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Le Tecniche – Strumenti di auto-conoscenza e auto-sviluppo, Paola

21 mercoledì Mar 2018

Posted by Paola in Estendere i confini, Paola, Percezione, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

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Le Tecniche – Strumenti di auto-conoscenza e auto-sviluppo, Paola (2004)

Qui non si tratta di imporre un punto di vista ma di comunicare un metodo di cui ognuno si avvarrà a suo piacere come di uno strumento.
– Goethe

– – – – – – – – – – –

Le Tecniche esistono da quando esiste l’uomo, e ogni aspetto della vita trova disponibile una serie di tecniche per la sua miglior gestione. Pur sembrando “artifici”, in realtà le tecniche sono produzioni spontanee di supporto, nate dall’esperienza di uomini desiderosi di semplificare o di ottimizzare un processo, rendendolo poi disponibile altri.

Ormai siamo abituati a essere forniti di tecniche. Fin dall’infanzia ci viene insegnato il “metodo migliore per …” e meccanicamente facciamo nostri procedimenti e scorciatoie. In breve tempo otteniamo risultati che – prima che la tecnica venisse ideata – richiedevano ben altro impegno.

A prima vista, questo modo di procedere sembra rendere schiavi della fretta e del risultato, con conseguente perdita della creatività e cecità alla ricchezza dei particolari. Parlare quindi di Tecniche a favore della consapevolezza può sembrare contraddittorio.

La consapevolezza è uno stato naturale, solo che l’uomo, per la maggior parte del tempo, tende a farsi catturare dalle meraviglie del mondo esterno, ignorando se stesso fin quando non sente la necessità di tornare a conoscersi.

Amo definire le Tecniche come specchi, strutture e catalizzatori: dove questi tre aspetti si legano strettamente in un unico insieme.

Tralasciando l’elencazione di tecniche e caratteristiche, parto dal presupposto che chi legge abbia una qualche concreta esperienza in merito e, di conseguenza, ben sappia cosa e perché stia praticando, o cosa e perché abbia smesso di praticare.

Un aspetto che ritengo importante è l’uguaglianza del valore delle Tecniche: non c’è una Tecnica migliore di un’altra. La qualità del risultato è in mano al praticante. Questo può sembrare scontato ma non lo è, perché non tutte le Tecniche sono per tutti. Con questo non intendo le abilità personali (migliorabili) o la difficoltà intrinseca (superabile), ma proprio la “compatibilità” tra praticante e pratica: avere delle preferenze significa conoscere, rispettare e valorizzare il proprio “essere”.

A prescindere dalle classificazioni – fisiche, mentali, psicologiche, energetiche o quant’altro -, la pratica di una tecnica coinvolge in realtà tutti gli aspetti della persona. Questo perché l’uomo è sempre nella sua totalità, frammentato solo perché in tal modo vuole considerarsi. Le nuove scienze stanno ora scoprendo (con strumentazioni sofisticate e sensibili) le sottilissime ma forti interconnessioni mente-emozione-corpo-emozione-mente-corpo, circolo ininterrotto di scambi e comunicazioni. Aspetti sinora ignorati o sottovalutati che riserveranno notevoli sorprese in futuro.

TECNICHE E FILOSOFIA (PASSATO – PRESENTE – FUTURO)

Molti arrivano a praticare delle Tecniche perché hanno abbracciato una Scuola di Pensiero. Se vogliamo analizzare, anche chi pratica aerobica e body-building sta abbracciando una filosofia.

Chi ha avuto modo di girare di scuola in scuola, di palestra in palestra, ha una chiara idea della diversità-uguaglianza delle tecniche proposte. A volte ci si trova di fronte a tecniche che di nuovo hanno solo il nome, oppure definite innovative solo per piccoli differenti particolari, quando poi non sono altro che miscellanee di diversa provenienza e cultura.

Questo variegato mondo di proposte lascia in genere perplessi e fa scaturire interrogativi, dubbi e aspettative: funzionerà? – farà male? – sarà più efficace? – avrà controindicazioni? – sarò capace? – che garanzia ho che … ? – aumenterà la mia energia? – diventerò telepatico? – vedrò l’aura?, e così via … Come districarsi? A chi chiedere o credere?

Ogni Tecnica è nata in un luogo e in un’epoca: chi l’ha ideata è figlio del suo tempo e fratello dei suoi contemporanei. Sono prodotti di-e-in quel presente. Quello che ha senso ed efficacia in un contesto, variate le variabili – le condizioni spazio/tempo – può anche differire nella sua espressione …

Non penso che gli uomini siano “sempre uguali” a se stessi e, soprattutto, non c’è un uomo uguale a un altro. C’è chi crede che quello che si è acquisito può esser dimenticato ma non perduto, e la scienza conferma quanto siano differenti la mente e il fisico dell’uomo attuale rispetto a pochi decenni fa: non ultimi per gli stimoli ambientali e sociali con cui ci confrontiamo, e per la differente concezione di sé che l’uomo moderno occidentale vive. Le modifiche, più che opportune, sono spesso indispensabili.

La tecnica funziona non per la filosofia da cui è scaturita, ma perché agisce concretamente su alcune leve dello strumento umano. Ed è pur vero che le convinzioni personali sulla sua efficacia o non efficacia influiscono parimenti sul risultato. L’energia segue il pensiero portandone il colore, quindi la tecnica contiene un valore sensibile “attivato” o “disattivato” dal praticante e, parimenti, il praticante detiene quel valore sensibile – il pensiero – che attiva o disattiva la tecnica. L’intensa convinzione personale sulla correttezza della filosofia in cui è inserita la propria pratica è per molti garanzia di successo. E infatti, così è.

TECNICHE – STRUTTURE FUNZIONALI

Le Tecniche possono essere considerate delle strutture funzionali, in quanto nascono per uno scopo. Intendendo con questo che sono un mezzo e non un fine.

L’esecuzione della tecnica porta dei risultati “dentro” la persona, e questi risultati si riconoscono quando manifestati “fuori”. Lo scopo non entra nel merito di quanto bravi si è “a fare”, ma in ciò che “si sviluppa” nel fare. Le Tecniche sono strumenti di cui l’uomo dispone non per diventare qualcosa ma per manifestare chi già è e cosa già ha.

L’esercizio può solo portare alla luce le potenzialità più o meno espresse della persona. Praticare pensando di “diventare come …” è un pre-concetto limitante che può generare frustrazione, disaffezione e, infine, senso di fallimento o incapacità: esattamente il contrario di quanto ci si era preposto. Le tecniche correttamente utilizzate portano piacere, serenità e fiducia in se stessi.

Da qui nasce la necessità di trovare o scegliere una serie di tecniche che permettano lo sviluppo naturale e armonico delle caratteristiche individuali. Attraverso la pratica una persona impara essenzialmente a conoscersi: conosce i non-limiti del proprio corpo, le potenzialità sotto-utilizzate della propria mente e la forza motrice delle proprie emozioni. Proprie, e non di altri. Praticare una o più tecniche, simultaneamente o ciclicamente, permette di entrare in confidenza con il proprio essere più profondo, e scoprirlo immenso e stupefacente.

