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Coincidenza di linguaggio, Paola

11 martedì Set 2018

Posted by Paola in Estendere i confini, Paola, Percezione, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

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Coincidenza di linguaggio, Paola (2005)

“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo.” 

Wittgenstein

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L’idea comune vede nel linguaggio (verbale, corporeo, musicale, visivo, etc.) il mezzo per il trasferimento delle informazioni dando per scontato che l’appartenere a una specifica cultura o gruppo garantisca la corretta comunicazione.

Quello che si nota a una più attenta osservazione è che nel passaggio da emittente a ricevente spesso avviene una distorsione, se non una perdita, dell’informazione originale. La complessità e le variabili sono tali da determinare in alcuni l’idea dell’incomunicabilità di qualsivoglia informazione. Se questo è un problema nella comunicazione interpersonale in ambito sociale, a maggior ragione sembrerebbe esserlo nell’acquisizione di ciò che si definisce “conoscenza spirituale”.

Ciò che s’intende come spirituale, è una conoscenza alla quale l’uomo sa – in modo innato – di poter accedere, pur percependola come superiore e immanente. Nonostante l’aggettivo “spirituale” abbia un significato ben preciso, succede che – a volte – questa conoscenza non venga considerata come il termine esplicitamente intende, ma affrontata come una qualsiasi materia accademica, trasferibile per via discorsiva o logica, supponendo che una mente allenata e un pensiero educato siano i requisiti necessari.

LA DIMENSIONE DELLA TRASMISSIONE

Il messaggio spirituale rimane nella sua integrità solo restando nella sua dimensione – cioè quella spirituale – pronto a fluire in chi è in grado di riceverlo avendo raggiunto quello stesso piano. Come una radio riceve il segnale solo se sintonizzata sulla frequenza del segnale stesso, così la conoscenza spirituale è ricevibile quando ci si sintonizza sulla sua frequenza d’origine. Quello che si può incontrare sul piano fisico non è una conoscenza o un messaggio spirituale in sé completo ma semplicemente un rimando, un’icona sul desktop inadeguata a esprimere la vastità di cui è segnale.

A volte dimentichiamo che ogni registrazione di conoscenza spirituale con cui si entra in contatto è il tentativo di esprimere qualcosa che, per sua natura, non è confinabile nella limitazione di una forma linguistica e, quindi, dei suoi derivati. Parole e suoni, immagini e visioni, per quanto ricche e dettagliate, sono tracce imperfette che, come vaghi accenni, possono anche confondere ed essere confuse.

La conoscenza, nel suo proiettarsi sulla dimensione fisica, inevitabilmente coinvolge mente e cuore, poiché diversamente non vi sarebbe presa di coscienza e nessun desiderio di approfondimento, ma fermarsi alla comprensione intellettuale (per quanto vasta) e al coinvolgimento emotivo (per quanto intenso) non è centrare lo scopo. L’indagare e frugare significati e associazioni mentali, carichi dell’emozione di un viaggio “pre-fissato”, predispone a una comprensione intellettuale che non garantisce la conoscenza di quello che si sta affacciando.

LA DIMENSIONE DELLA RICEZIONE

La dimensione dove si può raccogliere pienamente la conoscenza spirituale è il suo piano d’esistenza, il piano spirituale. Chi aspira a riceverla deve portarsi coscientemente in quella dimensione dove la mente e l’emozione assistono e registrano senza intervenire, permettendo – nella loro passività consapevole – di essere invase e sensibilizzate a una percezione sempre nuova.

La conoscenza spirituale volge direttamente alla parte spirituale dell’individuo, quella parte immensamente più estesa di quanto è in grado di concepire una mente ancora priva di esperienze trascendenti, quella sola in grado di accogliere e di elaborare pienamente l’intensità dell’esperienza. L’impressione che sul piano fisico viene riconosciuta in termini di pensiero e di emozione, sul piano spirituale è uno stato d’essere dell’essere, in cui le identità dell’osservatore e dell’osservato sfumano nella fusione.

