• HOME
  • Bacheca
  • ELENCO Articoli
  • TAOISMO
    • I Ching – INTERSEGNI
  • STOICISMO
  • CONTATTO
  • I Ching – INTERSEGNI

Inseparatasede

~ pagina parallela

Inseparatasede

Archivi della categoria: Percezione

L’imprescindibile umanità delle scienze, dialogo con Isabella Blum (da Il Tascabile)

03 sabato Set 2022

Posted by Paola in Coscienza, Intervista, Libri, Linguaggio, Neoscienze, Percezione, Società

≈ Commenti disabilitati su L’imprescindibile umanità delle scienze, dialogo con Isabella Blum (da Il Tascabile)

 

Parole scientifiche e parole letterarie: un dialogo con Isabella C. Blum, traduttrice dei libri di Oliver Sacks e di tanti altri grandi saggi scientifici.

Isabella C. Blum è biologa e traduttrice. Ha tradotto e curato libri per moltissime case editrici, da romanzi a testi scolastici, specializzandosi poi in “saggistica letteraria”: è, per esempio, la voce italiana di Oliver Sacks per Adelphi. Ha tradotto negli anni i libri del neuroscienziato Antonio Damasio, del biologo Stephen J. Gould, del matematico John D. Barrow, del Peter Godfrey Smith. Ma anche classici della scienza scritti da Francis Crick, James Dewey Watson, Charles Darwin.

Che si tratti di biologia o astrofisica, neuroscienze o storia della psichedelia, il lavoro di Blum è sempre al confine fra traduzione scientifica e traduzione letteraria, cercando di riportare in lingua italiana i migliori divulgatori di lingua inglese: grandi scienziati quindi, ma anche ottimi scrittori. Un lavoro fatto di attenzione e cura ai dettagli, chiarezza espositiva e orecchio per lo stile, rigore accademico e poesia.

Vorrei partire dall’inizio: qual è la sua formazione? Come è arrivata a fare il lavoro che fa?

Sono due domande molto diverse. La prima è quella più semplice. La mia formazione è stata fortunatamente, o forse dovrei dire fortunosamente, eclettica. Ho avuto una madre innamorata della letteratura e dell’arte, della lettura e della scrittura, e un padre con una cultura da ingegnere; ho fatto un liceo classico nel corso del quale mi sono capitati (anche) alcuni splendidi docenti, ho studiato musica con un grande Maestro, e ho una laurea scientifica. Tutti questi sono tasselli che hanno contribuito in modo importante alla mia forma mentis, infondendomi l’amore per le parole, per la lettura e la scrittura, l’approccio scientifico al testo, e una certa sensibilità musicale. A posteriori, l’insegnamento più alto che mi venne dal mio Maestro di pianoforte, Alberto Mozzati, fu quello del rispetto verso se stessi e quindi verso il proprio lavoro. Mai esibirsi impreparati, mai o la va o la spacca, sempre un’attenzione certosina – amorevole – al dettaglio: il dettaglio che non è minuzia irrilevante ma componente essenziale. Non pedanteria ma cura. Sono insegnamenti fondamentali, non solo per un musicista, non solo per un traduttore; io li ricevetti da adolescente e li capii molto più tardi. Me li porto sempre dentro.

Per quanto riguarda la seconda domanda, cioè come io sia arrivata alla traduzione – rispondere è un po’ più complicato. Posso dire che terminati gli studi universitari – studi scientifici: io sono laureata in Scienze Biologiche – la mia idea era quella di fare ricerca, possibilmente rimanendo nell’ambiente accademico, oppure anche in campo farmaceutico. Avevo però una grande passione per la divulgazione scientifica e per la scrittura, e quindi avevo già pensato anche a uno sbocco professionale alternativo, in ambito editoriale. Quando capii che le possibilità di guadagnarmi da vivere rimanendo all’università erano prossime allo zero, mi attivai cercando lavoro sia nelle aziende farmaceutiche, sia proponendomi come traduttrice alle case editrici. Fui assunta da una casa farmaceutica che non mi impiegò nella ricerca, ma nel lavoro sulla documentazione scientifica relativa ai suoi prodotti. E contemporaneamente ottenni i primi contratti per traduzioni editoriali – saggistica scientifica. Per qualche anno seguii questo doppio binario, poi decisi che il lavoro editoriale mi interessava decisamente di più, e la mia attività si concentrò in modo sempre più esclusivo sulla saggistica scientifica. (segue)