Le Tecniche si presentano con uno scopo principale manifesto diramandosi poi in molteplici realizzazioni “secondarie” – spesso non valorizzate o persino ignorate. Nulla che viene fatto rimane isolato, ma si riverbera – come un’eco nello spazio – colpendo di riflesso molte pareti. Chi pratica tecniche fisiche ne scopre i benefici in termini di maggiore lucidità e presenza mentale, rilassatezza e disponibilità verso il prossimo. Lo stesso vale per chi ama meditare e visualizzare: scoprendosi fisicamente rilassato e attivo, emotivamente equilibrato. E non è raro, affrontando tecniche di stampo psicologico, ritrovare la scioltezza del corpo.

La struttura è sempre funzionale a ciò che deve supportare. Per quanto il termine struttura tenda a essere associato all’idea di rigidità, deve prevedere invece una certa flessibilità, diversamente mancherebbe lo scopo. Lo scopo della struttura non è di bloccare ma favorire, cioè sostenere o impostare qualcosa che ha una necessità temporanea per potersi sviluppare correttamente e poi auto-reggersi. Una casa ben costruita non conserva indefinitamente ponteggi e impalcature; così pure la pianta inizialmente sorretta da un tutore giunge, prima o poi, a svellerlo.

Senza negare la sempre più sottile efficacia di molte tecniche con il passare del tempo, entrare in confidenza con la propria tecnica, significa anche avere una così intima conoscenza del processo interiore da sentirsi liberi di adattarla o sostituirla alle nuove esigenze che vanno proponendosi. Infatti, poiché alla pratica consegue un cambiamento, il lavoro può solo procedere riconoscendo il nuovo stato e, con questo e su questo, continuare e affinare. Anche qui, come sempre, il discernimento individuale è la misura per ogni cambiamento.

PRATICA – INDIVIDUALE E DI GRUPPO

Molte tecniche si possono fare sia individualmente che in gruppo. C’è chi predilige un modo, chi l’altro. È differente la sensazione o l’espressione che se ne può avere. Una modalità non è meglio dell’altra e ciascuna offre e rivela differenti opportunità e auto-percezioni ai praticanti. La preferenza rimane un fattore individuale.

È sensazione comune che il gruppo potenzia l’espressione acuendone l’intensità. Ci sono molti modi per osservare il tipo di energia che si sviluppa in un gruppo, ma trovo bello il senso di unità e di concretezza che tale lavoro lascia. Per esempio, nel gruppo si crea una maggior energia della somma delle parti, energia che permane nei singoli per il lavoro individuale anche a distanza di tempo: è per questo che il ritrovarsi periodico tende a favorire il successivo lavoro personale. Inoltre, con quelle tecniche che prevedono la condivisione dell’esperienza, tra i partecipanti emergono incredibili coincidenze e similarità, denominatori comuni che si riflettono all’elaborazione di ciascuno.

Gli stessi effetti sono spesso percepiti, da chi è più sensibile e aperto, anche quando il gruppo non si ritrova fisicamente nello stesso luogo, ma si dà un “appuntamento nel tempo” ignorando lo “spazio”. Così, chi non ha l’opportunità di ritrovarsi in un gruppo definito, può sempre sintonizzarsi con tutti quelli che al momento stanno praticando quella tecnica. Il mondo è pieno, giorno e notte, di gente che pratica: una percezione consapevole riconosce il non esser mai soli.

La pratica individuale ha dalla sua una maggiore libertà di risposta. Può apparire meno coinvolgente e a volte risulta più faticosa, ma lavora sull’esatta vibrazione dell’individuo. È un rapporto 1:1, dove la persona è circondata dalla sua energia e si permette di gestire in autonomia i propri stati e tempi interiori, lasciando affiorare sensazioni più direttamente collegate all’essenza personale.

Nel lavoro individuale a volte si tende a giudicare criticamente l’esperienza effettuando paragoni vari. Sono giudizi inutili: non ha senso standardizzare le aspettative o i risultati. Le tecniche agiscono su dei livelli così sottili e profondi da risultare inavvertiti alla consapevolezza ordinaria. Spesso chi ha avuto in prima battuta la sensazione di una pratica poco soddisfacente, nota in seguito l’emergere “a scoppio ritardato” di un’esperienza inattesa.

L’esercizio della tecnica è per sua natura nuovo e originale ogni volta, perché è la persona a essere ogni volta differente. Ed è con tale predisposizione al nuovo che ci si apre alla scoperta e all’apprezzamento delle differenze oltre che delle somiglianze; è con questa attenzione libera da condizionamenti che diventa visibile ciò che tende a scivolare nell’inosservato.

AUTO-CONOSCENZA E AUTO-SVILUPPO

Le tecniche hanno la funzione di catalizzatore della presa di coscienza individuale e sono come specchi interiori che rimandano all’osservatore la sua immagine. Non c’è nulla che sia aggiunto o tolto all’essere della persona. La tecnica contribuisce all’auto-riconoscimento, cioè il riconoscimento di sé. Il confronto tra ‘quanto si fa e quanto ritorna’ non deve essere visto come indice di successo o di fallimento, ma di una comprensione di se stessi che va ampliandosi.

Non si tratta di trovare motivazioni – per esempio: “perché la tecnica con me non funziona?” oppure “perché non mi riesce di …?”-, ma di osservare la risposta mediata dalla pratica, sia durante la tecnica stessa sia durante l’attività quotidiana. Qualsiasi tecnica si basa e prende come oggetto di lavoro un aspetto già presente in noi e nella nostra vita – in altre parole, si può lavorare solo su qualcosa che già c’è. E in realtà c’è già tutto, basta rendersene conto.

L’auto-riconoscimento porta in modo naturale all’auto-sviluppo perché viene spontaneo agire, a fronte di precise comprensioni, come detta la nuova visione.

Il prendere coscienza di sé è un momento particolarmente delicato e importante, e proprio per questo può creare timori e turbamenti. Questa presa di coscienza prevede una tale assunzione di responsabilità nei confronti di se stessi, della propria vita e del proprio cammino, che molti preferiscono a questo punto abbandonarsi, affermando di non essere ancora pronti.

L’auto-sviluppo prevede la responsabilità e l’autonomia, impegni che spesso si assumono più verso l’esterno che verso l’interno, più nei confronti di altri che nei propri. Lo sviluppo armonico non prevede uni-direzionalità, ma espansione equilibrata ed equilibrante.

LE TRE CONSAPEVOLEZZE DELLA PRATICA

Le Tecniche hanno principalmente come scopo la scoperta della consapevolezza. Costantemente gli istruttori dirigono l’attenzione su cosa si sta facendo, come si sta facendo, quali parti sono interessate – il respiro, il movimento, il pensiero, l’emozione. Eseguire una pratica consapevolmente è un raggiungimento non da poco, pur essendo spesso solo un attimo fuggevole.

