando nella sua dimensione – cioè quella spirituale – pronto a fluire in chi è in grado di riceverlo avendo raggiunto quello stesso piano. Come una radio riceve il segnale solo se sintonizzata sulla frequenza del segnale stesso, così la conoscenza spirituale è ricevibile quando ci si sintonizza sulla sua frequenza d’origine. Quello che si può incontrare sul piano fisico non è una conoscenza o un messaggio spirituale in sé completo ma semplicemente un rimando, un’icona sul desktop inadeguata a esprimere la vastità di cui è segnale.

A volte dimentichiamo che ogni registrazione di conoscenza spirituale con cui si entra in contatto è il tentativo di esprimere qualcosa che, per sua natura, non è confinabile nella limitazione di una forma linguistica e, quindi, dei suoi derivati. Parole e suoni, immagini e visioni, per quanto ricche e dettagliate, sono tracce imperfette che, come vaghi accenni, possono anche confondere ed essere confuse.

La conoscenza, nel suo proiettarsi sulla dimensione fisica, inevitabilmente coinvolge mente e cuore, poiché diversamente non vi sarebbe presa di coscienza e nessun desiderio di approfondimento, ma fermarsi alla comprensione intellettuale (per quanto vasta) e al coinvolgimento emotivo (per quanto intenso) non è centrare lo scopo. L’indagare e frugare significati e associazioni mentali, carichi dell’emozione di un viaggio “pre-fissato”, predispone a una comprensione intellettuale che non garantisce la conoscenza di quello che si sta affacciando.

LA DIMENSIONE DELLA RICEZIONE

La dimensione dove si può raccogliere pienamente la conoscenza spirituale è il suo piano d’esistenza, il piano spirituale. Chi aspira a riceverla deve portarsi coscientemente in quella dimensione dove la mente e l’emozione assistono e registrano senza intervenire, permettendo – nella loro passività consapevole – di essere invase e sensibilizzate a una percezione sempre nuova.

La conoscenza spirituale volge direttamente alla parte spirituale dell’individuo, quella parte immensamente più estesa di quanto è in grado di concepire una mente ancora priva di esperienze trascendenti, quella sola in grado di accogliere e di elaborare pienamente l’intensità dell’esperienza. L’impressione che sul piano fisico viene riconosciuta in termini di pensiero e di emozione, sul piano spirituale è uno stato d’essere dell’essere, in cui le identità dell’osservatore e dell’osservato sfumano nella fusione.

Portarsi nella propria dimensione spirituale libera dai limiti della realtà di consenso e anche dall’idea che si ha dei termini, poiché ciò che non deriva dall’esperienza diretta è una costruzione che, confrontandosi con l’aspettativa, ci auto-preclude a quella conoscenza travolgente e non-intellettuale che è la dimensione spirituale.

Raggiungere lo stato dove si perdono i limiti dei riferimenti acquisiti intellettualmente, significa aprirsi alla vastità di noi stessi per scoprire quella conoscenza già appresa che difficilmente riconosciamo nell’attuale singola personalità con cui ci identifichiamo.

IL LINGUAGGIO DEL GRUPPO

Ci sono due linguaggi particolari che – spesso – vengono tra loro confusi o equiparati: quello utilizzato del gruppo d’appartenenza e il linguaggio personale.

Pur riconoscendo la conoscenza spirituale come universale, senza confini e proprietà, una volta che si procede alla sua trasposizione, l’illimitato viene limitato e caratterizzato. La conoscenza veicolata nel gruppo è una “trasposizione” nella forma comunicativa del piano umano di stati esistenti sul piano spirituale.

Ora, un’organizzazione sul piano fisico non può trasferire alcuna conoscenza spirituale a nessuno, può solo indicare l’esistenza e la fattibilità di una tale esperienza e allenare la persona al suo (della persona) raggiungimento. Questo per quanto anticipato, cioè che la conoscenza spirituale coincide con l’esperienza per chi – per affinità o capacità – la vive riportandone segno indelebile.

Il corpus degli insegnamenti del gruppo non ha la sua ragione d’essere nel trasferirsi pari-pari da una persona a un’altra, ma è lo strumento utilizzato per allenare l’individuo a espandersi consapevolmente nel suo stato spirituale, e grazie a questo sviluppo riappropriarsi della propria capacità di sperimentare. Il concetto è che se uno non vive la propria dimensione interiore sperimentando dentro di sé la sua reale esperienza/conoscenza, difetta dello strumento specifico che gli permette automaticamente l’ampliamento successivo. Come dire che se vedo, vedo e se non vedo, non vedo – non importa cosa ho sotto gli occhi.

Nel riconoscere che gli insegnamenti non sono la conoscenza ma sono solo gli strumenti che allenano a raggiungerla, ci si rende conto che il linguaggio utilizzato nel/dal gruppo è ugualmente uno strumento. Per esempio, in matematica si insegna a svolgere calcoli utilizzando lettere al posto di numeri. Il principio sottinteso è che attribuendo alle lettere un determinato valore il risultato sarà conseguente. Questi esercizi non intendono risolvere nulla di tangibile, essendo il loro scopo allenare la mente a riconoscere, impostare e risolvere problemi della più varia natura: grazie a questo apprendimento in astratto, quando le lettere si trasformano in valori che rappresentano una realtà concreta, l’architetto erige costruzioni di ogni genere mentre l’ingegnere e il fisico lanciano satelliti nel cosmo.

Allo stesso modo concetti, musiche, esercizi e pratiche che sembrano la conoscenza da apprendere, sono i mezzi utili per l’allenamento, sono – nella loro apparente consistenza – le astrazioni che vanno sostituite dall’indicibilità dell’esperienza.

IL LINGUAGGIO PERSONALE

Concomitante è il riconoscere il proprio linguaggio personale, cioè il significato che si attribuisce interiormente alle parole ascoltate o proferite. Molto spesso si ragiona sul significato di concetti e termini senza aver adeguatamente indagato sui collegamenti mentali e le emozioni che determinate parole – concetti o immagini – suscitano dentro di noi per se stesse. Il linguaggio personale si può intendere come quell’intima associazione che lega la parola-significato all’emozione-vissuto in una connessione indissolubile, spesso inconscia.

La costruzione del linguaggio avviene principalmente in famiglia e all’interno di un ambiente sociale legando il significato dei termini al vissuto. In seguito, quando si incontra un insegnamento o si entra in un gruppo, ci si conforma a un linguaggio dove i significati possono assumere differenti sfumature che, nonostante la comprensione intellettuale, permangono secondarie a quelle acquisite per prime. Per fare un esempio, sembra che nel bilinguismo in cui la seconda lingua è acquisita in tempi successi alla lingua madre, le aree cerebrali preposte alla comprensione di ciascuna lingua non sono vicine e avviene una “traduzione” da area a area, cioè da lingua a lingua. Nel bilinguismo acquisito durante l’infanzia le aree cerebrali della comprensione sono sempre distinte per ciascuna lingua ma tra loro adiacenti, e qui non c’è “traduzione” ma un’immediata comprensione, cioè ogni lingua viene gestita in completa autonomia essendo le peculiarità di entrambe completamente interiorizzate.

Il linguaggio personale è quel linguaggio intimo che ciascuno di noi usa inconsciamente, che da un lato si esteriorizza con un vocabolario e delle immagini comuni e dall’altro s’interfaccia con la propria speciale interiorità. È una lingua nascosta a qualsiasi percezione, spesso anche a quella della persona stessa. Questo tipo di linguaggio va distinto, osservato e compreso nel suo duplice aspetto, poiché in esso è possibile rinvenire una chiave di comunicazione tra le nostre dimensioni esteriori e interiori non solo di linguaggio, ma anche nella trasposizione di tutto ciò con cui si entra in contatto e che ci impressiona.