Portarsi nella propria dimensione spirituale libera dai limiti della realtà di consenso e anche dall’idea che si ha dei termini, poiché ciò che non deriva dall’esperienza diretta è una costruzione che, confrontandosi con l’aspettativa, ci auto-preclude a quella conoscenza travolgente e non-intellettuale che è la dimensione spirituale.

Raggiungere lo stato dove si perdono i limiti dei riferimenti acquisiti intellettualmente, significa aprirsi alla vastità di noi stessi per scoprire quella conoscenza già appresa che difficilmente riconosciamo nell’attuale singola personalità con cui ci identifichiamo.

IL LINGUAGGIO DEL GRUPPO

Ci sono due linguaggi particolari che – spesso – vengono tra loro confusi o equiparati: quello utilizzato del gruppo d’appartenenza e il linguaggio personale.

Pur riconoscendo la conoscenza spirituale come universale, senza confini e proprietà, una volta che si procede alla sua trasposizione, l’illimitato viene limitato e caratterizzato. La conoscenza veicolata nel gruppo è una “trasposizione” nella forma comunicativa del piano umano di stati esistenti sul piano spirituale.

Ora, un’organizzazione sul piano fisico non può trasferire alcuna conoscenza spirituale a nessuno, può solo indicare l’esistenza e la fattibilità di una tale esperienza e allenare la persona al suo (della persona) raggiungimento. Questo per quanto anticipato, cioè che la conoscenza spirituale coincide con l’esperienza per chi – per affinità o capacità – la vive riportandone segno indelebile.

Il corpus degli insegnamenti del gruppo non ha la sua ragione d’essere nel trasferirsi pari-pari da una persona a un’altra, ma è lo strumento utilizzato per allenare l’individuo a espandersi consapevolmente nel suo stato spirituale, e grazie a questo sviluppo riappropriarsi della propria capacità di sperimentare. Il concetto è che se uno non vive la propria dimensione interiore sperimentando dentro di sé la sua reale esperienza/conoscenza, difetta dello strumento specifico che gli permette automaticamente l’ampliamento successivo. Come dire che se vedo, vedo e se non vedo, non vedo – non importa cosa ho sotto gli occhi.

Nel riconoscere che gli insegnamenti non sono la conoscenza ma sono solo gli strumenti che allenano a raggiungerla, ci si rende conto che il linguaggio utilizzato nel/dal gruppo è ugualmente uno strumento. Per esempio, in matematica si insegna a svolgere calcoli utilizzando lettere al posto di numeri. Il principio sottinteso è che attribuendo alle lettere un determinato valore il risultato sarà conseguente. Questi esercizi non intendono risolvere nulla di tangibile, essendo il loro scopo allenare la mente a riconoscere, impostare e risolvere problemi della più varia natura: grazie a questo apprendimento in astratto, quando le lettere si trasformano in valori che rappresentano una realtà concreta, l’architetto erige costruzioni di ogni genere mentre l’ingegnere e il fisico lanciano satelliti nel cosmo.

Allo stesso modo concetti, musiche, esercizi e pratiche che sembrano la conoscenza da apprendere, sono i mezzi utili per l’allenamento, sono – nella loro apparente consistenza – le astrazioni che vanno sostituite dall’indicibilità dell’esperienza.

IL LINGUAGGIO PERSONALE

Concomitante è il riconoscere il proprio linguaggio personale, cioè il significato che si attribuisce interiormente alle parole ascoltate o proferite. Molto spesso si ragiona sul significato di concetti e termini senza aver adeguatamente indagato sui collegamenti mentali e le emozioni che determinate parole – concetti o immagini – suscitano dentro di noi per se stesse. Il linguaggio personale si può intendere come quell’intima associazione che lega la parola-significato all’emozione-vissuto in una connessione indissolubile, spesso inconscia.