Volendo definire tale consapevolezza, la si potrebbe esprimere come meccanica – consapevole – applicata.

La Consapevolezza Meccanica: l’automatismo, la correttezza formale, l’abitudine, il dover o voler fare: l’orologio.

La Consapevolezza Consapevole è altrettanto chiara: quella che viene in genere richiesta e auspicata, percezione delle parti e del tutto – l’insieme : l’orologiaio.

Ci si accontenta, o si mira semplicemente, all’essere orologiaio (già apprezzabilissimo risultato) perché la terza consapevolezza è quella che generalmente sfugge: la Consapevolezza Applicata. Usare l’orologio per leggere l’ora.

Lo scopo della tecnica è realizzare qualcosa di pratico. Che senso ha sviluppare i muscoli mancando poi di aiutare a portare un peso? Che senso ha osservare il respiro, il pensiero, le emozioni in mezz’ora di meditazione o in una seduta di rebirthing, se quella stessa attenzione si spegne come la lampada nell’uscire dalla stanza?

Tutte le pratiche, tutte le tecniche, sono attrezzi usati per sperimentare e allenare il riconoscimento di quella consapevolezza che già c’è nella vita di tutti i giorni: ed è nella vita di tutti i giorni che l’essere consapevoli ha la sua ragione d’essere.

Praticare una tecnica è solo un frammento di spazio/tempo che ferma il riflesso di quello che “già sono-già ho”, è un momento di riconoscimento che ci si prende per abituare “noi a noi stessi”, sono attimi per staccarci dall’automatismo e allenarci a gestire aspetti di noi di solito trascurati, e nell’esperienza di questi preziosi istanti riconoscerci, apprezzarci, rivalutarci e trarre l’energia per vivere la consapevolezza che già abbiamo, perché è questo il tipo di consapevolezza, o di coscienza, che ci distingue.

UN PASSO OLTRE

Chi pratica le proprie tecniche con piacere e libero dai rigidi dettami dell’aspettativa propria o altrui, prima o poi giunge a scoprire qualcosa che neppure sapeva di avere/essere. Ci sono sfumature, nell’esperienza umana, che valicano di molto la semplice fisicità. Ci sono aspetti che non toccano la vita quotidiana, ma che cambiano la visione che se ne ha. Una pratica costante e rilassata, non rigida e forzosa, col tempo regala sensazioni più sottili ai cinque sensi, al pensiero e all’emozione, trasformando la percezione che si ha del solito mondo in un “mondo speciale”.

È ormai accertato che molte tecniche inducono a degli stati di coscienza definiti “alterati”. Chi non ha avuto un’esperienza diretta, a volte li suppone come una sorta di intontimento e vacuità: nulla di più estraneo, è esattamente l’opposto. Lo stato di coscienza che va sviluppandosi prevede maggiore sensibilità agli stimoli più sottili ed evanescenti, ma senza perdere il contatto con il mondo fisico definito “materiale”. Per esempio, le intuizioni avvengono in questo stato parallelo all’attività della veglia.

CONCLUDENDO

Riprendendo i tre termini che mi sono sembrati meglio sintetizzare i loro molteplici aspetti, le Tecniche sono:

*specchi – che rimandano in mille riflessi immagini di noi stessi nelle nostre differenti forme, capacità e potenzialità, permettendo all’osservatore di osservare e conoscere se stesso.

*strutture – funzionali con il potenziale dello sviluppo e dell’adattamento.

*catalizzatori – che stimolano risposte inespresse giacenti nella totalità dell’essere Essere Umano.

Nell’esercizio si va a ri-svegliare l’essere percettivo, in quanto l’osservazione degli stati fisici, emotivi e mentali, fa scattare anche il riconoscimento di chi sta percependo tali stati.

Parlare delle Tecniche è parlare dell’Uomo, perché sono nate dall’uomo e per l’uomo. Come l’uomo sono sempre uguali e nel contempo diverse, si adattano all’ambiente e alle necessità, si sviluppano e migliorano, si moltiplicano e caratterizzano, si mettono alla prova e correggono, si trasformano e si inventano.

Praticare delle Tecniche è un atto creativo su molti piani di coscienza e livelli di comprensione, e permette di vivere e ammirare più profondamente le meraviglie anche di quella parte della Creazione che siamo Noi. —

– Estendere i confini, 1

Centrare il punto – Il modo di guardare, FMOO

23 venerdì Feb 2018

Posted by Paola in Realtà Parallele

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Centrare il punto – il modo di guardare, FMOO

Quella che pare essere la realtà fisica oggettiva e consolidata, siccome legata alla vista, può cambiare radicalmente se cambia il modo di guardare. Può apparire ciò che pur essendoci non viene colto a causa della conformazione e del modo in cui si osserva. Cosa possibile per la vista umana che ha solo bisogno di mettere a fuoco in modo diverso fino a, stabilizzatasi, riuscire a “perforare” la coltre (la cortina) che avvolgendo il corpo non consente allo sguardo di spaziare: di osservare in profondità. Ove per profondità non bisogna intendere distanza (lontananza) ma osservazione nel profondo dentro di sé.

In pratica si tratta di abituarsi a cogliere quel che c’è (la dimensione) tra sé e sé stessi: tra chi si è in superficie e chi si è in profondità.

Questa osservazione, possibile ed attuabile, se si capisce e concepisce il modo in cui deve avvenire (e se preparati, perché pur essendo possibile a tutti non è per tutti) immette in un mondo diverso: un mondo parallelo alla realtà fisica, vero e finanche “tangibile” se capendo com’è fatto ci si addentra per in fondo riuscire ad unificarsi con sé stessi. Con chi si è in profondità (nell’interiorità che è propria di ognuno e che non ha divisioni né barriere con la realtà fisica) per vedere e concepire nello stesso modo. Pur restando nella fisicità che è l’ambiente naturale per chi è in un corpo fisico.

Penetrare l’invisibile, entrarci dentro per osservarlo, è importante per capire di cosa si tratta: per evitare di immaginare quel che non è.

Osservare vuol dire constatare, senza aggiungere né togliere. Solo così ciò che si vede non subisce alterazioni.

Il modo di vedere invece, il modo di scrutare è cosa di fondamentale importanza che bisogna capire e cogliere. È tutto un discorso di focale: di messa a fuoco.

Mettere a fuoco vuol dire porre lo sguardo: centrare il punto da osservare; esattamente quello e non un altro, uno qualsiasi.

Se questo all’inizio può sembrare difficoltoso, man mano diventa automatismo, un’abitudine che dipende solo dalla propria volontà. Volerlo fare o meno diventa l’unica condizione essenziale.

Centrare il punto, questo punto dipende da sé stessi: provando si riesce e così inizia ad apparire quel che normalmente non si vede.