IL LINGUAGGIO DELL’ESPERIENZA

L’esperienza spirituale è uno stato dell’essere che non contempla la comunicazione per il semplice fatto che non c’è separazione delle parti e, quindi, necessità di comunicazione tra le stesse: tutto/tutti istantaneamente/totalmente si è, non essendoci spazio neppure per il pensiero. Poiché si realizza su un piano privo di attributi, colui che sperimenta mentre ancora partecipa di un corpo fisico trasferisce automaticamente secondo il grado di consapevolezza e sensibilità che dispone, per cui l’esperienza si converte in parte in qualcosa che lascia traccia nella mente e nel cuore, e a volte nel corpo fisico stesso (guarigioni, modificazioni fisiche).

Il linguaggio coinvolto in questo processo è il linguaggio personale in quanto – pur essendo l’esperienza disponibile per chiunque – rimane specifica per la persona che l’ha colta e vissuta, che non può che tradurla/ridurla a (e per) se stessa. In questo processo di consapevolezza, la frase di Wittgenstein è pertinente: per quanto l’esperienza spirituale sia sempre completa nella sua dimensione, la sua impressione sul piano fisico viene limitata dalla sensibilità percettiva che ognuno ha della propria parte spirituale, che pure partecipa della dimensione in toto. Per cui non esistono livelli e dimensioni spirituali (attribuzione quantitativa e qualitativa umana), ma livelli e dimensioni di percezione di chi esperisce.

Saper ascoltare, parlare e leggere il proprio linguaggio personale collega direttamente all’esperienza spirituale che esiste dietro – e si manifesta in – ogni avvenimento visibile. Infatti, la dimensione spirituale non è localizzata in confini, ma si è ‘separati’ da essa solo dalla limitazione percettiva. Essere padroni del proprio linguaggio interiore dispiega un’interazione con l’invisibile, permettendo di cogliere la natura più profonda di quanto si esprime nel visibile e così individuare le correlazioni e le influenze che si manifestano nella nostra vita in qualsiasi tipo di forma (insegnamenti, concetti, immagini, sogni, avvenimenti, incontri, coincidenze, etc.).

L’interpretazione di questo linguaggio è impegno del soggetto perché, pur essendoci un’apparente somiglianza nel visibile che induce a attribuire significati comuni, questa comunanza è legata sempre a una osservazione esterna e non dell’essere interiore, cioè il creatore del proprio linguaggio.

OLTRE IL LINGUAGGIO

Chi ha avuto consapevolmente un’esperienza spirituale – non importa di quale natura e intensità – riesce a riconoscere la stessa esperienza nel linguaggio personale di un altro che l’abbia raggiunta, non importa quanto diverso, incomprensibile e stravagante possa sembrare al resto del mondo. La comunicazione tra chi ha vissuto (o vive) l’esperienza spirituale oltrepassa sia gli aspetti esteriori che interiori di un linguaggio personale per stabilirsi sulla dimensione dell’invisibile, dove la comprensione non poggia più sul piano della manifestazione – con tutte le sue particolari sfumature intellettuali, emotive e psicologiche (che permangono e proseguono nella personalità fenomenica) – ma avviene nella dimensione priva di barriere dove “tutti i linguaggi svaniscono coincidendo”. Potendo ben affermare:

“I limiti del mio linguaggio non sono i limiti del mio mondo“.

————–

 – Estendere i confini, 3

The numerology of the I Ching, Master Taoist Alfred Huang (estratto) (Libro)

29 mercoledì Ago 2018

Posted by Paola in I Ching, Libri, Linguaggio, Master Huang, Stati altri di coscienza, Taoismo

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alfred-huangThe Numerology of the I Ching, Master Taoist  Alfred Huang – Inner Traditions Publishing (estratto) (Libro)

Se mi fossero dati altri anni di vita, ne dedicherei cinquanta a studiare il Libro dell’I, e allora soltanto potrei forse non commettere grandi errori.

– Confucio all’età di 70 anni

Estratto dalla prefazione

Il mio contributo in questo libro è trattare i misteri della sequenza di Re Wen, il significato nascosto delle yao [linee, ndt], il governatore del gua (la linea che rappresenta il tema centrale del gua [esagramma, ndt]) e i giudizi di fortuna o sventura. Ho prestato particolare attenzione a trattare i trentasei gua più familiari ai cinesi e al significato celato nel gua mutuo [1].

Il metodo di divinazione introdotto in questo libro è completamente diverso da quello presentato in The Complete I Ching. Per i cinesi consultare l’I Ching è tanto una scienza quanto un’arte. In quanto arte, prevede di esercitare la propria intuizione nel meditare i simboli e compredere il testo. Come scienza, richiede che si possegga la conoscenza delle linee e dei gua, i loro nomi, simboli e strutture, e anche le loro posizioni, le relazioni e significati. Si dovrebbe anche conoscere i principi celati nei mutamenti e nella numerologia delle linee e dei gua. In questo modo, una persona può affermare di comprendere veramente l’I Ching ed essere in grado di apprezzarne la profondità e mistero.

Nel corso della storia cinese, sono apparse oltre un centinaio di scuole differenti sul come studiare l’I Ching e applicare la sua saggezza nella vita quotidiana. Ogni scuola ha scritto dei commentari e ha portato i suoi contributi. C’è un numero immenso di commentari sull’I Ching, e i cinesi definiscono la cosa “vasta come il mare”. Nonostante un tale numero di approcci, tutti questi possono essere catalogati in due scuole principali: la Scuola della Moralità e della Ragione (The Moral and Reason School), e la Scuola del Simbolo e del Numero (The Symbol and Number School). La Scuola della Moralità e della Ragione pone l’enfasi sul significato del testo e il suo messaggio morale. La Scuola del Simbolo e del Numero pone l’attenzione sulle forme delle linee e le loro reciproche relazioni, così come sulla numerologia e i fenomeni naturali rappresentati dai simboli e dai numeri. La Scuola della Moralità e della Ragione è nota come la scuola Confuciana dello studio dell’I Ching, mentre la Scuola del Simbolo e del Numero è conosciuta come la scuola Taoista. La Scuola della Moralità e della Ragione insegna l’arte del comprendere l’I Ching, mentre la Scuola del Simbolo e del Numero ne insegna la scienza. Il libro The Complete I Ching segue la scuola Confuciana, mentre questo libro segue la scuola Taoista. Attraverso questi due libri uno può conoscere tanto l’aspetto yin dell’I Ching quanto il suo aspetto yang: sono come fratello e sorella. In realtà, secondo il mio piano iniziale, questi erano due volumi di un unico libro.

– Estratto da: The numerology of the I Ching, A sourcebook of symbols, structures and traditional wisdom – Master Taoist Alfred Huang, Inner Traditions Publishing

Traduzione: Paola

Nota – [1] In altre traduzioni: intrinseco o reciproco.


Link: Master A. Huang, Articoli correlati

L’allucinazione, L. Watson

15 martedì Mag 2018

Posted by Paola in Coscienza, Evoluzione, Inserimenti, Neoscienze, Percezione, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

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L’allucinazione, Lyall Watson – (estratto da “SuperNatura”, ed. Rizzoli (1974), attualmente fuori catalogo)

Le droghe e le pratiche allucinogene rivelano qualcosa che sembra caratteristico dell’uomo. Esse illuminano soltanto le frange di una estensione mentale così vasta che è difficile da comprendere. Sidney Cohen, direttore dell’Istituto di salute mentale nel Maryland, descrive il cervello come «una fabbrica di simboli il cui scopo principale è la gestione del corpo. La sua attività secondaria sembra essere quella di riflettere sulle cose, sul dove vanno e sul che cosa significano. La sua capacità unica di interrogarsi e di essere consapevole è del tutto inutile ai fini della sopravvivenza fisica» (76). Le occhiate che abbiamo incominciato a rivolgere alla sfera cerebrale, sollevano infatti alcuni problemi evoluzionistici senza precedenti. Nessun biologo affermerebbe che le attività straordinarie del cervello siano inutili per la sopravvivenza: il cervello è parte di noi e noi siamo parte dell’ecologia come qualunque altra specie. Quello che abbiamo fatto al nostro ambiente è naturale come il tuono o il lampo. Il nostro cervello ha fatto di noi una grande forza dell’evoluzione, e ci vorrà molta immaginazione e creatività da parte sua per tirarci fuori dalle attuali difficoltà. Ma sono d’accordo con Cohen sul fatto che l’estensione del potenziale umano ispiri sgomento; noi sembriamo avere acquistato capacità al di là dei nostri bisogni attuali e drammatici e sembriamo schiacciati da questo peso.

