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Mundus Imaginalis, o l’Immaginario e l’Immaginale – Henry Corbin

15 martedì Mar 2022

Posted by Paola in Coscienza, Filosofia, Percezione, Percorsi spirituali, Personaggi, Spiritualità, Stati altri di coscienza

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Offrendo le due parole latine mundus imaginalis come titolo di questa discussione, intendo provare a definire un ordine di realtà che corrisponda a un certo tipo di percezione, poiché la terminologia latina ha il vantaggio di fornire un punto di riferimento tecnico preciso, con cui confrontare i più o meno idonei equivalenti dei linguaggi moderni occidentali.

Ma farò subito un’ammissione. La scelta di queste due parole mi si impose qualche tempo fa, poiché non mi era possibile, per quello che traducevo o dicevo, essere soddisfatto dal termine ‘immaginario’. Non si tratta in nessun modo di una critica verso chi adopera per necessità questa parola, se cerchiamo insieme di giungere ad una sua positiva rivalutazione. A prescindere dai nostri sforzi, però, non possiamo evitare che il termine ‘immaginario’, nell’uso corrente e non deliberato, sia l’equivalente di non-reale, qualcosa che indica ciò che rimane estraneo all’essere e all’esistente – in breve, utopistico. Perciò ero assolutamente obbligato a trovare un altro termine se non volevo confondere i lettori occidentali.

Se indichiamo solitamente l’immaginario come irreale, utopistico, questo deve essere sintomo di qualche cosa. Di contro a questo sintomo, possiamo esaminare brevemente insieme l’ordine di realtà che io ho designato come ‘mundus imaginalis’ e cosa i teosofi islamici indicano come ‘ottavo clima’; esamineremo poi l’organo che percepisce questa realtà, precisamente, la coscienza immaginativa, l’Immaginazione cognitiva; e infine presenteremo alcuni esempi, tra i tanti altri ovviamente, che tratteggino la topografia di questi intramondi, così come sono stati osservati da coloro che realmente sono stati lì.

Ho appena nominato l’utopia. E’ strano, ma anche un esempio decisivo, che i nostri autori usino un termine persiano che sembra esserne l’esatto calco linguistico: Na-kojd-Abad, la “Terra di Nessundove”. Eppure si tratta di qualcosa di totalmente differente da un’utopia.

Leggiamo quindi i bellissimi racconti persiani – insieme fiabe visionarie e temi di iniziazione – di Sohravardi, il giovane Shaykh che, nel dodicesimo secolo fu il “restauratore della teosofia dell’antica Persia” nell’Iran islamico. All’inizio di ogni storia, il visionario si trova alla presenza di una figura soprannaturale di straordinaria bellezza, a cui il visionario chiede chi sia e da dove venga. Questi racconti narrano essenzialmente l’esperienza dello gnostico, vissuta come la personale vicenda dello Straniero, il prigioniero che aspira a ritornare a casa.

Al principio della storia che Sohravardi intitola “L’Angelo Rosso” il prigioniero, sfuggito alla sorveglianza dei suoi aguzzini, ovvero temporaneamente lasciato il mondo dell’esperienza sensoriale, si trova nel deserto alla presenza di un essere al quale domanda, poiché vede in lui il fascino dell’adolescente: “Oh giovane! da dove vieni?” e riceve la risposta “Cosa dici? Io sono il primo nato tra i figli del Creatore [in termini gnostici il Protoktistos, il Primo-Creato] e tu mi chiami giovane?”. Questa è l’origine del colore rosso dei suoi abiti: l’apparire di un essere di pura Luce il cui splendore è ridotto, dal mondo sensoriale, nel rosso del crepuscolo. “Provengo da oltre il monte di Qaf… Là eri in origine, e lì ritornerai quando infine ti libererai dai tuoi legami”

La montagna di Qaf è la montagna cosmica costituita, di vetta in vetta, di valle in valle, dalle Sfere celesti che sono racchiuse una nell’altra. Qual è, dunque, la strada che porta al di fuori di essa? Quanto è lunga? “Non importa quanto a lungo camminerai” è detto “arriverai di nuovo al punto di partenza” come la mina del compasso che ritorna allo stesso punto. Ciò implica abbandonare se stessi al fine di conquistare se stessi? Non esattamente. Tra i due, c’è un evento che cambia tutto; il sé stessi che si trova là è quello al di là del monte di Qaf, un sé superiore, un sé “in seconda persona”. Sarà necessario, come Khezr (o Khadir il profeta misterioso, l’eterno viandante) bagnarsi alla Sorgente della Vita. “Colui che ha trovato il significato della Vera Realtà è arrivato alla Sorgente. Quando emerge dalla Sorgente, ha conquistato l’Attitudine che lo rende come un balsamo, di cui se verserai una sola goccia nel cavo della mano, tenendola rivolta al sole, ed essa passerà sul dorso della mano. Se sei Khezr, passerai anche senza difficoltà attraverso la montagna di Qaf. (segue)