FMOO

Nel mondo eterno, tempo e spazio sono diversi?, J. O’Donohue

31 martedì Ott 2017

Posted by Paola in Inserimenti, Libri, Percezione, Realtà Parallele, Spiritualità, Stati altri di coscienza

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Nel mondo eterno, tempo e spazio sono diversi? – Estratto da “Anam Cara” di John O’Donohue, Edizioni Corbaccio (attualmente fuori catalogo)

Spazio e tempo sono il fondamento dell’identità e della percezione umana, senza di loro non esiste percezione.

L’elemento spaziale indica che ci troviamo in uno stato di costante separazione. Io sono qui, tu sei lì; persino la persona a cui siamo più vicini, quella che amiamo, rimane un mondo separato da noi. È questo lo strazio dell’amore: due persone si avvicinano al punto da desiderare realmente di divenire una sola, ma i loro spazi separati mantengono la distanza fra loro. Nello spazio siamo sempre lontani.

L’altra componente della percezione e dell’identità è il tempo; anch’esso ci separa costantemente. Il tempo è essenzialmente lineare, non continuo e frammentario. I giorni passati sono scomparsi, svaniti; il futuro non è ancora arrivato; tutto ciò che abbiamo è il minuscolo gradino dell’istante presente.

Quando l’anima lascia il corpo, non è più oppressa dallo spazio e dal tempo; è libera, e distanza e separazione cessano di ostacolarla. I morti sono i nostri più stretti vicini, sono tutt’attorno a noi. Quando domandarono a Meister Eckhart dove va l’anima di una persona dopo la morte, egli rispose che non va da nessuna parte. In quale altro luogo potrebbe andare? In quale altro luogo è il mondo dell’eternità? Non può che trovarsi qui. Abbiamo dato erroneamente una dimensione spaziale all’eternità, l’abbiamo relegata in una sorta di distante galassia.

Il mondo eterno non è un luogo ma un diverso stato di essere; l’anima della persona non va da nessuna parte perché non c’è nessun altro luogo dove andare. Ciò suggerisce che i morti siano qui insieme a noi, nell’aria in cui ci muoviamo quotidianamente. L’unica differenza tra noi e loro è che adesso rivestono una forma invisibile. Lo sguardo umano non riesce a vederli, ma possiamo sentire la presenza di quelli che abbiamo amato e sono morti. Con il raffinamento dell’anima possiamo sentirli, sentire che sono vicini.

Esiste un’intera mitologia irlandese su druidi e sacerdoti dotati di speciali poteri. Mio padre ci raccontava spesso di un suo conoscente che era molto amico del sacerdote del paese. I due uomini erano soliti fare lunghe passeggiate e un giorno il conoscente chiese al sacerdote dove si trovavano i morti. Egli rispose di non fare domande del genere,  ma, poiché l’altro insisteva, gli disse che glielo avrebbe mostrato a patto che non lo raccontasse a nessuno. Inutile dirlo, l’uomo non mantenne parola. Il sacerdote alzò la mano destra e l’uomo vide le anime dei defunti che si affollavano per ogni dove come gocce di rugiada sui fili d’erba.

Spesso solitudine e isolamento sono la conseguenza di una mancanza di immaginazione spirituale, dimentichiamo che uno spazio vuoto non esiste; ma ogni spazio è colmo di presenza, in particolare di coloro che si trovano ora in una forma eterna, invisibile.

Per chi è morto, anche il mondo del tempo è differente. Qui siamo imprigionati in un tempo lineare: il passato è dimenticato, perduto; il futuro ci è ignoto. Per i defunti il tempo è completamente differente, poiché vivono nel cerchio dell’eternità.

Nei capitoli precedenti abbiamo parlato del paesaggio, di come quello irlandese resista alla linearità e di come il pensiero celtico non abbia mai apprezzato la linea ma abbia sempre amato la forma circolare. All’interno del cerchio inizio e fine sono fratelli, nel riparo che l’eterno offre all’unità dell’anno e della terra.

Penso che nel mondo eterno il tempo sia diventato il circolo dell’eternità; forse, quando una persona raggiunge questo mondo può guardare indietro a quello che qui chiamiamo passato e sapere tutto del futuro. Per i morti il presente è presenza totale. Probabilmente i nostri amici defunti ci conoscono meglio di come abbiano mai potuto in vita; sanno tutto di noi, anche cose che possono deluderli. Ma poiché sono trasfigurati, la loro comprensione e compassione sono proporzionate a tutto quanto sono venuti a sapere su di noi.

Credo che i nostri amici defunti si preoccupino e abbiano cura di noi. Spesso il nostro cammino è minacciato da un macigno di sofferenza sul punto di precipitare su di noi, ma i nostri amici tra i morti lo trattengono fino a che non siamo passati.

Uno degli sviluppi che nei prossimi secoli potrebbero verificarsi nell’evoluzione e nella coscienza umana è una nuova relazione globale con il mondo invisibile dell’eternità. Potremmo legarci in modo creativo con i nostri amici nel mondo invisibile.  —

– Estratto da: Anam Cara – Il libro della saggezza celtica, John O’Donohue [Capitolo Sei]

La gamma dei cinque sensi, E. Capuano

26 giovedì Ott 2017

Posted by Paola in Coscienza, Percezione, Realtà Parallele

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La gamma dei cinque sensi, Edoardo Capuano (2004)

Noi tutti viviamo su una gamma di frequenza, ovvero la percezione dei nostri cinque sensi, e non in un “mondo”. Siamo convinti, e questo ci è stato inculcato, che la creazione sia strutturata come un grattacielo, ma non è così: il cielo non rappresenta il Paradiso, il cielo è il cielo e basta. L’infinito in realtà è composto da una illimitata gamma di frequenze che condividono il medesimo spazio.

Per rendere meglio l’idea, le frequenze radiofoniche e televisive occupano lo stesso spazio che stiamo occupando, ma in lunghezze d’onda diverse. Ognuna di esse occupa una frequenza a sé come pure il nostro corpo fisico. Siccome le “realtà” o i “mondi” si diversificano, ogni frequenza non sa dell’esistenza delle altre. Solo nel momento in cui le frequenze si avvicinano molto le une alle altre avviene il fenomeno dell’ “interferenza”. Quando ci si sintonizza su una radio, si sente solo quel canale e non altri canali radio in quanto non trasmettono su quella frequenza. Solo quando spostiamo la manopola del ricevitore ci si sintonizzerà su un’altra radio ma ciò non significa che la radio che stavamo ascoltando ha cessato di trasmettere.