La natura fa raramente qualcosa senza una buona ragione, eppure ha attraversato qualche difficoltà lungo gli ultimi dieci milioni di anni – un tempo molto breve secondo le sue misure – per rifornirci di un’enorme corteccia cerebrale dalla capacità apparentemente illimitata. Abbiamo acquistato questo organo incredibile a spese di parecchi altri, eppure ne usiamo soltanto una piccola parte. Che fretta c’era? Perché abbiamo corso così in fretta lungo questa linea di sviluppo? Avremmo certamente potuto cavarcela con molto meno. Al momento siamo come una piccola famiglia di inquilini che hanno occupato un vasto palazzo ma non sentono il bisogno di muoversi oltre il comodo e ben fornito appartamento localizzato in un angolo del sottosuolo.

Una consapevolezza quasi subliminare del resto della struttura ci ha sempre tentato. Brevi sguardi gettati nelle altre stanze hanno portato pochi avventurosi individui a fare sforzi più precisi di esplorazione, ma i metodi tradizionali hanno avuto soltanto un parziale successo. Alcuni hanno tentato delle tecniche ritmiche, come i canti cristiani o i movimenti ondeggianti della preghiera indù, o le danze vorticose dei dervisci, onde provocare uno stato di trance che potesse portarli al di là della barriera. Alcuni hanno tentato di alterare la chimica del loro corpo con una profonda respirazione o col digiuno o con la rinuncia al sonno. Alcuni hanno cercato una dissociazione nel dolore fisico attraverso l’auto-flagellazione o la mutilazione o impiccandosi al soffitto. Gli indiani Sioux usavano il caldo e la sete nel loro rituale solare per raggiungere una specie di crudele delirio; gli egizi cercarono l’isolamento sociale nei loro rituali nel tempio. La cosa che tutti questi metodi hanno in comune è che cercano di arrestare il flusso di informazioni con cui l’ambiente circostante cerca di sommergerli; sia eliminando l’afflusso di sensazioni, sia rendendole monotone e prive di significato. Quando questo è fatto, alcune fra le porte della mente cominciano a schiudersi.

La tecnica della deprivazione sensoriale è stata perfezionata in molte recenti ricerche. All’Università McGill i soggetti vennero confinati in una stanzetta acusticamente isolata e portavano occhialoni che ammettevano soltanto una luce diffusa. A Princeton vennero tenuti in un cubicolo piccolo, isolato visivamente e acusticamente, e a temperatura costante. E in Oklahoma e nello Utah essi vennero immersi in una cisterna scura d’acqua mantenuta a temperatura del sangue in modo che essi non ricevessero né luce né suono né sensazioni tattili dal loro ambiente. L’immediata reazione in tutti questi studi fu il ritirarsi da questa monotonia dentro il sonno, ma una volta che questa possibilità di fuga venne impedita ed essi non poterono più dormire, i volontari incominciarono a incontrare nuove difficoltà. Tutti i soggetti persero il senso del tempo e sottovalutarono il suo scorrere; alcuni dormirono per oltre ventiquattr’ore e affermarono che era stato soltanto un’ora o due. Il disorientamento e la mancanza di informazioni da parte dell’ambiente circostante rese loro difficile pensare seriamente e costruire giudizi normali. I sogni incominciarono ad apparire più frequentemente, talvolta con spaventosa intensità, e prima o poi l’assoluta irrealtà della situazione portò la maggior parte dei soggetti all’esperienza dell’allucinazione. Non si tratta solo di «fantasmi» sensoriali come i bagliori di luce o i rintocchi di campana, ma avvenimenti completi, complessi e interamente convincenti (329).

Quello che sembra accadere è che in circostanze normali la grande quantità di informazioni che noi riceviamo è regolata dalla formazione reticolare, che seleziona e lascia passare solo ciò di cui abbiamo bisogno e di cui “possiamo occuparci in quel momento. In condizioni di deprivazione sensoriale noi riceviamo molto poco, cosicché ogni pezzetto di informazione riceve molto di più della quantità solita di attenzione, e diventa enormemente ingrandita. La nostra visione si restringe, cosicché gonfiamo quello che riceviamo fino a riempire l’intero schermo, come un film fatto passare al microscopio. Quindi parte dell’allucinazione è semplicemente un primo piano migliorato della realtà, ma c’è qualcosa di più. Lasciato senza il suo solito sbarramento di stimoli, il cervello abbellisce la realtà e la elabora, attingendo alla sua riserva di inconsce cianfrusaglie per riempire il tempo e lo spazio a disposizione. Eppure neanche questo va abbastanza lontano, perché ci sono aspetti dell’allucinazione che sembrano risiedere al di fuori sia delle possibilità coscienti del cervello sia dì quelle incoscienti.

Quasi ogni sottocultura ha cercato prima o poi una radice, un’erba o una bacca per far avanzare il processo di dissociazione. I persiani avevano una pozione chiamata soma, la quale, secondo gli annali sanscriti «rendeva un uomo simile a un dio». Elena di Troia aveva il nepente. In India e in Egitto hanno sempre usato hashish e marijuana. In Europa e in Asia c’era il magnifico fungo a macchie rosse Amanita, che uccideva le mosche e rendeva furiosi gli antichi cavali scandinavi. Il Messico ha la sua gloria mattutina fiore di cactus, e diversi «funghi divini». Tutte queste piante contengono agenti chimici che provocano stati trascendentali, e molti di essi sono stati usati come additivi in cerimonie magiche e religiose, ma la sostanza psichedelica più sconvolgente e significativa di tutte non cresce spontaneamente in natura ma dev’essere estratta dai grani della segala cornuta. Si tratta dell’acido lisergico dietilamidico, o LSD.

Questo acido è stato provato su molti animali, ma sembra avere avuto un piccolo effetto su di loro a eccezione forse, del ragno, il quale costruisce una ragnatela un po’ più fantasiosa. Esso sembra interessare direttamente i livelli più alti del pensiero, e anche una piccola porzione, circa un trecentimillesimo di oncia, provoca effetti profondi sull’uomo. A seconda di come è preso, gli effetti cominciano entro una mezz’ora, raggiungono il massimo circa un’ora e mezzo dopo, e terminano sei o anche sette ore più tardi. La maggior parte dell’azione cerebrale sembra essere confinata al sistema reticolare e al sistema limbico, che regola le esperienze emotive. Quindi esso lavora direttamente in queste zone di filtraggio e di confronto delle esperienze sensoriali, e in quelle aree che determinano i sentimenti individuali su questo materiale. La parola, la capacità di camminare, e la maggior parte delle attività fisiche restano totalmente non influenzate. La pressione sanguigna e il polso sono normali, i riflessi sono acuti, e non vi sono spiacevoli effetti secondari. Sembra che l’LSD operi soltanto nella zona di più alta consapevolezza del cervello umano, in quella che noi crediamo la nostra personalità.

L’effetto psicologico più considerevole, come nella privazione sensoriale, è un rallentarsi del tempo: le lancette dell’orologio sembrano non muoversi affatto. Questa specie di eterno presente è molto simile a una versione prolungata del modo in cui il tempo può arrestarsi in momenti di grande pericolo personale. Noi abbiamo nella nostra fisiologia la capacità di produrre questo effetto nei casi di emergenza, e l’LSD sembra portarla un passo più in là, ma senza che abbia più a che fare con la sopravvivenza fisica. La separazione fra l’io e il non-io, l’antico, primevo rifugio dell’inconscio, scompare molto presto, e i confini dell’io si dissolvono. Cohen dice : «La sottile protezione della ragione lascia via libera alla fantasticheria, l’identità è sommersa da sentimenti oceanici di unità, e il fatto di vedere perde i significati convenzionali impostici dagli oggetti visti».