Testo integrale:https://www.iltascabile.com/scienze/isabella-c-blum/

Sensemaking

28 sabato Mag 2022

Posted by Paola in Coscienza, Filosofia, Linguaggio, Neoscienze, Percezione, Società

≈ Commenti disabilitati su Sensemaking

1. Nell’organizzazione

Il sensemaking o sense-making è il processo attraverso il quale le persone danno significato alle loro esperienze collettive. È stato definito come “lo sviluppo retrospettivo in corso di immagini plausibili che razionalizzano ciò che le persone stanno facendo”. Il concetto è stato introdotto negli studi organizzativi da Karl E. Weick negli anni ’70 e ha influenzato sia la teoria che la pratica. Weick intendeva incoraggiare uno spostamento dal tradizionale focus dei teorici dell’organizzazione sul processo decisionale e verso i processi che costituiscono il significato delle decisioni che vengono emanate nel comportamento.

Non esiste una singola definizione concordata di sensemaking, ma c’è consenso sul fatto che si tratta di un processo che consente alle persone di comprendere questioni o eventi ambigui, equivoci o confusi. I disaccordi sul significato del sensemaking consistono se consideare il sensemaking come un processo mentale all’interno dell’individuo, un processo sociale o un processo che si verifica come parte della discussione; oppure se sia un processo quotidiano in corso oppure si verifica solo in risposta a eventi rari; oppure se sensemaking descrive gli eventi passati oppure considera il futuro.

[da: https://en.wikipedia.org/wiki/Sensemaking]

2. Nella Scienza dell’informazione

Mentre il sensemaking è stato studiato da altre discipline sotto altri nomi per secoli, nella scienza dell’informazione e nell’informatica il termine “sensemaking” ha segnato principalmente due argomenti distinti ma correlati. Il sensemaking è stato introdotto come metodologia da Brenda Dervin negli anni ’80 e nell’interazione uomo-computer dai ricercatori PARC Daniel Russell, Mark Stefik, Peter Pirolli e Stuart Card nel 1993.Nella scienza dell’informazione, il termine è spesso scritto come “sense-making”. In entrambi i casi, il concetto è stato utilizzato per riunire le intuizioni tratte dalla filosofia, dalla sociologia e dalle scienze cognitive (in particolare dalla psicologia sociale). La ricerca sul sensemaking viene quindi spesso presentata come un programma di ricerca interdisciplinare.

Come processo – Il sensemaking può essere descritto come un processo di sviluppo di una rappresentazione sofisticata e di organizzazione delle informazioni per servire un compito, ad esempio, il processo decisionale e la risoluzione dei problemi (Russell et al., 1993). Gary A. Klein e colleghi (Klein et al. 2006b) concettualizzano il sensemaking come un insieme di processi che viene avviato quando un individuo o un’organizzazione riconosce l’inadeguatezza della loro attuale comprensione degli eventi. Il sensemaking è un processo attivo a due vie di inserimento dei dati in un frame (modello mentale) e l’installazione di un frame intorno ai dati. Né i dati né la cornice vengono prima; i dati richiamano i frame e i frame selezionano e collegano i dati. Qualora non vi sia un’adeguata corrispondenza, i dati possono essere riesaminati o un quadro esistente può essere rivisto. Questa descrizione assomiglia al modello di riconoscimento-metacognizione (Cohen et al., 1996), che descrive i processi metacognitivi che vengono utilizzati dagli individui per costruire, verificare e modificare modelli di lavoro (o “storie”) nella consapevolezza situazionale per spiegare una situazione non riconosciuta. Tali nozioni riecheggiano anche i processi di assimilazione e di accomodamento nella teoria dello sviluppo cognitivo di Jean Piaget.