Questo è il principio che sta alla base della creazione infinita che ogni essere umano ha dentro di se per il semplice motivo che condivide il medesimo spazio. Il problema sta nel fatto che noi, esseri umani, siamo fortemente limitati dai nostri cinque sensi che operano solo ed esclusivamente su un piano tridimensionale e quindi non possiamo vedere tutto l’infinito anche se esso ci compenetra, come non possiamo udire contemporaneamente tutte le radio sintonizzandoci solamente su una. Quello che i nostri occhi vedono rappresenta solamente una insignificante parte dell’infinito che vibra in questa circostanza dimensionale. I nostri cinque sensi possono captare esclusivamente i densi campi magnetici che riflettono la luce, ma nel momento in cui la vibrazione aumenta essa diventa invisibile in quanto ha superato la gamma di frequenza dei cinque sensi. Tuttavia, anche se scompare dalla sfera tridimensionale essa in realtà non scompare; ha solo lasciato la gamma di frequenza basata sui nostri cinque sensi. Essa non è scomparsa, come non scompare radio 1 quanto ci si sintonizza su radio 2. Le bande di frequenza sono meglio conosciute con il nome di dimensioni.

Recenti ricerche hanno appurato che nella gamma di frequenza dei nostri cinque sensi si può captare ben poco di quello che esiste solo nel nostro universo. La percezione dei nostri occhi è limitatissima, può vedere solamente la materia che riflette la luce, ovvero la materia “luminosa” come la chiamano gli scienziati. Noi vediamo grazie alla luce che riflettendosi sulla materia “luminosa” proietta le varie sagomatura. Ma nel momento in cui la sorgente luminosa si spegne non riusciamo a vedere più nulla. Gli astrofisici sostengono che l’universo è composto per il 99,5 per cento di “materia oscura”, ossia materia che non riflette la luce. Per questo motivo non la possiamo vedere; i nostri occhi sono in grado di vedere solo lo 0,5 per cento della realtà che ci circonda.

Per i motivi che ho esposto in narrativa, non riesco a capire come certi scienziati azzardino a proferire proclami scientifici e giudizi definitivi sulla natura della vita e della creazione, quando in realtà il 99,5 per cento del nostro universo non è visibile. In definitiva, essi presentano delle teorie che alla fin dei conti potrebbero essere vere solo allo 0,5 per cento. Tutti i giorni inoltre si possono sentire persone che ti dicono: «io credo solo a ciò che vedo». Queste persone sono talmente intrappolate in questa realtà dei cinque sensi da credere solo in essa, e quindo solo allo 0,5 per cento di quello che esiste realmente. Per approfondire l’argomento sulla materia oscura suggerisco ai lettori due stupefacenti libri della ricercatrice Giuliana Conforto che si intitolano: “Il gioco cosmico dell’uomo” e “La scienza futura di Giordano Bruno”.

Fonte originale: Ecplanet.net

Partecipare o aspettare – Entrare nell’invisibile, FMOO

12 martedì Set 2017

Posted by Paola in Realtà Parallele

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Partecipare o aspettare – Entrare nell’invisibile, FMOO

Essere nel cambiamento offre due possibilità, partecipare o aspettare: partecipare agendo o aspettare subendo.

Subire l’azione vuol dire non cogliere il presente, non capire che si sta perdendo un’opportunità, (in questo caso) irripetibile.

La partecipazione invece rende sincroni con l’azione che venendo incontro determina passaggi che, consentendo approfondimenti, sviluppano capacità nascoste e ancora non considerate. La sincronicità infatti rende accessibile quel che prima non si vedeva; quello che per questo prima non c’era.

Entrare nell’invisibile è un po’ come addentrarsi in un luogo buio (totalmente buio) dove non si vede proprio niente. Inizialmente, perché poi a poco a poco qualcosa comincia a delinearsi. Questione di abitudine.

Abituarsi all’invisibile è innanzitutto accettarlo sapendo che c’è ma non si vede. Capendo che tra dove si guarda e ciò che si vede c’è dell’altro, non focalizzabile per mancanza di percezione.

Cogliere che tra se stessi e quel che si osserva c’è dello spazio (neutro solo perché non si sa che c’è qualcosa), induce a ritrarre lo sguardo come a voler guardare meglio. A cercare gradualmente di stabilire un nuovo approccio visivo.

Questo semplice “gesto” apparentemente insignificante, se coltivato ed applicato con costanza, sposta il centro dell’attenzione visiva (e cioè dove è indirizzato lo sguardo) verso una posizione intermedia tra se stesso (che guarda) e l’oggetto guardato. A prescindere dalla lontananza che esiste tra se e quello che si sta mettendo a fuoco.

Ne consegue che ritrarre lo sguardo, se ci si fa caso, comporta un “aggiustamento” (o perlomeno una variazione) a livello fisico dentro la calotta cranica. Succede che in automatico l’intera struttura attua una variazione, leggera (a livello fisico) ma significativa (a livello morfologico).

Infatti, spostandosi il centro dell’attenzione visiva (la focale) verso l’interno, ne consegue un iniziale sfocamento che, se individuato (centrato), apre la vista in un’altra dimensione.

Cogliere il punto esatto in cui questo avviene è una questione di allenamento visivo. Bisogna infatti concentrarsi non tanto su ciò che si vede che inizialmente destabilizza in quanto (venendo meno i parametri usuali) non si riesce a fissare l’attenzione tra se (che osserva) ed il punto da cogliere, ma sull’assetto cranico da assumere: la visione è una conseguenza.

Inseguendo il risultato attraverso la vista non si ottiene nulla e ci si scoraggia. Anche perché la vista, per sua natura, difficilmente resta fissa ad osservare un punto ben preciso ma è portata a “spaziare”, ad andare oltre per esplorare.

Fissare la vista dipende e presuppone un procedimento diverso. Bisogna adattarla alle esigenze dell’attenzione in modo indiretto: così che “subisca” senza reagire. Così che, docile al controllo, scopra quel che c’è tra il punto di partenza e quello che si vuole osservare. Essendoci sempre spazio, poco o tanto che sia, lo si crede vuoto, neutro per mancanza di riferimenti. E incolore perché non si concepisce ancora l’energia che lo riempie.

Questa energia, vero collante dell’universo, è in ogni cosa, riempie ogni cosa. Dovendo differenziare tra ciò che si concepisce (ormai noto) e quel che pur riempiendo non si concepisce perché non noto.

Scrutare in questo spazio dipende da come ci si pone a livello di struttura fisica. E cioè porsi, fisicamente, nell’esatto modo che lo consente; spostando l’attenzione in un punto ben preciso di modo che la visione diventi una conseguenza non pilotata dagli occhi (come succede ora).

Spostando l’attenzione (la volontà ad essere presente) nella sommità del capo (al centro) si notano immediatamente due aspetti: la calotta cranica assume un assetto diverso dovuto al “sollevamento” dell’attenzione e, per lo stesso motivo, si denota una sospensione del respiro. Come se non ci fosse bisogno di respirare fino a quando, accorgendosene, non si risposta la vigilità più in basso per paure legate alla sopravvivenza: non è possibile vivere senza respirare.