È importante a tal proposito rendersi conto che noi di solito percepiamo soltanto quello che possiamo concepire. Noi costringiamo le sensazioni a coincidere con la nostra idea di come le cose dovrebbero essere. L’esperimento classico di dotare la gente di occhiali che invertono ogni cosa lo dimostra in modo definitivo. Entro un giorno o due il cervello incomincia a correggere il campo visivo e questa gente ricomincia a vedere tutto ancora nel modo «giusto», ma quando si tolgono gli occhiali il mondo intero risulta capovolto. Quindi il mondo viene visto non com’è, ma come dovrebbe essere. Parte del problema è che noi riceviamo tante di quelle sensazioni da essere obbligati a scegliere, e a ritrovarci con una visione della realtà attentamente selezionata e molto ristretta. L’LSD ha la capacità di toglierci i paraocchi e di farci vedere le cose con occhi nuovi, come se fosse la prima volta. In questa condizione possiamo ricominciare ad apprezzare i suoni dei colori, il profumo della musica, e le trame degli umori. Le api e i pipistrelli è i calamari del profondo mare, pur senza possedere l’estensione della nostra sensibilità e dei nostri interessi, fanno questo continuamente.

I bambini vedono di solito le cose con enorme chiarezza. E’ possibile che quello che chiamiamo allucinazione sia una parte normale di ogni esperienza infantile (i loro disegni sembrano confermarlo); ma quando diventiamo adulti le nostre visioni si oscurano e alla fine si estinguono, perchè esse di solito hanno un valore sociale negativo. Ogni società si basa su certe regole di condotta che indicano normalità, e per una combinazione di queste pressioni sociali e il nostro bisogno di adattamento la maggior parte di noi finisce dentro questi limiti. Pochi sfuggono a ciò e vengono classificati come pazzi e privati della loro libertà con la scusa che abbisognano di assistenza, ma in realtà il loro confinamento ha soprattutto lo scopo di proteggere la società piuttosto che questi individui da se stessi. L’unione Sovietica non fa misteri a questo proposito e regolarmente incrimina i dissenzienti sostenendo che essi devono essere pazzi se non vanno d’accordo con lo Stato. Pochi individui riescono a scuotere le restrizioni della normalità e a farne a meno, perché fanno questo all’interno di una sfera religiosa nella quale queste attività rivoluzionarie sono consentite in quanto sono state definite «di ispirazione divina».

Ben lontana dall’essere confinata, la maggior parte della gente che ha questo tipo di esperienza trascendentale ritorna alla società con una nuova visione delle cose e comincia a cambiare la propria vita e quella degli altri – non sempre per il meglio. Alcuni santi e profeti sono stati certamente pazzi, ma non ha senso definirli tutti insani. La loro esperienza non è unica. Quasi ognuno di noi, in qualche momento della sua vita, ha un momento di rapimento o di estasi ispirata da un lampo di bellezza, dall’amore, da un’esperienza sessuale o da un intuito. Queste visioni momentanee di perfezione e di godimento estetico sono frammenti di uno stato che i cristiani chiamano «divino amore», i buddisti Zen «satori», gli indù «moksha», e i vedanta «samadhi». Simili esperienze sono così poco comprese da essere tutte ammucchiate nel misticismo e considerate come soprannaturali. Nel senso che essi non possono essere ospitati nella definizione di «sanità» culturale, questi stati sono «insani», ma ci può aiutare a capirli meglio il fatto di rinunciare a questa pesante etichetta e di riferirci a essi come a stati di non-sanità.

Non c’è niente di soprannaturale in essi, e l’importanza di prodotti chimici come l’LSD è di mostrarlo molto chiaramente, semplicemente togliendo gli strati superficiali di «sanità» e facendoci di nuovo diventare naturali. Uno degli effetti più comuni delle sostanze psichedeliche è di acuire la ricettività e di consentire di raccogliere i suggerimenti ambientali con squisita sensibilità. In situazioni sperimentali di laboratorio i soggetti all’LSD spesso sembrano leggere nella testa dell’esaminatore, ma è chiaro dalle analisi che essi stanno semplicemente reagendo, nel modo in cui fanno molti animali, ai più piccoli cambiamenti di tono, di espressione facciale, di posizione. Noi siamo sempre capaci di raggiungere questo genere di percezione subliminare, che è davvero supernaturale se la paragoniamo ai nostri livelli normali di reazione, ma nella più vasta arena biologica questi talenti sono cosa molto comune e del tutto naturale. Il nostro stato di veglia «sana» è uno stato di inibizione.

Parte di questo è necessario per evitare di essere schiacciati dalla quantità di sensazioni sopraggiungenti, ma le barriere erette, dal sistema reticolare a loro volta ci tolgono molto di ciò che è pieno di magia e di ispirazione. Questo è assurdo quando ormai disponiamo di un cervello che per la prima volta è capace di apprezzare queste meraviglie. Non sto raccomandando una dissociazione di massa e una fuga generale dentro queste zone di insanità. Blake, Van Gogh, Verlaine, Coleridge e Baudelaire vissero e lavorarono molto spesso in uno stato di coscienza trascendentale, e soffrirono tremendamente nel loro sforzo di rompere le barriere della ragione e della realtà.

Ora, forse più che in qualsiasi altro momento della nostra evoluzione, abbiamo bisogno di vedere chiaramente i problemi che ci affliggono, ma il nostro sforzo diventa inutile se non impariamo ad apprezzare il fatto di essere diventati padroni del nostro destino. Abbiamo bisogno di sapere dove stiamo andando e come ci arriveremo. Abbiamo già incominciato a fare uso dei nostri talenti coscienti ma abbiamo totalmente trascurato quelli che sono raggiungibili dall’altra parte della mente. La natura ci ha dato tutto l’equipaggiamento necessario a questo scopo, nello spazio che è contenuto tra le nostre orecchie, e le tecniche di ipnosi, di autosuggestione, di sogno e di allucinazione ci danno un’idea dei poteri che possediamo. Tutto quello che dobbiamo fare è usarli saggiamente.

(76) Gohen S.Drugs of Hallucination London: Paladin, 1971 (329) Dernon, I. A. Inside the black room London: Penguin, 1966

Una nota sull’ “intento”, Paola

14 sabato Apr 2018

Posted by Paola in Paola, Percezione, Stati altri di coscienza

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Sull’ “intento”, Paola (nota al gruppo di pratica)

Vorrei condividere una riflessione riguardo a come ci poniamo nelle nostre pratiche e, talvolta, nelle nostre azioni.

Praticare delle tecniche ci porta in primo luogo ad essere e poi, per conseguenza, a fare con la capacità raggiunta dal nostro essere attraverso il praticare. Potremmo dire, quindi, che nel nostro paradigma fare ed essere è un unicum, palese testimonianza l’uno dell’altro.

La chiave dell’efficacia delle nostre pratiche e, anche, delle nostre azioni, è l’intento, parola che talvolta non è ben compresa. Cos’è l’intento? Il vocabolario ci offre due accezioni che, per quanto mi riguarda, si rafforzano a vicenda: 1) come sostantivo, è il fine che ci si ripropone di raggiungere, e 2) come participio/aggettivo, è un raccoglimento dell’attenzione verso qualcosa di specifico. Tuttavia, io vorrei aggiungere un’altra valenza: 3) la fiducia che ci permette di agire liberamente.

Quando pratichiamo e agiamo con intento non possiamo avere dubbi sulla riuscita del nostro operato, che si tratti di una tecnica o di un’azione. Quando operiamo nel pieno rispetto del cerchio della vita sia visibile che invisibile – nel rispetto della libertà che ciascun individuo possiede – confidiamo che ciò che si manifesterà non potrà che essere ciò che di meglio può avvenire, per noi e per il tutto.