La costruzione del linguaggio avviene principalmente in famiglia e all’interno di un ambiente sociale legando il significato dei termini al vissuto. In seguito, quando si incontra un insegnamento o si entra in un gruppo, ci si conforma a un linguaggio dove i significati possono assumere differenti sfumature che, nonostante la comprensione intellettuale, permangono secondarie a quelle acquisite per prime. Per fare un esempio, sembra che nel bilinguismo in cui la seconda lingua è acquisita in tempi successi alla lingua madre, le aree cerebrali preposte alla comprensione di ciascuna lingua non sono vicine e avviene una “traduzione” da area a area, cioè da lingua a lingua. Nel bilinguismo acquisito durante l’infanzia le aree cerebrali della comprensione sono sempre distinte per ciascuna lingua ma tra loro adiacenti, e qui non c’è “traduzione” ma un’immediata comprensione, cioè ogni lingua viene gestita in completa autonomia essendo le peculiarità di entrambe completamente interiorizzate.

Il linguaggio personale è quel linguaggio intimo che ciascuno di noi usa inconsciamente, che da un lato si esteriorizza con un vocabolario e delle immagini comuni e dall’altro s’interfaccia con la propria speciale interiorità. È una lingua nascosta a qualsiasi percezione, spesso anche a quella della persona stessa. Questo tipo di linguaggio va distinto, osservato e compreso nel suo duplice aspetto, poiché in esso è possibile rinvenire una chiave di comunicazione tra le nostre dimensioni esteriori e interiori non solo di linguaggio, ma anche nella trasposizione di tutto ciò con cui si entra in contatto e che ci impressiona.

IL LINGUAGGIO DELL’ESPERIENZA

L’esperienza spirituale è uno stato dell’essere che non contempla la comunicazione per il semplice fatto che non c’è separazione delle parti e, quindi, necessità di comunicazione tra le stesse: tutto/tutti istantaneamente/totalmente si è, non essendoci spazio neppure per il pensiero. Poiché si realizza su un piano privo di attributi, colui che sperimenta mentre ancora partecipa di un corpo fisico trasferisce automaticamente secondo il grado di consapevolezza e sensibilità che dispone, per cui l’esperienza si converte in parte in qualcosa che lascia traccia nella mente e nel cuore, e a volte nel corpo fisico stesso (guarigioni, modificazioni fisiche).

Il linguaggio coinvolto in questo processo è il linguaggio personale in quanto – pur essendo l’esperienza disponibile per chiunque – rimane specifica per la persona che l’ha colta e vissuta, che non può che tradurla/ridurla a (e per) se stessa. In questo processo di consapevolezza, la frase di Wittgenstein è pertinente: per quanto l’esperienza spirituale sia sempre completa nella sua dimensione, la sua impressione sul piano fisico viene limitata dalla sensibilità percettiva che ognuno ha della propria parte spirituale, che pure partecipa della dimensione in toto. Per cui non esistono livelli e dimensioni spirituali (attribuzione quantitativa e qualitativa umana), ma livelli e dimensioni di percezione di chi esperisce.

Saper ascoltare, parlare e leggere il proprio linguaggio personale collega direttamente all’esperienza spirituale che esiste dietro – e si manifesta in – ogni avvenimento visibile. Infatti, la dimensione spirituale non è localizzata in confini, ma si è ‘separati’ da essa solo dalla limitazione percettiva. Essere padroni del proprio linguaggio interiore dispiega un’interazione con l’invisibile, permettendo di cogliere la natura più profonda di quanto si esprime nel visibile e così individuare le correlazioni e le influenze che si manifestano nella nostra vita in qualsiasi tipo di forma (insegnamenti, concetti, immagini, sogni, avvenimenti, incontri, coincidenze, etc.).

L’interpretazione di questo linguaggio è impegno del soggetto perché, pur essendoci un’apparente somiglianza nel visibile che induce a attribuire significati comuni, questa comunanza è legata sempre a una osservazione esterna e non dell’essere interiore, cioè il creatore del proprio linguaggio.