Abituarsi ad entrare in questo stato è una questione di allenamento. Allenamento consequenziale all’individuazione iniziale del punto neutro (che si trova più in basso rispetto alla sommità della testa) che attiva il magnete interiore che, recependo l’attenzione, lentamente la convoglia più in alto (proprio a seguito di dedizione ed allenamento) così da ottenere in seguito l’accelerazione necessaria per raggiungere (dallo interno) la sommità del capo.

I passaggi sono graduali. Progressivi e graduali.

Un’azione, mentre viene concepita, apre a quella successiva. Così che non ci sia solo continuità ma coerenza.

Tutto dipende comunque da come ci si pone nei confronti del nuovo, del non conosciuto.

Se si vuole dare credito alla propria intuizione lasciandole il sopravvento non si conclude nulla. Non si può certo pretendere d’aver capito quando non si sa ancora di cosa si parla.

Pensare d’aver capito frena. Cessa la spinta che porta la mente ad una condizione neutra. Di accettazione verso quel che non sa.

E questo è importante, fondamentale, perché non inibendo la ricezione si continua ad essere canali recepenti attivi.

Partecipare dipende anche ed essenzialmente da questo.—

FMOO

Le sette tappe della morte – Un parto alla fine dell’esistenza?, L. Muller

06 mercoledì Set 2017

Posted by Paola in Coscienza, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

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Le sette tappe della morte. Un parto alla fine dell’esistenza?,  Lydia Muller

da 3ème Millénaire n. 83 – Traduzione della dr.ssa Luciana Scalabrini

– – – – – – – – – – – – – – –

La mia ricerca sulla fine dell’esistenza ha ricevuto un impulso decisivo da una parte piuttosto inattesa: quello della nascita, il suo polo opposto. Ma morire e nascere, inizio e fine, non vanno di pari passo da sempre?

Le ricerche di Bernard Montaud sui traumi del passato, tra cui il trauma perinatale, hanno confermato(se ne dubitava già) che il parto costituisce una prova maggiore per il bebè. Stanislav Grof, Arthur Janov e molti altri avevano fatto ricerche su quell’argomento. Ma i lavori di Bernard Montaud colpiscono per la loro precisione e le nuove prospettive per il parto. Dopo aver assistito per una ventina d’anni al ricordo cosciente della nascita di più di duecento adulti con la psicanalisi corporea, metodo d’investigazione che fa appello unicamente alla memoria corporea, ha codificato quel processo in sette tappe. Il bambino sarebbe messo a confronto con molte prove e sofferenze fisiche e psicologiche, obbligandolo ogni volta a una soluzione di sopravvivenza. La nascita costituirebbe così una paziente iniziazione alla vita sulla terra.

In cosa quelle tappe della nascita, che svilupperò più avanti, si riferirebbero alla morte? Questo processo ha profondamente colpito la psicoterapeuta dei malati gravi e del morente che io sono, e fa sorgere in me le domande seguenti:

  • Ci sarebbe un parto all’altro capo della vita?
  • Quali sarebbero le tappe?

Due percorsi eroici.

Riflettendo sulla morte, mi è apparsa un’analogia: la nascita e la morte sembrano seguire uno stesso cammino, ma per certi aspetti inverso. L’uno è il percorso eroico del bambino che lascia il suo mondo interiore per raggiungere il mondo esterno; l’altro è quello, anch’esso eroico, del morente, chiamato a staccarsi dal mondo esterno per raggiungere un mondo ai nostri occhi sconosciuto.

L’idea di un neonato insensibile e senza percezioni si è rivelata totalmente falsa. Lui al contrario possiede degli organi di senso estremamente ricettivi che gli permettono di percepire tutto, di sentire tutto, perfino i pensieri delle persone presenti. All’altro capo della vita, quelli che sono giunti ai confini della morte, nel NDE (Near Death Experience, esperienza di morte imminente), testimoniano esperienze paragonabili degli organi dei sensi. Ci ritorneremo.

Ho perciò provato a vedere se c’è una corrispondenza tra il percorso di chi nasce e quello di chi muore. Per mostrare questo parallelismo, ho giustapposto ogni fase della nascita alla fase corrispondente della morte. Non è certo che un mucchio di ipotesi, una nuova griglia di lettura, ma ha il merito di fare un chiarimento su quel momento così essenziale della fine della vita.

Prima tappa della nascita: la “decisione” di nascere.

Ho messo la parola decisione tra virgolette, perché questa fase non è cosciente che raramente nella nostra cultura. Gli etnologi conoscono bene i rituali di certe tribù pellerossa per esempio, dove il vecchio, sapendo che deve morire, chiede di radunare la parentela. Quando, dopo molti giorni di viaggio, sono tutti arrivati, li saluta con un cerimoniale prima di ritirarsi nella sua tenda. “Si presenta” per morire! Da noi, le tracce di quella coscienza della morte vicina mi sono giunte a diverse riprese da testimonianze di famiglie che riguardavano un parente morto di morte improvvisa. Dopo il fatto, si sono ricordati degli incontri affettuosi richiesti dallo scomparso poco prima della morte, una messa in ordine inabituale dei propri affari o strane frasi sulla propria morte, che nessuno allora prendeva sul serio. Elisabeth Kubler–Ross ha descritto molti casi di bambini, le cui parole e disegni annunciavano chiaramente la propria morte, il proprio distacco. Tutte quelle testimonianze dicono la stessa cosa: in una parte di loro, sapevano che “era deciso” di morire. In generale le persone subiscono quella decisione all’apparire di una malattia mortale.

Seconda tappa della nascita:

il lungo corridoio del ventre o la lunga fase delle contrazioni non espulsive. Si sa quando questo comincia, ma non quando finirà. La forza brutale del ventre sottomette il bambino al gioco delle contrazioni. E’ un’immensa prova di durata e d’impegno nello sforzo per andare verso l’uscita. Il bambino non ha che una scelta. Andare con le contrazioni o lottare contro di loro… Ora scopre che se non avanza soffre. Durante questa tappa gioca un potente corpo a corpo con la madre, di cui sente tutti gli stati d’animo.

Seconda tappa della morte: il lungo corridoio delle perdite funzionali.

La fine della vita ha le sue contrazioni, la sua prova d’usura: le perdite funzionali inesorabili punteggiate da qualche tregua più o meno lunga. Le forze brutali della malattia sottomettono il morente al gioco delle diminuzioni e perdite dei ruoli. Ma, se il bambino deve stare nello sforzo, il morente deve imparare a lasciar andare. Come il bambino, il morente non ha come alternativa che lottare contro le perdite, opponendosi pur subendole, o di andare con loro approfittando di ciò che resta. In questa fase, come nel parto, si assiste a un corpo a corpo psicologico tra il morente e i suoi familiari. Egli sente tutte le loro paure, tutte le tensioni confuse con le sue. Questa tappa contiene le differenti fasi del lutto descritto da Elisabeth Kubler–Ross: diniego, rivolta, contrattazione, depressione, le montagne russe della speranza e della disperazione.

Terza tappa della morte: i punti di blocco del me.