Quindi l’intento è certamente una profonda convinzione ma anche un’intrinseca fiducia. Se dovesse mancare questa componente, l’insicurezza o il dubbio inficerebbero il risultato. Qualora insicurezza e dubbio dovessero aleggiare intorno noi, ci si dovrebbe chiedere da quale sentimento, tensione o pensiero siano messi in moto. Forse dentro di noi non siamo convinti della reale correttezza della nostra azione? Forse temiamo un ritorno in qualche modo negativo? Se questi sono i pensieri, allora si dovrebbe mettere in questione la propria sincerità e coerenza.

È anche per questo che quando ci accingiamo a intraprendere un’azione per ottenere conoscenza, saggezza o guarigione, dobbiamo distaccarci dalla nostra personalità ordinaria ed entrare con un atto di volontà in un diverso stato di consapevolezza interiore che, per la sua natura di a-spazialità e di a-temporalità, non tiene conto delle aspettative comuni e dei valori di consenso.

Nel momento in cui accettiamo di entrare in una dimensione dove il bene comune prevale su un presunto bene personale, si dovrebbe anche accettare di essere noi per primi a fare un passo indietro rispetto alle nostre aspettative o desideri.

Quando ci predisponiamo a un’azione che riteniamo connessa a valenze più alte, il nostro intento deve condensare tutti i valori superiori di unità e bene comune, la determinazione e la focalizzazione di operare in modo corretto, con la confidenza che si percepisce attraverso l’alleanza con tutta la vita e gli esseri viventi, sia biologici che non.

Il nostro intento, inoltre, dovrebbe anche essere libero da ogni supposizione o aspettativa, poiché le aspettative non sono generate dal futuro ma del passato. Proiettare nel futuro il passato, è impedire a ciò che “ancora non è mai stato” di essere. Quindi, nel momento in cui ci accingiamo a “esprimere l’intento” per una nostra azione, dobbiamo sentirci disponibili a sperimentare qualcosa di assolutamente nuovo, imprevisto, imprevedibile e che è, talvolta al di là dell’apparenza, sicuramente appropriato e conforme al nostro intento.

Non mi è mai successo e neppure ho conosciuto qualcuno che operando con fiducia, convincimento e apertura non abbia ricevuto ciò che il suo cuore più profondo veramente anelava, che si trattasse di una conoscenza, di una guarigione o anche di un piatto di minestra. —

Paola, Paradigma 4

Caratteristiche dei sognatori lucidi (estratto dal libro)

31 sabato Mar 2018

Posted by Paola in Coscienza, Libri, Neoscienze, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

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Caratteristiche dei sognatori lucidi – Estratto da “Il sonno, il sogno, la morte”, Dalai Lama, a cura di Francisco J. Varela – Ed. Neri Pozza (2000)

«Sempre e ovunque, gli esseri umani hanno dovuto affrontare due esperienze fondamentali, durante le quali la mente ordinaria sembra dissolversi per penetrare in una dimensione radicalmente differente. Il primo di tali stati è il sonno, costante compagno dell’umanità, transitorio e pervaso dal sogno, la cui esperienza ha incantato le diverse culture sin dagli albori della storia. Il secondo è la morte, il grande e abissale enigma, l’evento conclusivo che condiziona l’esistenza individuale e il rituale culturale. Sono queste le “zone d’ombra dell’io”, rispetto a cui la scienza occidentale spesso si trova a disagio, essendo caratterizzate da un contesto assai diverso da quello dell’universo fisico e della causalità fisiologica. Al contrario, la tradizione buddhista tibetana si muove con la massima naturalezza in questo ambito e con un grande bagaglio di conoscenza.
Il libro che presentiamo racconta una settimana di esplorazioni in questi due regni di trasformazione radicale del corpo e della mente umana. Questa indagine ha preso la forma di un dibattito straordinario tra il Dalai Lama, affiancato da pochi altri esponenti della tradizione tibetana, e alcuni rappresentanti della scienza e dell’umanesimo occidentale». Francisco J. Varela

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Caratteristiche dei sognatori lucidi – Estratto dal cap. 4, Il sogno lucido

“Eravamo interessati alle differenze tra un sogno ordinario e un sogno lucido”, proseguì Jayne. “L’unica differenza consiste nel fatto che sappiamo che stiamo sognando, oppure ci sono altre discordanze? Tutto dipende dalla persona a cui lo chiediamo. Se chiediamo a un sognatore quali siano le eventuali differenze tra un sogno lucido e un sogno non-lucido, questi affermerà che il sogno lucido è completamente diverso: più eccitante e vivido. Se invece chiediamo a un osservatore esterno di leggere le trascrizioni di sogni lucidi e non-lucidi, ci dirà che praticamente non ha notato differenze. Grazie all’analisi statistica, possiamo appurare come nel sogno lucido ci sia un maggiore movimento del corpo, e come il suono abbia un ruolo più importante. Questi due fattori, nel complesso, ci invitano a considerare l’idea dell’equilibrio. L’equilibrio fisico sembra molto importante nel sogno lucido, non solo durante il sogno stesso, ma anche nello stato di veglia. L’equilibrio fisico è importante, come nel caso di un sogno in cui stiamo volando, ma l’equilibrio emotivo è altrettanto importante: in questo sogno vogliamo fare qualcosa, ma dobbiamo ricordare che stiamo sognando e quindi ci dobbiamo destreggiare tra due pensieri. Abbiamo ipotizzato che il sogno lucido possa essere associato al sistema vestibolare dell’equilibrio fisico, che è collegato alla produzione dei movimenti dell’occhio nel sogno. Altro punto interessante: abbiamo scoperto che nei sogni lucidi ci sono meno personaggi rispetto ai sogni non-lucidi. Tutto ciò induce a chiederci se non ci sia una predisposizione psicologica, cognitiva al sogno lucido. E abbiamo concluso che in effetti è così: a elevate capacità di orientamento ed equilibrio corrisponde una maggiore frequenza di sogni lucidi”.

Il Dalai Lama precisò che i meditatori con un livello di consapevolezza superiore alla media sembrano più sensibili all’esperienza del sogno lucido: “Forse i meditatori hanno una destrezza particolare, visto e considerato che intervengono molto sulle energie fisiche e sulla condizione psicofisica. Forse grazie a tutto ciò raggiungono uno stato di grande armonia. Riterrebbe che la capacità di apprendere la tecnica del sogno lucido possa essere legata al livello d’intelligenza del soggetto?”

(Jayne) “Si tratta di qualcosa che è stato dimostrato, almeno in parte. Tuttavia, in linea di massima, si tratta di un fattore meno importante rispetto al senso dell’orientamento fisico nello spazio. C’è chi si perde completamente in un bosco, o per le vie di una città sconosciuta. Altri riescono a rendersi conto di dove si trovano piuttosto rapidamente, non grazie a ciò che vedono, ma in virtù del loro senso fisico della direzione. Le persone che possiedono questa propensione naturale sono più soggette al sogno lucido. Tra l’altro, anche la meditazione sembra incrementare il senso dell’orientamento. Un altro fattore è l’abilità dei sognatori lucidi di risolvere problemi spaziali complessi, come orientarsi in un labirinto. In queste situazioni i sognatori lucidi si dimostrano particolarmente abili. Infine, costoro prima di addormentarsi manifestano una maggiore attività immaginativa, e sono anche più propensi a sognare a occhi aperti.

“I tratti della personalità sono un terzo fattore rilevente, anche se di minore peso rispetto al senso dell’equilibrio e dell’orientamento. I sognatori lucidi sono spesso persone che tendono ad avere un temperamento androgino, e che sono disposti a prendersi qualche rischio nell’esplorazione della propria interiorità, come provare una nuova droga o il tamburo degli sciamani. Sono assai predisposti ad avere consapevolezza di se stessi”.