OLTRE IL LINGUAGGIO

Chi ha avuto consapevolmente un’esperienza spirituale – non importa di quale natura e intensità – riesce a riconoscere la stessa esperienza nel linguaggio personale di un altro che l’abbia raggiunta, non importa quanto diverso, incomprensibile e stravagante possa sembrare al resto del mondo. La comunicazione tra chi ha vissuto (o vive) l’esperienza spirituale oltrepassa sia gli aspetti esteriori che interiori di un linguaggio personale per stabilirsi sulla dimensione dell’invisibile, dove la comprensione non poggia più sul piano della manifestazione – con tutte le sue particolari sfumature intellettuali, emotive e psicologiche (che permangono e proseguono nella personalità fenomenica) – ma avviene nella dimensione priva di barriere dove “tutti i linguaggi svaniscono coincidendo”. Potendo ben affermare:

“I limiti del mio linguaggio non sono i limiti del mio mondo“.

————–

 – Estendere i confini, 3

Una nota sull’ “Arte dell’Agguato” di C. Castaneda, Paola

04 venerdì Mag 2018

Posted by Paola in Paola, Percezione

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Sull’ “Arte dell’Agguato”, Paola (nota al gruppo di pratica)

L’Arte dell’Agguato*  si basa sul concetto di “Guerriero”.

Ciò che definisce una persona come “guerriero” è il suo atteggiamento. Don Juan dice: “Un uomo va alla conoscenza come va alla guerra: vigile, con timore, con rispetto e con assoluta sicurezza. Quando un uomo ha soddisfatto questi quattro requisiti: essere perfettamente vigile, provare timore, rispetto e un’assoluta sicurezza, non dovrà rendere conto di nessun errore. Quando è in questa condizione, le sue azioni perdono la fallibilità di uno stupido. Se l’uomo sbaglia o subisce una sconfitta avrà perso soltanto una battaglia, e non dovrà pentirsene amaramente”.

Vale a dire che quando una persona ha fatto il meglio possibile in tutta coscienza, non avrà di che pentirsi di nulla e il risultato conseguente nel caso non fosse soddisfacente, sarà tale per circostanze esterne e indirette. Tuttavia, vivere da “Guerriero” è una scelta, è un atto di volontà, è un impegno personale.

Se non si vive da guerrieri, non si accumula abbastanza potere personale per praticare l’Arte dell’Agguato. Tuttavia, nel praticare l’Arte dell’Agguato aumenta anche il potere personale, ed è per questo che Don Juan dice: “Un guerriero è impeccabile quando confida nel suo potere personale senza badare che sia piccolo o enorme”. Il potere personale aumenta nel momento in cui noi riconosciamo di averlo e lo utilizziamo per il fatto stesso che ci impegniamo a servircene. Non è forse quanto scopriamo nella Parabola dei Talenti? E non ricorda i detti: “Aiutati che il ciel ti aiuta” e “Piove sempre sul bagnato”? È una sorta di accumulo per attrazione. Più si pratica e più si acquisisce.

Quindi, definiti queste due punti di base, ecco che l’Agguato, termine proprio di chi va a caccia, acquisisce il significato di “camuffamento” nel senso di agire senza farsi notare, mimetizzandosi nel contesto della sfida. Questo agguato non è volto ad ingannare gli altri, ma a sovrastare il nostro comportamento automatico e abitudinario che ci impedisce di “agire” inducendoci a “reagire” secondo schemi culturali o sociali prestabiliti.

I principi dell’Arte dell’Agguato

L’Arte dell’Agguato consiste in una serie di procedure e atteggiamenti che consentono al Guerriero di trarre il meglio da ogni possibile situazione.

Molte volte ci troviamo in circostanze dentro le quali ci sentiamo trascinati in modo ineluttabile. Situazioni sgradevoli, difficili, non volute, che si sono misteriosamente concretizzate intorno a noi per un apparente capriccio della sorte. Situazioni dove ci viene chiesto di prendere posizione, prendere una decisione, relazionarci in un particolare modo, o dove le aspettative nei nostri confronti ci bloccano facendoci sentire ingabbiati.