– Estratto da: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticaislamica/corbin_mundus.htm

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Henry Corbin (Parigi, 14 aprile 1903 – Parigi, 7 ottobre 1978) è stato un orientalista, storico della filosofia, traduttore, filologo, islamista e iranista francese.

Il merito delle ricerche di Corbin è stato di aver riscoperto la tradizione gnostica dell’Islam sciita, un continente filosofico sommerso e sconosciuto agli stessi orientalisti del suo tempo, mostrando così come la filosofia islamica, lungi dal ridursi ai filosofi arabi “ellenizzati” e dal concludersi con il peripatetismo di Averroè, conosca un ulteriore periodo di fioritura a partire dal XII secolo, non nell’Occidente arabo ma nell’Oriente persiano. Corbin ha inoltre contribuito ad una più adeguata comprensione del fenomeno del sufismo, di cui ha saputo far emergere la dimensione autenticamente islamica, rifiutando di ricondurlo alle categorie della spiritualità cristiana, o alla comoda etichetta di sincretismo.

Temi come quello della conoscenza e del racconto visionario, del mondo immaginale e dell’immaginazione creativa, intesi come facoltà teofaniche, del corpo spirituale e della terra celeste, dell’angelologia e del dramma che si svolge nel cielo, sono creazioni intellettuali il cui sviluppo non ha equivalenti nella tradizione filosofica occidentale, sulle quali si fonda ciò che Corbin chiama una filosofia profetica, basata sull’ermeneutica spirituale del Libro, che trova il proprio equivalente cristiano più prossimo in Jakob Böhme. Questa filosofia profetica va considerata come una teosofia capace di riconciliare le facoltà visionarie dell’uomo con quelle razionali. [Wikipedia]

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Il mondo riposa nella notte, John O’Donohue (da Anam Cara)

20 lunedì Dic 2021

Pubblicato da Paola | Filed under Percezione, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

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La musica della pre-morte, G. Tedoldi (da Il Tascabile)

22 lunedì Nov 2021

Posted by Paola in Coscienza, Linguaggio, Percezione, Società, Stati altri di coscienza

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Sono sempre stato affascinato dal Tardo Stile, le ultime opere degli scrittori, dei pittori, ma soprattutto dei musicisti. Non sarà casuale che la stessa espressione è più ricorrente nei libri di storia della musica che altrove, e la si adopera canonicamente per riferirsi alle ultime sonate per pianoforte e agli ultimi quartetti per archi di Beethoven, alla Missa Solemnis e alla Nona sinfonia, insomma a quel gruppo variegato di lavori composti nell’ultimo decennio di vita del maestro di Bonn. Così, in base a una semplice curiosità (“qual è stata l’ultima composizione di Chopin?”) ho passato alcuni giorni a ascoltare e riascoltare questi lavori, alcuni dei quali, come il Quartetto in fa min. op 80 di Felix Mendelssohn o le ultime mazurke di Chopin, scritti a pochi mesi dalla morte. Perché mi domando: ne erano coscienti? Sapevano che stava per finire? Se sì, questa consapevolezza come si incarna, o da cosa trapela? E si può, fissando l’appressarsi della morte, riuscire a buttare giù note su un pentagramma? Cosa produce la doppia visione di questo e dell’altro mondo?

Tali opere terminali rappresentano, oltre al valore artistico, delle specie di NDE, Near Death Experiences, esperienze di pre-morte, e non c’è dubbio che questo aspetto, se si vuole un po’ necrofilo, mi attragga non meno (e forse più) di valutazioni e confronti di tipo stilistico o storico-estetico, complessivamente riconducibili a un’osservazione del musicologo Carl Dahlhaus: “la modernità dell’‘opera tarda’ non consiste nel fatto che anticipa un pezzo di futuro: la modernità di Bach, Beethoven e Liszt è stata scoperta solo dopo che il futuro che essa anticipava era divenuto da tempo presente”. Affermazione che avanza una pretesa di validità universale anche se, per citare un caso esotico quanto si vuole e, certo, non alla veggente altezza di Bach, Beethoven o Liszt, il futuro dell’Opus Clavicembalisticum di Kaikhosru Sorabij che, pur essendo stato completato a quasi sessant’anni dalla morte dell’autore, nasce già inseguendo un miraggio di Tardo Stile, è decaduto nel passato senza mai lambire il presente. “Può esistere un artista che non trova la sua epoca, e un’epoca che non trova il suo artista” diceva Burckhardt, e può accadere che l’allineamento, come tra corpi celesti incommensurabilmente distanti, non si verifichi mai. Il Tardo Stile è il cosciente, più radicale e misterioso tentativo di un artista di disallinearsi da tutti gli altri corpi orbitanti nel cielo della sua epoca. (continua)