Come metodologia – Brenda Dervin ha studiato il sensemaking individuale, sviluppando teorie sul “gap cognitivo” che gli individui sperimentano quando tentano di dare un senso ai dati osservati. Poiché gran parte di questa ricerca psicologica applicata si basa sul contesto dell’ingegneria dei sistemi e dei fattori umani, mira a rispondere alla necessità che i concetti e le prestazioni siano misurabili e che le teorie siano verificabili. Di conseguenza, il sensemaking e la consapevolezza situazionale sono visti come concetti di lavoro che consentono ai ricercatori di indagare e migliorare l’interazione tra le persone e le tecnologie dell’informazione. Questa prospettiva sottolinea che gli esseri umani svolgono un ruolo significativo nell’adattarsi e rispondere a situazioni inaspettate o sconosciute, così come situazioni riconosciute. Il lavoro della Dervin si è in gran parte concentrato sullo sviluppo di una guida filosofica per il metodo, compresi i metodi di teorizzazione sostanziale e la conduzione della ricerca.

Interazione uomo-computer – Dopo la pubblicazione nel 1993 (Russell et al., 1993) di un documento fondamentale sul sensemaking nel campo dell’interazione uomo-computer (HCI), ci fu molta attività sulla comprensione di come progettare sistemi interattivi per il sensemaking, e workshop sul sensemaking si sono svolti in importanti conferenze HCI.

[da: https://en.wikipedia.org/wiki/Sensemaking_(information_science)]

Traduzione: Paola

Mundus Imaginalis, o l’Immaginario e l’Immaginale – Henry Corbin

15 martedì Mar 2022

Posted by Paola in Coscienza, Filosofia, Percezione, Percorsi spirituali, Personaggi, Spiritualità, Stati altri di coscienza

≈ Commenti disabilitati su Mundus Imaginalis, o l’Immaginario e l’Immaginale – Henry Corbin

Offrendo le due parole latine mundus imaginalis come titolo di questa discussione, intendo provare a definire un ordine di realtà che corrisponda a un certo tipo di percezione, poiché la terminologia latina ha il vantaggio di fornire un punto di riferimento tecnico preciso, con cui confrontare i più o meno idonei equivalenti dei linguaggi moderni occidentali.

Ma farò subito un’ammissione. La scelta di queste due parole mi si impose qualche tempo fa, poiché non mi era possibile, per quello che traducevo o dicevo, essere soddisfatto dal termine ‘immaginario’. Non si tratta in nessun modo di una critica verso chi adopera per necessità questa parola, se cerchiamo insieme di giungere ad una sua positiva rivalutazione. A prescindere dai nostri sforzi, però, non possiamo evitare che il termine ‘immaginario’, nell’uso corrente e non deliberato, sia l’equivalente di non-reale, qualcosa che indica ciò che rimane estraneo all’essere e all’esistente – in breve, utopistico. Perciò ero assolutamente obbligato a trovare un altro termine se non volevo confondere i lettori occidentali.

Se indichiamo solitamente l’immaginario come irreale, utopistico, questo deve essere sintomo di qualche cosa. Di contro a questo sintomo, possiamo esaminare brevemente insieme l’ordine di realtà che io ho designato come ‘mundus imaginalis’ e cosa i teosofi islamici indicano come ‘ottavo clima’; esamineremo poi l’organo che percepisce questa realtà, precisamente, la coscienza immaginativa, l’Immaginazione cognitiva; e infine presenteremo alcuni esempi, tra i tanti altri ovviamente, che tratteggino la topografia di questi intramondi, così come sono stati osservati da coloro che realmente sono stati lì.

Ho appena nominato l’utopia. E’ strano, ma anche un esempio decisivo, che i nostri autori usino un termine persiano che sembra esserne l’esatto calco linguistico: Na-kojd-Abad, la “Terra di Nessundove”. Eppure si tratta di qualcosa di totalmente differente da un’utopia.

Leggiamo quindi i bellissimi racconti persiani – insieme fiabe visionarie e temi di iniziazione – di Sohravardi, il giovane Shaykh che, nel dodicesimo secolo fu il “restauratore della teosofia dell’antica Persia” nell’Iran islamico. All’inizio di ogni storia, il visionario si trova alla presenza di una figura soprannaturale di straordinaria bellezza, a cui il visionario chiede chi sia e da dove venga. Questi racconti narrano essenzialmente l’esperienza dello gnostico, vissuta come la personale vicenda dello Straniero, il prigioniero che aspira a ritornare a casa.