L’Arte dell’Agguato ci offre gli strumenti per agire impeccabilmente e, invece di perdere energia/potere personale, sfruttare proprio l’occasione per acquisirne di più, esercitando uno o più dei suoi principi.

  1. Il Guerriero sceglie il proprio campo di battaglia. Un Guerriero non va mai in battaglia senza conoscere i dintorni.

In qualunque situazione sgradevole ci troviamo, il Guerriero sa come volgere a proprio favore il vento contrario. Il primo principio ci indica di studiare il nostro “campo di battaglia”, cioè prenderci tempo per analizzare la scena dell’azione (quindi, anche noi stessi): qual è l’ambiente in cui viviamo, chi vi è coinvolto, le loro/nostre motivazioni, quali opzioni possono esserci che sfuggono a una visione superficiale, il momento temporale o storico, le aspettative di successo o insuccesso, e così via.

Così facendo, il Guerriero nota i particolari e osserva che esistono sempre delle opzioni: può effettuare la sua scelta.

  1. Scartare ciò che è superfluo. Un Guerriero non complica le cose, mira alla semplicità. Dedica tutta la sua concentrazione a decidere se ingaggiare o meno battaglia, perché ogni battaglia è per la vita.

Ridurre ai minimi termini è il secondo imperativo. La complessità è fonte di confusione, fraintendimento. La semplicità è chiarezza. Spesso è sufficiente riportare le questioni al loro nocciolo essenziale per vederle risolversi da sé. Decidere di entrare in battaglia (come e quando) è una decisione che va oculatamente presa. Non c’è obbligo, ma decisione. Ritengo che qui si possa intendere il combattimento non solo contro qualcosa o qualcuno, ma anche al proprio atteggiamento personale verso la questione che crea il conflitto o la decisione da prendere. Significa mettersi in gioco con la determinazione a voler risolvere in modo definitivo, “per la vita”. Si vuole chiudere la cosa senza strascichi, non in una valutazione di vincitori e vinti ma in modo impeccabile, cioè senza macchia, una volta per tutte.

  1. Un Guerriero deve essere pronto e disposto a prendere posizione “qui e subito”. Ma non all’insegna del caos.

L’azione impeccabile di un Guerriero non prevede “il senno di poi”. Un Guerriero si assume completamente e totalmente la responsabilità delle sue azioni nel momento, nel “qui e ora”. Se si sono osservati i primi due principi, il terzo consegue in un’azione liberata dal caos e dalla confusione, da futuri rimorsi, rimpianti, rancori. E ciò avviene quando, appunto, si conosce il proprio campo di battaglia, che a volte coincide anche con la conoscenza dei propri limiti o delle proprie capacità, riordinando anche il proprio caos emozionale.

  1. Un Guerriero si rilassa, si abbandona, non teme nulla. Solo allora il potere che guida gli esseri umani gli apre la strada e lo sostiene. Solo allora. Questo è.

Questo Guerriero con la “G” maiuscola confida nel suo potere personale, che è anche parte del potere universale. Avendo coordinato le sue scelte e azioni in modo impeccabile, confida e lascia nelle mani di un potere più grande il risultato delle sue azioni. Questa fiducia gli permette di rilassarsi, di abbandonarsi e di non temere nulla. Di essere in pace. In tale pace il potere stesso si manifesta e lo nutre. Cedendo il proprio potere al potere, lo si aumenta e si manifesta.

  1. Di fronte a circostanze impossibili da affrontare, il Guerriero si ritira temporaneamente. Si dedica a qualcos’altro, va bene qualunque cosa.