Articolo integrale: La musica della pre-morte, il Tascabile

Addomesticare le emozioni distruttive, intervista a D. Goleman (da Innernet, 2008)

07 giovedì Gen 2021

Posted by Paola in Coscienza, Inserimenti, Intervista, Neoscienze, Percezione, Percorsi spirituali, Stati altri di coscienza

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La meditazione può cambiare il cervello? Daniel Goleman, autore del best seller Intelligenza emotiva, dà delle risposte sorprendenti. Recenti ricerche ci dicono che il cervello è estremamente plastico, a patto che attraversiamo esperienze sistematiche e ripetute; in questo senso le pratiche meditative sembrano le migliori per trasformare le emozioni distruttive.

Nel suo libro Emozioni Distruttive, in collaborazione con il Dalai Lama, riporta le ricerche sul cervello e sulla meditazione e suggerisce una via per lavorare sulle emozioni distruttive.

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Nel tuo nuovo libro, Emozioni distruttive, scrivi che “riconoscere e trasformare le emozioni distruttive è il cuore della pratica spirituale”. Puoi dirci cosa intendi con “emozioni distruttive”?

Daniel Goleman: Esistono due punti di vista: uno orientale, l’altro occidentale. Secondo il punto di vista occidentale – quello della scienza e della filosofia moderne – le emozioni distruttive sono quelle che provocano un danno a se stessi o agli altri. E “danno”, qui, è inteso nel senso più ovvio: fisico, affettivo, sociale. Il punto di vista orientale è più sottile. La concezione buddista, così come è emersa dalle conversazioni con il Dalai Lama alla conferenza intitolata “Mind and Life” nel marzo 2000, è che le emozioni distruttive sono quelle che disturbano il proprio equilibrio interiore, mentre quelle sane favoriscono l’equilibrio della mente. (continua)

Articolo completo: http://www.innernet.it/addomesticare-le-emozioni-distruttive/

Sul “sacro”, U. Galimberti (video, 2013)

29 martedì Dic 2020

Posted by Paola in Coscienza, Filosofia, Percezione, Stati altri di coscienza, Storia

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Umberto Galimberti (1942)

Il “Wyrd”, estratto da Wikipedia

20 lunedì Gen 2020

Posted by Paola in Inserimenti, Percorsi spirituali, Realtà Parallele, Spiritualità, Stati altri di coscienza, Tempo

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Deriva dal protogermanico *wurdís, “fato”, radice dell’alto tedesco antico wurt e del norreno urðr, che si ritrova nel nome di una delle Norne e del pozzo sacro Urðarbrunnr (il termine norreno per “fato” era Ørlog). (…)

Il significato basilare del Wyrd si riferisce a come le azioni passate influenzino e condizionino continuamente il futuro. Ma anche come il futuro influenzi il passato. Tutte le azioni di tutti i tempi si influenzano a vicenda.

Si ipotizza che, al contrario del Fato, il Wyrd sia tutt’altro che immobile ed immutabile: non si ripete mai allo stesso modo, non è il destino individuale, ma piuttosto una rete che collega ogni elemento ed ogni creatura dell’universo, e non conosce distinzioni tra passato e futuro. Niente veniva escluso da questa visione, e ciò che fosse ritenuto negativo o distruttivo, pur essendo allontanato o combattuto, era considerato in ogni caso parte del Wyrd.

Ne deriva che qualsiasi azione personale va ad influire direttamente sul wyrd degli altri individui: ogni decisione, presa nel presente, genera un’eco che si propaga non solo nel futuro, ma anche nel passato, giacché nell’essere umano coesistono passato, presente e futuro.