Al principio della storia che Sohravardi intitola “L’Angelo Rosso” il prigioniero, sfuggito alla sorveglianza dei suoi aguzzini, ovvero temporaneamente lasciato il mondo dell’esperienza sensoriale, si trova nel deserto alla presenza di un essere al quale domanda, poiché vede in lui il fascino dell’adolescente: “Oh giovane! da dove vieni?” e riceve la risposta “Cosa dici? Io sono il primo nato tra i figli del Creatore [in termini gnostici il Protoktistos, il Primo-Creato] e tu mi chiami giovane?”. Questa è l’origine del colore rosso dei suoi abiti: l’apparire di un essere di pura Luce il cui splendore è ridotto, dal mondo sensoriale, nel rosso del crepuscolo. “Provengo da oltre il monte di Qaf… Là eri in origine, e lì ritornerai quando infine ti libererai dai tuoi legami”

La montagna di Qaf è la montagna cosmica costituita, di vetta in vetta, di valle in valle, dalle Sfere celesti che sono racchiuse una nell’altra. Qual è, dunque, la strada che porta al di fuori di essa? Quanto è lunga? “Non importa quanto a lungo camminerai” è detto “arriverai di nuovo al punto di partenza” come la mina del compasso che ritorna allo stesso punto. Ciò implica abbandonare se stessi al fine di conquistare se stessi? Non esattamente. Tra i due, c’è un evento che cambia tutto; il sé stessi che si trova là è quello al di là del monte di Qaf, un sé superiore, un sé “in seconda persona”. Sarà necessario, come Khezr (o Khadir il profeta misterioso, l’eterno viandante) bagnarsi alla Sorgente della Vita. “Colui che ha trovato il significato della Vera Realtà è arrivato alla Sorgente. Quando emerge dalla Sorgente, ha conquistato l’Attitudine che lo rende come un balsamo, di cui se verserai una sola goccia nel cavo della mano, tenendola rivolta al sole, ed essa passerà sul dorso della mano. Se sei Khezr, passerai anche senza difficoltà attraverso la montagna di Qaf. (segue)

– Estratto da: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticaislamica/corbin_mundus.htm

– – – – – – – – –

Henry Corbin (Parigi, 14 aprile 1903 – Parigi, 7 ottobre 1978) è stato un orientalista, storico della filosofia, traduttore, filologo, islamista e iranista francese.

Il merito delle ricerche di Corbin è stato di aver riscoperto la tradizione gnostica dell’Islam sciita, un continente filosofico sommerso e sconosciuto agli stessi orientalisti del suo tempo, mostrando così come la filosofia islamica, lungi dal ridursi ai filosofi arabi “ellenizzati” e dal concludersi con il peripatetismo di Averroè, conosca un ulteriore periodo di fioritura a partire dal XII secolo, non nell’Occidente arabo ma nell’Oriente persiano. Corbin ha inoltre contribuito ad una più adeguata comprensione del fenomeno del sufismo, di cui ha saputo far emergere la dimensione autenticamente islamica, rifiutando di ricondurlo alle categorie della spiritualità cristiana, o alla comoda etichetta di sincretismo.

Temi come quello della conoscenza e del racconto visionario, del mondo immaginale e dell’immaginazione creativa, intesi come facoltà teofaniche, del corpo spirituale e della terra celeste, dell’angelologia e del dramma che si svolge nel cielo, sono creazioni intellettuali il cui sviluppo non ha equivalenti nella tradizione filosofica occidentale, sulle quali si fonda ciò che Corbin chiama una filosofia profetica, basata sull’ermeneutica spirituale del Libro, che trova il proprio equivalente cristiano più prossimo in Jakob Böhme. Questa filosofia profetica va considerata come una teosofia capace di riconciliare le facoltà visionarie dell’uomo con quelle razionali. [Wikipedia]

Immagine

Il mondo riposa nella notte, John O’Donohue (da Anam Cara)

20 lunedì Dic 2021

Pubblicato da Paola | Filed under Percezione, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

≈ Commenti disabilitati su Il mondo riposa nella notte, John O’Donohue (da Anam Cara)

Il rumore di un albero che cade, Robert Lanza (estratto)

22 lunedì Nov 2021

Posted by Paola in Coscienza, Filosofia, Libri, Percezione, Personaggi

≈ Commenti disabilitati su Il rumore di un albero che cade, Robert Lanza (estratto)

Chi di noi non ha mai sentito dire o non ha mai provato a rispondere alla famigerata domanda: «Se un albero cade in una foresta, e nessuno è presente, fa rumore comunque?». Se facessimo un sondaggio veloce tra amici e parenti, dalla maggioranza otterremmo una decisa risposta affermativa. Recentemente mi è stato risposto: «Ma certo che un albero che cade fa rumore», con un pizzico di fastidio tra l’altro, come se la domanda fosse troppo banale per meritare un minimo di attenzione.