– Estratto da “Il sonno, il sogno, la morte“, conversazioni con il Dalai Lama a cura di Fancisco J. Varela (edizioni Neri Pozza)

Indice – Preludio al viaggio – 1. Cosa c’è nel sè? – 2. Il sonno del cervello – 3. I sogni e l’inconscio – 4. Il sogno lucido – 5. I livelli di coscienza e lo yoga del sogno – 6. La morte e il cristianesimo – 7. Cos’è la morte fisica? – 8. Esperienze di pre-morte – Conclusioni, Riflessioni sul viaggio

Le Tecniche – Strumenti di auto-conoscenza e auto-sviluppo, Paola

21 mercoledì Mar 2018

Posted by Paola in Estendere i confini, Paola, Percezione, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

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Le Tecniche – Strumenti di auto-conoscenza e auto-sviluppo, Paola (2004)

Qui non si tratta di imporre un punto di vista ma di comunicare un metodo di cui ognuno si avvarrà a suo piacere come di uno strumento.
– Goethe

– – – – – – – – – – –

Le Tecniche esistono da quando esiste l’uomo, e ogni aspetto della vita trova disponibile una serie di tecniche per la sua miglior gestione. Pur sembrando “artifici”, in realtà le tecniche sono produzioni spontanee di supporto, nate dall’esperienza di uomini desiderosi di semplificare o di ottimizzare un processo, rendendolo poi disponibile altri.

Ormai siamo abituati a essere forniti di tecniche. Fin dall’infanzia ci viene insegnato il “metodo migliore per …” e meccanicamente facciamo nostri procedimenti e scorciatoie. In breve tempo otteniamo risultati che – prima che la tecnica venisse ideata – richiedevano ben altro impegno.

A prima vista, questo modo di procedere sembra rendere schiavi della fretta e del risultato, con conseguente perdita della creatività e cecità alla ricchezza dei particolari. Parlare quindi di Tecniche a favore della consapevolezza può sembrare contraddittorio.

La consapevolezza è uno stato naturale, solo che l’uomo, per la maggior parte del tempo, tende a farsi catturare dalle meraviglie del mondo esterno, ignorando se stesso fin quando non sente la necessità di tornare a conoscersi.

Amo definire le Tecniche come specchi, strutture e catalizzatori: dove questi tre aspetti si legano strettamente in un unico insieme.

Tralasciando l’elencazione di tecniche e caratteristiche, parto dal presupposto che chi legge abbia una qualche concreta esperienza in merito e, di conseguenza, ben sappia cosa e perché stia praticando, o cosa e perché abbia smesso di praticare.

Un aspetto che ritengo importante è l’uguaglianza del valore delle Tecniche: non c’è una Tecnica migliore di un’altra. La qualità del risultato è in mano al praticante. Questo può sembrare scontato ma non lo è, perché non tutte le Tecniche sono per tutti. Con questo non intendo le abilità personali (migliorabili) o la difficoltà intrinseca (superabile), ma proprio la “compatibilità” tra praticante e pratica: avere delle preferenze significa conoscere, rispettare e valorizzare il proprio “essere”.

A prescindere dalle classificazioni – fisiche, mentali, psicologiche, energetiche o quant’altro -, la pratica di una tecnica coinvolge in realtà tutti gli aspetti della persona. Questo perché l’uomo è sempre nella sua totalità, frammentato solo perché in tal modo vuole considerarsi. Le nuove scienze stanno ora scoprendo (con strumentazioni sofisticate e sensibili) le sottilissime ma forti interconnessioni mente-emozione-corpo-emozione-mente-corpo, circolo ininterrotto di scambi e comunicazioni. Aspetti sinora ignorati o sottovalutati che riserveranno notevoli sorprese in futuro.

TECNICHE E FILOSOFIA (PASSATO – PRESENTE – FUTURO)

Molti arrivano a praticare delle Tecniche perché hanno abbracciato una Scuola di Pensiero. Se vogliamo analizzare, anche chi pratica aerobica e body-building sta abbracciando una filosofia.

Chi ha avuto modo di girare di scuola in scuola, di palestra in palestra, ha una chiara idea della diversità-uguaglianza delle tecniche proposte. A volte ci si trova di fronte a tecniche che di nuovo hanno solo il nome, oppure definite innovative solo per piccoli differenti particolari, quando poi non sono altro che miscellanee di diversa provenienza e cultura.

Questo variegato mondo di proposte lascia in genere perplessi e fa scaturire interrogativi, dubbi e aspettative: funzionerà? – farà male? – sarà più efficace? – avrà controindicazioni? – sarò capace? – che garanzia ho che … ? – aumenterà la mia energia? – diventerò telepatico? – vedrò l’aura?, e così via … Come districarsi? A chi chiedere o credere?

Ogni Tecnica è nata in un luogo e in un’epoca: chi l’ha ideata è figlio del suo tempo e fratello dei suoi contemporanei. Sono prodotti di-e-in quel presente. Quello che ha senso ed efficacia in un contesto, variate le variabili – le condizioni spazio/tempo – può anche differire nella sua espressione …

Non penso che gli uomini siano “sempre uguali” a se stessi e, soprattutto, non c’è un uomo uguale a un altro. C’è chi crede che quello che si è acquisito può esser dimenticato ma non perduto, e la scienza conferma quanto siano differenti la mente e il fisico dell’uomo attuale rispetto a pochi decenni fa: non ultimi per gli stimoli ambientali e sociali con cui ci confrontiamo, e per la differente concezione di sé che l’uomo moderno occidentale vive. Le modifiche, più che opportune, sono spesso indispensabili.

La tecnica funziona non per la filosofia da cui è scaturita, ma perché agisce concretamente su alcune leve dello strumento umano. Ed è pur vero che le convinzioni personali sulla sua efficacia o non efficacia influiscono parimenti sul risultato. L’energia segue il pensiero portandone il colore, quindi la tecnica contiene un valore sensibile “attivato” o “disattivato” dal praticante e, parimenti, il praticante detiene quel valore sensibile – il pensiero – che attiva o disattiva la tecnica. L’intensa convinzione personale sulla correttezza della filosofia in cui è inserita la propria pratica è per molti garanzia di successo. E infatti, così è.

TECNICHE – STRUTTURE FUNZIONALI

Le Tecniche possono essere considerate delle strutture funzionali, in quanto nascono per uno scopo. Intendendo con questo che sono un mezzo e non un fine.

L’esecuzione della tecnica porta dei risultati “dentro” la persona, e questi risultati si riconoscono quando manifestati “fuori”. Lo scopo non entra nel merito di quanto bravi si è “a fare”, ma in ciò che “si sviluppa” nel fare. Le Tecniche sono strumenti di cui l’uomo dispone non per diventare qualcosa ma per manifestare chi già è e cosa già ha.

L’esercizio può solo portare alla luce le potenzialità più o meno espresse della persona. Praticare pensando di “diventare come …” è un pre-concetto limitante che può generare frustrazione, disaffezione e, infine, senso di fallimento o incapacità: esattamente il contrario di quanto ci si era preposto. Le tecniche correttamente utilizzate portano piacere, serenità e fiducia in se stessi.

Da qui nasce la necessità di trovare o scegliere una serie di tecniche che permettano lo sviluppo naturale e armonico delle caratteristiche individuali. Attraverso la pratica una persona impara essenzialmente a conoscersi: conosce i non-limiti del proprio corpo, le potenzialità sotto-utilizzate della propria mente e la forza motrice delle proprie emozioni. Proprie, e non di altri. Praticare una o più tecniche, simultaneamente o ciclicamente, permette di entrare in confidenza con il proprio essere più profondo, e scoprirlo immenso e stupefacente.

Le Tecniche si presentano con uno scopo principale manifesto diramandosi poi in molteplici realizzazioni “secondarie” – spesso non valorizzate o persino ignorate. Nulla che viene fatto rimane isolato, ma si riverbera – come un’eco nello spazio – colpendo di riflesso molte pareti. Chi pratica tecniche fisiche ne scopre i benefici in termini di maggiore lucidità e presenza mentale, rilassatezza e disponibilità verso il prossimo. Lo stesso vale per chi ama meditare e visualizzare: scoprendosi fisicamente rilassato e attivo, emotivamente equilibrato. E non è raro, affrontando tecniche di stampo psicologico, ritrovare la scioltezza del corpo.