Ogni azione che è, influenza ciò che sarà e ciò che è stato; ogni azione che è stata, influenza ciò che è e ciò che sarà; ogni azione che sarà, influenza ciò che è stato e ciò che è. Ma non solo: ogni azione influirà sul wyrd altrui, e quindi su presente, passato e futuro altrui. Tutto l’universo di tutti i tempi, in questo modo, sarebbe stretto nella medesima, inestricabile, rete.  (…)

Fonte: Wikipedia

La mistica del linguaggio, G. Scholem (Libro, estratto)

07 sabato Dic 2019

Posted by Paola in Filosofia, Libri, Linguaggio, Percezione, Percorsi spirituali, Spiritualità, Stati altri di coscienza

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La mistica del linguaggio, Gershom Scholem – estratto da “Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio”, Ed. Adelphi

… La rivelazione, secondo la dottrina della Sinagoga, è un evento acustico, non visivo, o per lo meno ha luogo in una sfera connessa metafisicamente con la dimensione acustica, sensoriale. Questo carattere viene sottolineato di continuo richiamando le parole della Torah (Dt 4,12): “Non avete visto alcuna immagine, soltanto una voce.” Quale significato abbia questa voce e che cosa in essa venga a espressione, è la domanda che il pensiero religioso ebraico non si è mai stancato di riproporsi.

Il legame inscindibile che unisce il concetto di verità della rivelazione e quello di linguaggio – poichè la parola di Dio, se mai l’uomo possa farne esperienza, si rende percepibile proprio nel medium del linguaggio umano – è certo una delle eredità più importanti, anzi forse la più importante, che l’ebraismo abbia lasciato nella storia della religione.

Nelle pagine che seguono ci proponiamo di interrogare la letteratura e il pensiero dei mistici ebrei per apprendere che cosa hanno da insegnarci al riguardo. Il punto di partenza di tutte le teorie mistiche del linguaggio, e perciò anche di quelle cabbalistiche, è la convinzione che il linguaggio, ossia il medium in cui si compie la vita spirituale dell’uomo, possieda un lato interno, un aspetto, che non si lascia ridurre alla pura comunicazione fra gli esseri.

L’uomo si esprime, cerca di farsi intendere dai suoi simili, ma in tutti questi tentativi vibra qualcosa che non è soltanto segno, comunicazione, significato ed espressione. Il suono che è alla base di ogni lingua, la voce che le dà forma, che la forgia elaborandone il materiale sonoro, in questa prospettiva sono già prima facie assai più di quanto entri nella comunicazione.

L’antico problema che da Platone ad Aristotele ha poi diviso i filosofi – se cioè il linguaggio si fondi su una convenzione, un accordo, o sulla natura interna degli esseri – ha sempre avuto sullo sfondo questo aspetto indecifrabile del linguaggio. Ma se il linguaggio è più della comunicazione ed espressione verbale, per come l’intendono i linguisti, se l’elemento sensibile, grazie alla cui pienezza e profondità esso prende forma, possiede quell’aspetto ulteriore che ho chiamato il suo lato interno, sorge allora la domanda: che cos’è questa dimensione “segreta” del linguaggio sulla quale da sempre i mistici concordano, da quelli dell’India e dell’Islam fino ai cabbalisti e a Jakob Boehme? La risposta è chiara: questa dimensione è determinata dal carattere simbolico del linguaggio.

Nel definire questo aspetto simbolico le teorie mistiche percorrono spesso strade divergenti. Che però qui, nel linguaggio, venga comunicato qualcosa che oltrepassa la sfera che rende possibili espressione e forma – qualcosa di inespresso che vibra in fondo a ogni espressione, qualcosa che si mostra solo per simboli e che traspare, per così dire, attraverso le fessure del mondo espressivo – è questa le tesi di fondo che ritorna in tutte le teorie mistiche del linguaggio, ed è insieme l’esperienza da cui esse hanno tratto alimento, rinnovandosi fino alla nostra generazione. (In questo senso Walter Benjamin è stato a lungo un puro mistico del linguaggio.)

Il mistico scopre nel linguaggio una dignità, una dimensione immanente o, come si direbbe oggi, un aspetto strutturale che mira non tanto a comunicare qualcosa di comunicabile, quanto piuttosto – e su questo paradosso si fonda il simbolismo – a comunicare qualcosa di non-comunicabile, qualcosa che rimane inespresso e che, se mai si potesse eprimere, non avrebbe comunque un significato, un “senso”, comunicabile. (…)

I mistici si sono sempre arrovellati su come possa il linguaggio degli dèi o di Dio intrecciarsi con la lingua parlata e come si possa districarlo da quell’intreccio. Da sempre essi hanno avvertito nella lingua un abisso, una profondità, e si sono prefissi di misurarli, di attraversarli e di superarli. (…)

– Estratto da: Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Gershom Scholem, ed. Adelphi

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