Ciò che queste risposte affermano è la certezza nell’esistenza di una realtà oggettiva e indipendente. In effetti, che l’universo possa tranquillamente esistere con o senza di noi è la concezione più diffusa, concezione che s’inserisce perfettamente nella visione occidentale, radicata fin dai tempi biblici, secondo cui nell’economia del cosmo l’uomo sarebbe «una cosa piccola» per importanza e rilievo. Solo poche persone (forse quelle che possiedono una preparazione scientifica adeguata) analizzano correttamente dal punto di vista sonoro ciò che succede quando un albero cade in un bosco.

Qual è il processo che genera un suono? Perdonatemi un breve ripasso delle lezioni di scienze delle medie: il suono viene creato da un disturbo in un mezzo, di solito l’aria, anche se il suono riesce a viaggiare ancora più velocemente e più efficacemente in mezzi più densi, come l’acqua o addirittura l’acciaio. Quando rami e tronchi cadono a terra creano veloci spostamenti d’aria. Una persona sorda riesce a cogliere subito alcuni di questi spostamenti; sono particolarmente percepiti sulla pelle quelli che hanno una frequenza tra le cinque e le trenta volte al secondo. Dunque, quello che la caduta di un albero produce davvero sono veloci variazioni della pressione dell’aria, che si propagano nel mezzo circostante a una velocità di circa 330 metri al secondo. Nel loro espandersi perdono coerenza finché non viene a ristabilirsi l’uniformità nella zona d’aria coinvolta. Tutto questo, con l’ausilio di nozioni scientifiche elementari, è ciò che avviene in assenza di qualsiasi meccanismo orecchio-cervello: una semplice alternanza di zone a pressione più alta con altre a pressione più bassa. Minuscoli e rapidi soffi d’aria. Senza alcun suono annesso.

Adesso porgiamo un orecchio alla scena. Se ci fosse qualcuno nelle vicinanze, quei soffi d’aria farebbero vibrare la membrana timpanica (nota come timpano) del suo orecchio, che a sua volta stimolerebbe delle connessioni nervose solo nel caso in cui l’aria stesse vibrando tra le 20 e le 20000 volte al secondo (con un limite superiore che si aggira sulle 10000 volte per le persone con più di quarant’anni, e con uno ancora più basso per quelli di noi che hanno trascorso un’adolescenza dissoluta sotto il palco di assordanti concerti rock). L’aria che soffia 15 volte al secondo non ha nulla di intrinsecamente differente da quella che pulsa 30 volte al secondo, eppure, per come è strutturata la nostra rete neurale, la prima non produrrà mai un suono da noi percepito. A ogni modo, le terminazioni nervose stimolate dal timpano inviano dei segnali elettrici in una zona del cervello, generando la percezione di un rumore. La natura di questa esperienza è indiscutibilmente simbiotica. Le folate d’aria da sole non costituiscono nessun suono, e questo è ovvio perché i soffi che si ripetono 15 volte al secondo rimangono muti indipendentemente dal numero di orecchie presenti. Solamente quando si ripetono in un determinato intervallo di frequenze la struttura della rete neurale uditiva permette alla coscienza umana di fare esperienza di un rumore.