Non è l’ostinazione a risolvere le battaglie di un Guerriero. La ritirata temporanea è anche un atto di umiltà quando le circostanze sembrano soverchianti. Per un Guerriero, l’umiltà e la capacità di accettare l’inevitabile sono altrettanti nutrienti del potere personale. Ritirarsi temporaneamente non significa rinunciare. Distrarsi temporaneamente dal problema o dal conflitto, facendo qualunque cosa è una tattica che permette di allentare la tensione e distaccarsene totalmente. Ciò può permettere una ridefinizione del “campo di battaglia” e, pertanto, una sua successiva riconsiderazione. Le cose non sono mai identiche a se stesse nel corso del tempo, e nuove possibilità o varianti permetteranno di riaffrontare la sfida con altri strumenti o con maggiore potere personale.

  1. Il Guerriero comprime il tempo. Anche un solo istante conta. In una battaglia per la sopravvivenza un secondo è un’eternità, un’eternità che può decidere l’esito. Il Guerriero mira a riuscire, quindi comprime il tempo. Non spreca neppure un istante.

La valutazione del tempo. Tutto il tempo può essere condensato in un unico istante, così come un istante può dilatarsi in infiniti sotto-istanti. Il Guerriero con sufficiente potere personale è in grado di operare queste trasformazioni temporali, di inserirsi in una condizione di “fuori dal tempo-spazio” dove l’istante e l’azione impeccabile coincidono, precipitano e si concretizzano.

  1. Per applicare questo principio dell’Arte dell’Agguato bisogna applicare gli altri sei. Colui che pratica l’Agguato non si mette mai in mostra. Osserva da dietro le quinte.

Questo settimo principio raccoglie l’essenza dei precedenti: l’agguato è l’atteggiamento per cui chi lo pratica sta nascosto, osserva senza essere visto. Ribadisco, non sta “spiando” per sfruttare a suo favore a discapito degli altri. Non è il burattinaio di ignare marionette.

L’Agguato negli insegnamenti di Don Juan è difficile da spiegare e da capire con la logica comune, che di solito non tende a un’impeccabilità d’azione (senza pecca/macchia, cioè con completa trasparenza)  ma allo sfruttamento egoistico delle circostanze.

Questo stato di “agguato” e l’esercizio dei suoi principi fanno sì che l’azione della persona sia così appropriata al contesto da passare come “naturale” e, di conseguenza, inosservata. Si tratta di un’Arte meravigliosa, quella di esercitare un’azione così efficace e completa da integrarsi armonicamente con l’ambiente circostante portando soluzione duratura. Questa soluzione relativa all’ambiente del “campo di battaglia” può interessare una situazione quotidiana come anche un atteggiamento interiore attivato dal contesto esterno.

Nell’applicare l’Arte dell’Agguato, il Guerriero agisce senza attaccamento all’azione e al risultato, si rilassa confidando nel suo potere personale coerente con il potere universale. Il suo potere personale è tale da influenzare il suo ambiente circostante con grazia.

Il Primo Principio in assoluto dell’Arte dell’Agguato è che il Guerriero ponga l’Agguato a se stesso, e lo faccia spietatamente, con astuzia, pazienza e dolcezza.

L’esercizio di quest’Arte raggiunge lo scopo quando è volto verso se stessi. Dentro di noi ci sono numerosi campi di battaglia nel senso di sentimenti, volontà, egoismi, opportunismi e prevaricazioni, più o meno consapevoli. È verso di essi che il nostro sé Guerriero può esercitare l’Agguato.

A tal fine Don Juan ci esorta a farlo *spietatamente: vale a dire senza indulgenza verso noi stessi, senza compatirsi, riconoscendo che non ci sono reali giustificazioni o scuse per le nostre debolezze o incapacità; *con astuzia: per ingannare le altrettanto astute scappatoie per evitare di assumerci la responsabilità della nostra realtà personale; *con pazienza: non importa quante volte cadiamo, ad ogni caduta possiamo rialzarci e continuare al meglio della nostra impeccabilità, sapendo che è proprio ogni volta che ci rialziamo che accumuliamo un altro po’ di potere personale; *con dolcezza: è l’amore e la comprensione che riserviamo a noi stessi mentre percorriamo questo cammino che ci possono sostenere nel proseguire, non conferme e congratulazioni esteriori.