La struttura è sempre funzionale a ciò che deve supportare. Per quanto il termine struttura tenda a essere associato all’idea di rigidità, deve prevedere invece una certa flessibilità, diversamente mancherebbe lo scopo. Lo scopo della struttura non è di bloccare ma favorire, cioè sostenere o impostare qualcosa che ha una necessità temporanea per potersi sviluppare correttamente e poi auto-reggersi. Una casa ben costruita non conserva indefinitamente ponteggi e impalcature; così pure la pianta inizialmente sorretta da un tutore giunge, prima o poi, a svellerlo.

Senza negare la sempre più sottile efficacia di molte tecniche con il passare del tempo, entrare in confidenza con la propria tecnica, significa anche avere una così intima conoscenza del processo interiore da sentirsi liberi di adattarla o sostituirla alle nuove esigenze che vanno proponendosi. Infatti, poiché alla pratica consegue un cambiamento, il lavoro può solo procedere riconoscendo il nuovo stato e, con questo e su questo, continuare e affinare. Anche qui, come sempre, il discernimento individuale è la misura per ogni cambiamento.

PRATICA – INDIVIDUALE E DI GRUPPO

Molte tecniche si possono fare sia individualmente che in gruppo. C’è chi predilige un modo, chi l’altro. È differente la sensazione o l’espressione che se ne può avere. Una modalità non è meglio dell’altra e ciascuna offre e rivela differenti opportunità e auto-percezioni ai praticanti. La preferenza rimane un fattore individuale.

È sensazione comune che il gruppo potenzia l’espressione acuendone l’intensità. Ci sono molti modi per osservare il tipo di energia che si sviluppa in un gruppo, ma trovo bello il senso di unità e di concretezza che tale lavoro lascia. Per esempio, nel gruppo si crea una maggior energia della somma delle parti, energia che permane nei singoli per il lavoro individuale anche a distanza di tempo: è per questo che il ritrovarsi periodico tende a favorire il successivo lavoro personale. Inoltre, con quelle tecniche che prevedono la condivisione dell’esperienza, tra i partecipanti emergono incredibili coincidenze e similarità, denominatori comuni che si riflettono all’elaborazione di ciascuno.

Gli stessi effetti sono spesso percepiti, da chi è più sensibile e aperto, anche quando il gruppo non si ritrova fisicamente nello stesso luogo, ma si dà un “appuntamento nel tempo” ignorando lo “spazio”. Così, chi non ha l’opportunità di ritrovarsi in un gruppo definito, può sempre sintonizzarsi con tutti quelli che al momento stanno praticando quella tecnica. Il mondo è pieno, giorno e notte, di gente che pratica: una percezione consapevole riconosce il non esser mai soli.

La pratica individuale ha dalla sua una maggiore libertà di risposta. Può apparire meno coinvolgente e a volte risulta più faticosa, ma lavora sull’esatta vibrazione dell’individuo. È un rapporto 1:1, dove la persona è circondata dalla sua energia e si permette di gestire in autonomia i propri stati e tempi interiori, lasciando affiorare sensazioni più direttamente collegate all’essenza personale.

Nel lavoro individuale a volte si tende a giudicare criticamente l’esperienza effettuando paragoni vari. Sono giudizi inutili: non ha senso standardizzare le aspettative o i risultati. Le tecniche agiscono su dei livelli così sottili e profondi da risultare inavvertiti alla consapevolezza ordinaria. Spesso chi ha avuto in prima battuta la sensazione di una pratica poco soddisfacente, nota in seguito l’emergere “a scoppio ritardato” di un’esperienza inattesa.

L’esercizio della tecnica è per sua natura nuovo e originale ogni volta, perché è la persona a essere ogni volta differente. Ed è con tale predisposizione al nuovo che ci si apre alla scoperta e all’apprezzamento delle differenze oltre che delle somiglianze; è con questa attenzione libera da condizionamenti che diventa visibile ciò che tende a scivolare nell’inosservato.

AUTO-CONOSCENZA E AUTO-SVILUPPO

Le tecniche hanno la funzione di catalizzatore della presa di coscienza individuale e sono come specchi interiori che rimandano all’osservatore la sua immagine. Non c’è nulla che sia aggiunto o tolto all’essere della persona. La tecnica contribuisce all’auto-riconoscimento, cioè il riconoscimento di sé. Il confronto tra ‘quanto si fa e quanto ritorna’ non deve essere visto come indice di successo o di fallimento, ma di una comprensione di se stessi che va ampliandosi.

Non si tratta di trovare motivazioni – per esempio: “perché la tecnica con me non funziona?” oppure “perché non mi riesce di …?”-, ma di osservare la risposta mediata dalla pratica, sia durante la tecnica stessa sia durante l’attività quotidiana. Qualsiasi tecnica si basa e prende come oggetto di lavoro un aspetto già presente in noi e nella nostra vita – in altre parole, si può lavorare solo su qualcosa che già c’è. E in realtà c’è già tutto, basta rendersene conto.

L’auto-riconoscimento porta in modo naturale all’auto-sviluppo perché viene spontaneo agire, a fronte di precise comprensioni, come detta la nuova visione.

Il prendere coscienza di sé è un momento particolarmente delicato e importante, e proprio per questo può creare timori e turbamenti. Questa presa di coscienza prevede una tale assunzione di responsabilità nei confronti di se stessi, della propria vita e del proprio cammino, che molti preferiscono a questo punto abbandonarsi, affermando di non essere ancora pronti.

L’auto-sviluppo prevede la responsabilità e l’autonomia, impegni che spesso si assumono più verso l’esterno che verso l’interno, più nei confronti di altri che nei propri. Lo sviluppo armonico non prevede uni-direzionalità, ma espansione equilibrata ed equilibrante.

LE TRE CONSAPEVOLEZZE DELLA PRATICA

Le Tecniche hanno principalmente come scopo la scoperta della consapevolezza. Costantemente gli istruttori dirigono l’attenzione su cosa si sta facendo, come si sta facendo, quali parti sono interessate – il respiro, il movimento, il pensiero, l’emozione. Eseguire una pratica consapevolmente è un raggiungimento non da poco, pur essendo spesso solo un attimo fuggevole.

Volendo definire tale consapevolezza, la si potrebbe esprimere come meccanica – consapevole – applicata.

La Consapevolezza Meccanica: l’automatismo, la correttezza formale, l’abitudine, il dover o voler fare: l’orologio.

La Consapevolezza Consapevole è altrettanto chiara: quella che viene in genere richiesta e auspicata, percezione delle parti e del tutto – l’insieme : l’orologiaio.

Ci si accontenta, o si mira semplicemente, all’essere orologiaio (già apprezzabilissimo risultato) perché la terza consapevolezza è quella che generalmente sfugge: la Consapevolezza Applicata. Usare l’orologio per leggere l’ora.

Lo scopo della tecnica è realizzare qualcosa di pratico. Che senso ha sviluppare i muscoli mancando poi di aiutare a portare un peso? Che senso ha osservare il respiro, il pensiero, le emozioni in mezz’ora di meditazione o in una seduta di rebirthing, se quella stessa attenzione si spegne come la lampada nell’uscire dalla stanza?

Tutte le pratiche, tutte le tecniche, sono attrezzi usati per sperimentare e allenare il riconoscimento di quella consapevolezza che già c’è nella vita di tutti i giorni: ed è nella vita di tutti i giorni che l’essere consapevoli ha la sua ragione d’essere.