Per dirla brevemente, un osservatore, un orecchio e un cervello sono in ugual misura indispensabili per l’esperienza generale di un suono, tanto quanto lo sono gli spostamenti d’aria. Il mondo esterno e la coscienza sono correlati. Un albero che cade in una foresta disabitata produce solo folate d’aria silenziose, minuscoli soffi di vento. Quando qualcuno risponde scocciato: «Ma certo che un albero che cade fa rumore anche se non c’è nessuno nei paraggi», sta semplicemente dimostrando la propria incapacità di riflettere razionalmente su un fatto a cui nessuno ha assistito. Non ce la fanno a chiamarsi fuori dal gioco, in qualche modo continuano a vedersi presenti sulla scena quando invece non lo sono affatto. (…)

– Estratto da “Biocentrismo”, R. Lanza e B. Berman – Edizioni Il Saggiatore, 2015

La musica della pre-morte, G. Tedoldi (da Il Tascabile)

22 lunedì Nov 2021

Posted by Paola in Coscienza, Linguaggio, Percezione, Società, Stati altri di coscienza

≈ Commenti disabilitati su La musica della pre-morte, G. Tedoldi (da Il Tascabile)

Sono sempre stato affascinato dal Tardo Stile, le ultime opere degli scrittori, dei pittori, ma soprattutto dei musicisti. Non sarà casuale che la stessa espressione è più ricorrente nei libri di storia della musica che altrove, e la si adopera canonicamente per riferirsi alle ultime sonate per pianoforte e agli ultimi quartetti per archi di Beethoven, alla Missa Solemnis e alla Nona sinfonia, insomma a quel gruppo variegato di lavori composti nell’ultimo decennio di vita del maestro di Bonn. Così, in base a una semplice curiosità (“qual è stata l’ultima composizione di Chopin?”) ho passato alcuni giorni a ascoltare e riascoltare questi lavori, alcuni dei quali, come il Quartetto in fa min. op 80 di Felix Mendelssohn o le ultime mazurke di Chopin, scritti a pochi mesi dalla morte. Perché mi domando: ne erano coscienti? Sapevano che stava per finire? Se sì, questa consapevolezza come si incarna, o da cosa trapela? E si può, fissando l’appressarsi della morte, riuscire a buttare giù note su un pentagramma? Cosa produce la doppia visione di questo e dell’altro mondo?

Tali opere terminali rappresentano, oltre al valore artistico, delle specie di NDE, Near Death Experiences, esperienze di pre-morte, e non c’è dubbio che questo aspetto, se si vuole un po’ necrofilo, mi attragga non meno (e forse più) di valutazioni e confronti di tipo stilistico o storico-estetico, complessivamente riconducibili a un’osservazione del musicologo Carl Dahlhaus: “la modernità dell’‘opera tarda’ non consiste nel fatto che anticipa un pezzo di futuro: la modernità di Bach, Beethoven e Liszt è stata scoperta solo dopo che il futuro che essa anticipava era divenuto da tempo presente”. Affermazione che avanza una pretesa di validità universale anche se, per citare un caso esotico quanto si vuole e, certo, non alla veggente altezza di Bach, Beethoven o Liszt, il futuro dell’Opus Clavicembalisticum di Kaikhosru Sorabij che, pur essendo stato completato a quasi sessant’anni dalla morte dell’autore, nasce già inseguendo un miraggio di Tardo Stile, è decaduto nel passato senza mai lambire il presente. “Può esistere un artista che non trova la sua epoca, e un’epoca che non trova il suo artista” diceva Burckhardt, e può accadere che l’allineamento, come tra corpi celesti incommensurabilmente distanti, non si verifichi mai. Il Tardo Stile è il cosciente, più radicale e misterioso tentativo di un artista di disallinearsi da tutti gli altri corpi orbitanti nel cielo della sua epoca. (continua)

Articolo integrale: La musica della pre-morte, il Tascabile

Le lingue modificano il modo in cui guardiamo il mondo?, F. Batisti (da Il Tascabile)

05 venerdì Nov 2021

Posted by Paola in Linguaggio, Percezione, Società

≈ Commenti disabilitati su Le lingue modificano il modo in cui guardiamo il mondo?, F. Batisti (da Il Tascabile)

Immaginate di essere ospiti a casa di qualcuno per un tè. Passato un po’ di tempo chiedete dov’è il bagno e il padrone di casa vi dice “dopo il corridoio gira a sud, poi la seconda porta a ovest”. Con tutta probabilità siete in casa di una persona che parla una lingua diversa dalla vostra, una delle molte di lingue che si basano su un sistema di coordinate spaziali geografiche, “assolute” invece che “egocentriche” come quelle a cui siamo abituati (per cui il bagno è “dopo il corridoio a destra, poi la seconda porta a destra”). Secondo l’antropologo Stephen Levinson, che ha studiato le conseguenze cognitive della descrizione spaziale nella lingua guugu yimithirr, popolazione aborigena australiana, chi parla questo genere di lingue è costretto a costruirsi una sorta di “bussola mentale” per soddisfare la richiesta di essere costantemente a conoscenza della direzione cardinale in cui si è orientati – e finisce per ricordarla anche a distanza di anni, quando racconta qualche evento che ha vissuto.