E’ la fase cruciale che attiene all’attaccamento affettivo centrale (a un parente, una responsabilità, un ruolo, un bene…). Malgrado il morente abbia già perduto la maggioranza delle funzioni corporee e il suo corpo non sia che un inferno di disfunzioni, lotta con accanimento per mantenere un ultimo controllo sul corpo o sul mondo esterno… Fin là si era rassegnato alle perdite precedenti, ma ora perdere significa perdere tutto, tutta l’identità del me. E, come al bambino, occorre al morente una dose di sofferenza insopportabile per avere il coraggio eroico di sacrificare ciò che ha di più caro, il suo bisogno di essere questo o quello.

Viaggio alle frontiere della morte.

Prima di proseguire con le tappe extrauterine, devo precisare che quelle fasi mi hanno dapprima interessato per il loro parallelo con certe esperienze molto particolari che sopravvengono alle frontiere della morte: le NDE. Il vissuto riportato da persone dichiarate clinicamente morte per un arresto cardiaco o respiratorio, per esempio, somigliano alle tappe 4, 5 e 6 di una morte per parto cesareo, cioè senza le contrazioni di una decadenza fisica preliminare.

Ma riassumiamo rapidamente lo svolgimento delle principali fasi di una NDE. Dapprima il morto si trova proiettato fuori dal corpo, ondeggiando al di sopra di questo in uno stato di benessere, senza alcuna emozione o interesse per lui. Vede e sente tutta la scena che si svolge, di cui testimonierà più tardi con una precisione stupefacente. Meglio, come se un velo gli fosse caduto dagli occhi, percepisce perfino i pensieri delle persone presenti. Poi attraversa un tunnel nel quale può incontrare parenti già deceduti. All’altro capo del tunnel, vede il film della sua vita nei minimi dettagli e in visione panoramica. Percepisce d’un tratto la vera portata dei suoi atti e vive il loro impatto sugli altri. Ora tutti riportano che il solo giudizio presente è il loro. Nella fase seguente, vissuta da circa il 10% dei soggetti, si trovano tuffati in una luce indicibile. La parola che torna costantemente è l’Amore incondizionato mai incontrato sulla terra. Vivono il Perdono ultimo, quando la loro imperfezione umana incontra l’Amore assoluto. Questa esperienza è di una tale potenza che più niente al mondo li attira.

Pertanto, avendo raggiunto un certo limite, devono cambiare cammino e indossano di nuovo lo scafandro del loro corpo.

Attualmente, 8 milioni di testimonianze nel mondo attestano quello svolgimento nelle sue grandi linee a diversi gradi.

Potrebbe darsi che i “quasi morti” della NDE vivano in un tempo concentrato ciò che l’agonizzante vive in modo diluito in molti giorni? Le NDE ci sembrano indicare che il morente guarda sempre più lontano, come attraverso una vista lunga: dapprima il suo corpo e gli umani attorno, poi tutta la sua vita passata, per infine intravedere una dimensione molto al di là dell’umano. Nel processo della nascita descritto da Bernard Montaud, al contrario, il bambino vedrebbe sempre più vicino; dapprima le condizioni terrene, poi la condizione umana in generale e infine l’interiorità della propria madre. Ho provato a comprendere le mie osservazioni vicino ai morenti alla luce di quel nuovo chiarimento.

Ma riprendiamo il processo delle tappe extrauterine, precisando che, nel bambino come nel morente, possono essere mescolate tra loro.

Quarta tappa della nascita: l’uscita dal ventre.

Il bambino lascia il ventre della madre, pur restandovi attaccato con il cordone ombelicale. Vive dapprima un gran sollievo, il piacere di un’improvvisa libertà, seguito dall’incontro brutale delle condizioni terrene come l’aria fredda, la luce violenta, i rumori.

Quarta tappa della morte: l’uscita dal me.

A partire da questa tappa il morente entra nello stato chiamato agonia, mentre il suo spirito guadagna in altezza di vista. La fine delle identificazioni, ma soprattutto il fatto d’avere abbandonato la presa, gli danno un senso di sollievo e di libertà. Staccato dai ruoli, entra in una grande distanza emozionale che lo porta al di sopra della mescolanza umana.

Mentre in questa fase il bambino subisce il mondo fisico, il morente subisce il mondo psichico di chi lo circonda, il tormento affettivo, le afflizioni e i sensi di colpa. “Loro non piangono la mia morte, ma piangono perchè li lascio. Quando si muore il peggio è il peso dei vivi”, diceva una paziente dieci giorni prima di morire.

Quinta tappa della nascita: l’incontro con l’imperfezione umana.

In questa fase, il neonato è curato dall’ostetrica. E’ il suo primo incontro con un campione umano che certo è professionale, ma senza legame d’amore. Il cordone è tagliato e lui scopre la condizione umana: la dissociazione del corpo dalla mente. Gli umani hanno tutti la stupefacente facoltà di essere presenti con il corpo e altrove con la testa. Lui soffre terribilmente di essere toccato da mani assenti e vuote. Così, focalizzandosi su quello che non ha nessuna importanza per lui, come i suoi piedi o il suo corpo, chi lo accudisce lo fa oggetto delle sue cure, dove solo il corpo ha importanza ai suoi occhi.

Quinta tappa della morte: vedere la propria imperfezione o il bilancio della vita.

A differenza del bambino che incontra l’imperfezione della nostra umanità così divisa e incosciente, il morente incontra la totalità della propria vita con tutta la sua imperfezione. Come nelle NDE è davanti alle motivazioni e alle conseguenze vere delle sue azioni. Durante l’agonia, i morenti non parlano più molto e raramente dicono a cosa si trovano confrontati in quella revisione della loro vita. A volte osserviamo una certa agitazione, a lamenti o semplicemente vediamo che non arrivano a morire. A volte ci sono alcune parole udibili, come quelle di una morente a una figlia handicappata che aveva sofferto della sua distanza e della sua durezza: “Dio mio, come hai dovuto soffrire!”

Sesta tappa della nascita: l’amore condizionato dei genitori.

Il bambino è portato alla sua mamma. Mentre aveva sperato che i genitori fossero diversi dalle levatrici, scopre il loro amore così imperfetto, così condizionato paragonato all’incondizionato e alla perfezione dell’esperienza intrauterina. Per la prima volta, il neonato scopre che ignorano tutto di lui e di ciò che sta attraversando. Non è visto per quello che è, perché esiste solo nel loro mondo di proiezioni e di desideri. Ha già il suo posto nello scacchiere familiare, con il compito di riunire o separare la coppia parentale, di procurare alla madre importanza agli occhi del marito o di essere colui che è sempre di troppo… Quella percezione porta il neonato al limite della resistenza nervosa. Per preservare l’equilibrio psicologico, sarà obbligato a usare il suo primo meccanismo di difesa. E’ il senso della tappa seguente.

Sesta tappa della morte: l’Amore o l’assenza d’Amore.