Praticare una tecnica è solo un frammento di spazio/tempo che ferma il riflesso di quello che “già sono-già ho”, è un momento di riconoscimento che ci si prende per abituare “noi a noi stessi”, sono attimi per staccarci dall’automatismo e allenarci a gestire aspetti di noi di solito trascurati, e nell’esperienza di questi preziosi istanti riconoscerci, apprezzarci, rivalutarci e trarre l’energia per vivere la consapevolezza che già abbiamo, perché è questo il tipo di consapevolezza, o di coscienza, che ci distingue.

UN PASSO OLTRE

Chi pratica le proprie tecniche con piacere e libero dai rigidi dettami dell’aspettativa propria o altrui, prima o poi giunge a scoprire qualcosa che neppure sapeva di avere/essere. Ci sono sfumature, nell’esperienza umana, che valicano di molto la semplice fisicità. Ci sono aspetti che non toccano la vita quotidiana, ma che cambiano la visione che se ne ha. Una pratica costante e rilassata, non rigida e forzosa, col tempo regala sensazioni più sottili ai cinque sensi, al pensiero e all’emozione, trasformando la percezione che si ha del solito mondo in un “mondo speciale”.

È ormai accertato che molte tecniche inducono a degli stati di coscienza definiti “alterati”. Chi non ha avuto un’esperienza diretta, a volte li suppone come una sorta di intontimento e vacuità: nulla di più estraneo, è esattamente l’opposto. Lo stato di coscienza che va sviluppandosi prevede maggiore sensibilità agli stimoli più sottili ed evanescenti, ma senza perdere il contatto con il mondo fisico definito “materiale”. Per esempio, le intuizioni avvengono in questo stato parallelo all’attività della veglia.

CONCLUDENDO

Riprendendo i tre termini che mi sono sembrati meglio sintetizzare i loro molteplici aspetti, le Tecniche sono:

*specchi – che rimandano in mille riflessi immagini di noi stessi nelle nostre differenti forme, capacità e potenzialità, permettendo all’osservatore di osservare e conoscere se stesso.

*strutture – funzionali con il potenziale dello sviluppo e dell’adattamento.

*catalizzatori – che stimolano risposte inespresse giacenti nella totalità dell’essere Essere Umano.

Nell’esercizio si va a ri-svegliare l’essere percettivo, in quanto l’osservazione degli stati fisici, emotivi e mentali, fa scattare anche il riconoscimento di chi sta percependo tali stati.

Parlare delle Tecniche è parlare dell’Uomo, perché sono nate dall’uomo e per l’uomo. Come l’uomo sono sempre uguali e nel contempo diverse, si adattano all’ambiente e alle necessità, si sviluppano e migliorano, si moltiplicano e caratterizzano, si mettono alla prova e correggono, si trasformano e si inventano.

Praticare delle Tecniche è un atto creativo su molti piani di coscienza e livelli di comprensione, e permette di vivere e ammirare più profondamente le meraviglie anche di quella parte della Creazione che siamo Noi. —

– Estendere i confini, 1

Nel mondo eterno, tempo e spazio sono diversi?, J. O’Donohue

31 martedì Ott 2017

Posted by Paola in Inserimenti, Libri, Percezione, Realtà Parallele, Spiritualità, Stati altri di coscienza

≈ Commenti disabilitati su Nel mondo eterno, tempo e spazio sono diversi?, J. O’Donohue

Nel mondo eterno, tempo e spazio sono diversi? – Estratto da “Anam Cara” di John O’Donohue, Edizioni Corbaccio (attualmente fuori catalogo)

Spazio e tempo sono il fondamento dell’identità e della percezione umana, senza di loro non esiste percezione.

L’elemento spaziale indica che ci troviamo in uno stato di costante separazione. Io sono qui, tu sei lì; persino la persona a cui siamo più vicini, quella che amiamo, rimane un mondo separato da noi. È questo lo strazio dell’amore: due persone si avvicinano al punto da desiderare realmente di divenire una sola, ma i loro spazi separati mantengono la distanza fra loro. Nello spazio siamo sempre lontani.

L’altra componente della percezione e dell’identità è il tempo; anch’esso ci separa costantemente. Il tempo è essenzialmente lineare, non continuo e frammentario. I giorni passati sono scomparsi, svaniti; il futuro non è ancora arrivato; tutto ciò che abbiamo è il minuscolo gradino dell’istante presente.

Quando l’anima lascia il corpo, non è più oppressa dallo spazio e dal tempo; è libera, e distanza e separazione cessano di ostacolarla. I morti sono i nostri più stretti vicini, sono tutt’attorno a noi. Quando domandarono a Meister Eckhart dove va l’anima di una persona dopo la morte, egli rispose che non va da nessuna parte. In quale altro luogo potrebbe andare? In quale altro luogo è il mondo dell’eternità? Non può che trovarsi qui. Abbiamo dato erroneamente una dimensione spaziale all’eternità, l’abbiamo relegata in una sorta di distante galassia.

Il mondo eterno non è un luogo ma un diverso stato di essere; l’anima della persona non va da nessuna parte perché non c’è nessun altro luogo dove andare. Ciò suggerisce che i morti siano qui insieme a noi, nell’aria in cui ci muoviamo quotidianamente. L’unica differenza tra noi e loro è che adesso rivestono una forma invisibile. Lo sguardo umano non riesce a vederli, ma possiamo sentire la presenza di quelli che abbiamo amato e sono morti. Con il raffinamento dell’anima possiamo sentirli, sentire che sono vicini.

Esiste un’intera mitologia irlandese su druidi e sacerdoti dotati di speciali poteri. Mio padre ci raccontava spesso di un suo conoscente che era molto amico del sacerdote del paese. I due uomini erano soliti fare lunghe passeggiate e un giorno il conoscente chiese al sacerdote dove si trovavano i morti. Egli rispose di non fare domande del genere,  ma, poiché l’altro insisteva, gli disse che glielo avrebbe mostrato a patto che non lo raccontasse a nessuno. Inutile dirlo, l’uomo non mantenne parola. Il sacerdote alzò la mano destra e l’uomo vide le anime dei defunti che si affollavano per ogni dove come gocce di rugiada sui fili d’erba.

Spesso solitudine e isolamento sono la conseguenza di una mancanza di immaginazione spirituale, dimentichiamo che uno spazio vuoto non esiste; ma ogni spazio è colmo di presenza, in particolare di coloro che si trovano ora in una forma eterna, invisibile.

Per chi è morto, anche il mondo del tempo è differente. Qui siamo imprigionati in un tempo lineare: il passato è dimenticato, perduto; il futuro ci è ignoto. Per i defunti il tempo è completamente differente, poiché vivono nel cerchio dell’eternità.

Nei capitoli precedenti abbiamo parlato del paesaggio, di come quello irlandese resista alla linearità e di come il pensiero celtico non abbia mai apprezzato la linea ma abbia sempre amato la forma circolare. All’interno del cerchio inizio e fine sono fratelli, nel riparo che l’eterno offre all’unità dell’anno e della terra.

Penso che nel mondo eterno il tempo sia diventato il circolo dell’eternità; forse, quando una persona raggiunge questo mondo può guardare indietro a quello che qui chiamiamo passato e sapere tutto del futuro. Per i morti il presente è presenza totale. Probabilmente i nostri amici defunti ci conoscono meglio di come abbiano mai potuto in vita; sanno tutto di noi, anche cose che possono deluderli. Ma poiché sono trasfigurati, la loro comprensione e compassione sono proporzionate a tutto quanto sono venuti a sapere su di noi.

Credo che i nostri amici defunti si preoccupino e abbiano cura di noi. Spesso il nostro cammino è minacciato da un macigno di sofferenza sul punto di precipitare su di noi, ma i nostri amici tra i morti lo trattengono fino a che non siamo passati.

Uno degli sviluppi che nei prossimi secoli potrebbero verificarsi nell’evoluzione e nella coscienza umana è una nuova relazione globale con il mondo invisibile dell’eternità. Potremmo legarci in modo creativo con i nostri amici nel mondo invisibile.  —

– Estratto da: Anam Cara – Il libro della saggezza celtica, John O’Donohue [Capitolo Sei]

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