La struttura di una lingua richiede di rispettare determinate regole per poter essere parlata in maniera coerente e comprensibile. Ciò che tutti noi facciamo imparandone una qualsiasi è abituarci lentamente ma inesorabilmente a fare nostre queste “richieste” e ciò, verosimilmente, lascia un segno permanente nei meccanismi della nostra mente. Possiamo dire che le lingue impongono ai propri parlanti un’immagine della realtà che è diversa da lingua a lingua? Che una lingua può cambiare la comprensione dei concetti più basilari di chi la parla, come lo scorrere del tempo, la posizione degli oggetti, la dinamica degli avvenimenti?

L’affascinante e controversa idea che ciascuna lingua contribuisca a costruire la realtà oggettiva dei propri parlanti è stata chiamata nei primi decenni del Novecento “relatività linguistica”, in un audace tentativo di analogia con la relatività in fisica, che in quegli anni aveva dato grande popolarità ad Albert Einstein. Senza scendere nei dettagli della sua genesi, possiamo dire che quest’idea viene etichettata ancora oggi come “ipotesi Sapir-Whorf”, dal nome del linguista Edward Sapir e del suo allievo Benjamin Lee Whorf, a dispetto del fatto che né i due formularono una singola proposta nettamente identificabile come tale, né tantomeno lo fecero congiuntamente. Di solito, ad essere riconosciuto come padre del “principio di relatività linguistica” è infatti il solo Whorf, noto per la sua eclettica vita intellettuale. Studiò ingegneria chimica all’MIT senza brillare e per mantenersi, in seguito, lavorò come perito chimico per una società di assicurazioni. Infine si iscrisse a Yale seguendo le lezioni di linguistica di Sapir, di cui finì addirittura per rilevare la cattedra a ridosso della morte, prima che lo stesso Whorf morisse prematuramente di cancro. Whorf si avvicinò allo studio del linguaggio tramite la lettura di testi settecenteschi d’ispirazione cabalistica che ravvisavano un rapporto speciale tra lingua e misticismo, e per quanto negli anni di Yale fosse rientrato, per così dire, nei binari della linguistica scientifica del tempo (tanto che svolse approfondite ricerche sul campo studiando lingue di comunità native meso e nordamericane), l’interesse per il mistico non lo abbandonò mai: il suo ultimo saggio, Language, Mind, and Reality, pubblicato postumo, apparve su una rivista indiana di teosofia. (continua)

Testo integrale: https://www.iltascabile.com/scienze/lingua-pensiero-realta/

← Vecchi Post

Inserisci il tuo indirizzo email per seguire questo blog e ricevere notifiche di nuovi messaggi via e-mail.

Unisciti a 72 altri iscritti

Articoli recenti

  • Daoismo e Confucianesimo, Augusto Shantena Sabbadini (Estratto, Libro) 19/03/2023
  • INTERSEGNI – Comunicazione 04/03/2023
  • Ho sentito dunque raccontare … , Platone (Estratto dal “Fedro”) 21/01/2023
  • Il Capodanno cinese, da Star Walk (estratti) 18/01/2023
  • I CHING | 26 DA CHU – Grande Contenimento, Deng Ming-Dao 16/01/2023
  • I CHING | 40 JIE – Sollievo, Taoist Master Huang 02/12/2022
  • I CHING | 40 XIE – Lasciare andare, Deng Ming-Dao 01/12/2022

Categorie

Archivi

Un sito WordPress.com.

  • Segui Siti che segui
    • Inseparatasede
    • Segui assieme ad altri 72 follower
    • Hai già un account WordPress.com? Accedi ora.
    • Inseparatasede
    • Personalizza
    • Segui Siti che segui
    • Registrati
    • Accedi
    • Segnala questo contenuto
    • Visualizza il sito nel Reader
    • Gestisci gli abbonamenti
    • Riduci la barra