Questa fase dovrebbe essere l’incontro con la luce d’Amore delle NDE. Ora, solo il 10% dei soggetti delle NDE raggiunge quell’Amore, non ce ne sono di più negli agonizzanti. Non posso che sollecitare l’importanza dell’amore tra il morente e i suoi cari. Come molti assistenti, ho io stessa visto agonie che non finivano mai e, appena una data persona andava al capezzale del morente, lui si spegneva. In assenza dell’amore interno, questo deve venire da fuori, dai parenti e dagli assistenti. Ma succede anche che ci si trovi di fronte a un viso così raggiante e sereno che una presenza luminosa nascosta ai nostri occhi è indubitabile.

Settima tappa della nascita: l’installazione dello schermo o la chiusura dei grandi organi di senso per percepire meno e soffrire meno in questo mondo.

Perdendo i “grandi occhi” non è più nel mondo, ma nel “suo” mondo. Il traumatismo della nascita sembra avvenire per migliorare le condizioni del parto, perché la più gran sofferenza viene attraverso l’umano. Così l’impronta di quella sofferenza prima e unica diviene la base della sua personalità, anch’essa unica, e attraverso di lei sente di esistere. Tutta la vita l’essere umano tenta di difendersi contro quel primo dolore, pur riproducendolo inesorabilmente, come per ritrovare i propri riferimenti originali.

Settima tappa: la morte o il togliere lo schermo.

Non occorre alcuna spiegazione.

La testa in avanti o all’indietro.

In conclusione, quel processo ci chiarisce sulle diverse difficoltà inerenti alla morte, ma anche su certi vantaggi Ne ho rilevati alcuni :

–   Se il 97% dei neonati nella nascita si presentano con la testa in avanti, solo il 3% all’indietro, la proporzione è invertita, mi sembra , alla fine della vita. Una piccolissima parte di persone comincia la morte “con la testa in avanti”, con un “si, vado!” . La maggioranza si presenta all’indietro. La ragione principale di quella differenza mi pare essere nel fatto che il bambino è a termine, mentre la maggioranza dei morenti non si sentono né pronti né compiuti ed è logico che rifiutino la morte. E se la lotta contro le contraddizioni servisse a guadagnare del tempo per andare allo scopo di ciò che si ha da compiere sulla terra!

  • La percezione del dolore è strettamente legata al senso o all’assenza di senso. Una donna potrebbe sopportare le contrazioni dolore del parto, se non conoscesse il loro senso: la dilatazione del collo uterino perché il bambino possa nascere? E non è l’assenza di senso che rende insopportabile la fine della vita, intollerabile la degradazione fisica?
  • Nella seconda tappa, quella delle contrazioni del corpo decadente, incontriamo la lotta accanita contro la malattia, la speranza di guarire e la disperazione dell’aggravamento.

Si dice che la speranza fa vivere, direi piuttosto che fa durare.

Il giorno in cui un medico ha detto a una paziente leucemica che non c’era più nessun trattamento possibile, ha esclamato: “Finalmente è finito l’inferno della speranza!”; è diventata calma e distesa, non esprimendo più che i desideri di ciò che voleva ancora prima di morire. Approfittare di quello che resta, ecco il grande vantaggio che permette davvero di vivere in questa fase.

  • La tappa dei punti di blocco sembra intimamente legata alla capacità o no di lasciar andare o di accettare di perdere per vincere altrove. Le perdite servono, come le contrazioni uterine, a preparare un passaggio, ma per il quale non si passerà che spogliati di tutto. Per l’ego è impossibile vedere un senso al di là della sua persona. E meno ha un senso, più la lotta sarà accanita e più bisognerà reggere un dolore insopportabile per lasciar andare, Ora, è evidente che più la sofferenza è grande, più la tentazione del suicidio o dell’eutanasia sarà forte. Invece di uscire dal me verso un nuovo stato di coscienza, prenderà la via della disperazione.
  • Credo che la vicinanza della morte abbia la virtù di spingere l’uomo verso il meglio di sé; grazie all’imminenza della morte, diventa capace di dire o di agire in un modo prima impensabile. Il vantaggio per il morente e i suoi cari mi pare di andare all’apice dell’amore possibile. Ma il principale vantaggio sta secondo me a monte del processo del morire. Infatti, se il 20° secolo ha iniziato la preparazione al parto durante la gravidanza, non succederà nel 21° secolo di iniziare nel corso della vita una preparazione al parto finale?

Fonte: http://www.sviluppocoscienza.it/Lydiax.htm

Dove va l’anima dopo la morte?, C. Boni (Libro)

17 sabato Giu 2017

Posted by Paola in Inserimenti, Libri, Percorsi spirituali, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

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Dove va l’anima dopo la morte?, Cesare Boni – Amrita Edizioni

Cosa accade – Come comportarsi – Come accompagnare il morente

La paura della morte fa parte del naturale istinto di sopravvivenza dell’uomo, ma da noi in Occidente, non vi è solo un comprensibile timore per un processo che non si conosce, una paura dell’ignoto, ma vi è una vera e propria ossessione. Si vede la morte come la fine della vita, come una completa definitiva separazione da tutto. I grandi libri sapienziali di tutte le tradizioni ed i grandi saggi di ogni epoca ci dicono invece esattamente l’opposto. La verità, essi dicono, è che la VITA È ETERNA. Esisteva ben prima della nascita, non finirà con la nostra morte; e ce lo dimostrano.

Questo libro è uno studio serio, profondo, completo e comparato dei più grandi testi sapienziali di tutte le tradizioni che ci indicano non solo tutta la verità, ma ci descrivono, minuto per minuto, il viaggio dell’anima dopo la morte!

Lo scopo è di ridurre al minimo la paura della morte, permettere di sapere ciò che avviene realmente nel momento del trapasso e nei giorni successivi, ed aiutare a raggiungere l’esperienza della nostra vera natura essenziale. Risponde, quindi, ai grandi interrogativi: “Chi sono io?”, “Perchè sono nato?”, “Perchè dovrò morire?”

INDICE – La paura della morte – La creazione – Vivere il divino nella sua interezza – Il bardo del morire – L’accompagnamento dei morenti – La dissoluzione interna – La luce di Dio – Gli angeli – Il bardo del Dharmata – Il bardo del divenire – La legge del karma – La reincarnazione – L’aiuto dopo la morte

Cesare Boni, è stato docente alla Scuola di Specializzazione in “Psicologia del Ciclo della Vita ed ha insegnato nei Corsi di Perfezionamento dell’Università Statale “Federico II” di Napoli. Ha confrontato i suoi studi e le sue esperienze con il professor Moody, la professoressa Kubler-Ross e i maggiori studiosi occidentali di questa fase dell’esistenza. Ha studiato per più di 40 anni negli Ashram e nelle scuole dei più grandi maestri di Buddismo Tibetano, dell’Induismo, del Vedanta e dello Yoga.

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