Concludo con una citazione di Victor Sanchez (da Gli insegnamenti di Don Carlos, ed. Il Punto d’Incontro):

“L’Agguato è in realtà il controllo strategico della propria condotta. Il suo campo privilegiato è quello in cui ha luogo l’interazione con altri esseri umani (guerrieri e no). Per questo il praticante, lungi dal separarsi dal normale contesto sociale, vi resta dentro, nel centro stesso dell’azione, utilizzandolo per temprare il suo spirito, aumentare la sua energia e spingersi oltre i limiti della sua storia personale.”—

Nota

* I principi dell’Arte dell’Agguato sono tratti da “Il dono dell’Aquila” di Carlos Castaneda, ed. SuperBUR Rizzoli

Una nota sull’ “intento”, Paola

14 sabato Apr 2018

Posted by Paola in Paola, Percezione, Stati altri di coscienza

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Sull’ “intento”, Paola (nota al gruppo di pratica)

Vorrei condividere una riflessione riguardo a come ci poniamo nelle nostre pratiche e, talvolta, nelle nostre azioni.

Praticare delle tecniche ci porta in primo luogo ad essere e poi, per conseguenza, a fare con la capacità raggiunta dal nostro essere attraverso il praticare. Potremmo dire, quindi, che nel nostro paradigma fare ed essere è un unicum, palese testimonianza l’uno dell’altro.

La chiave dell’efficacia delle nostre pratiche e, anche, delle nostre azioni, è l’intento, parola che talvolta non è ben compresa. Cos’è l’intento? Il vocabolario ci offre due accezioni che, per quanto mi riguarda, si rafforzano a vicenda: 1) come sostantivo, è il fine che ci si ripropone di raggiungere, e 2) come participio/aggettivo, è un raccoglimento dell’attenzione verso qualcosa di specifico. Tuttavia, io vorrei aggiungere un’altra valenza: 3) la fiducia che ci permette di agire liberamente.

Quando pratichiamo e agiamo con intento non possiamo avere dubbi sulla riuscita del nostro operato, che si tratti di una tecnica o di un’azione. Quando operiamo nel pieno rispetto del cerchio della vita sia visibile che invisibile – nel rispetto della libertà che ciascun individuo possiede – confidiamo che ciò che si manifesterà non potrà che essere ciò che di meglio può avvenire, per noi e per il tutto.

Quindi l’intento è certamente una profonda convinzione ma anche un’intrinseca fiducia. Se dovesse mancare questa componente, l’insicurezza o il dubbio inficerebbero il risultato. Qualora insicurezza e dubbio dovessero aleggiare intorno noi, ci si dovrebbe chiedere da quale sentimento, tensione o pensiero siano messi in moto. Forse dentro di noi non siamo convinti della reale correttezza della nostra azione? Forse temiamo un ritorno in qualche modo negativo? Se questi sono i pensieri, allora si dovrebbe mettere in questione la propria sincerità e coerenza.

È anche per questo che quando ci accingiamo a intraprendere un’azione per ottenere conoscenza, saggezza o guarigione, dobbiamo distaccarci dalla nostra personalità ordinaria ed entrare con un atto di volontà in un diverso stato di consapevolezza interiore che, per la sua natura di a-spazialità e di a-temporalità, non tiene conto delle aspettative comuni e dei valori di consenso.

Nel momento in cui accettiamo di entrare in una dimensione dove il bene comune prevale su un presunto bene personale, si dovrebbe anche accettare di essere noi per primi a fare un passo indietro rispetto alle nostre aspettative o desideri.

Quando ci predisponiamo a un’azione che riteniamo connessa a valenze più alte, il nostro intento deve condensare tutti i valori superiori di unità e bene comune, la determinazione e la focalizzazione di operare in modo corretto, con la confidenza che si percepisce attraverso l’alleanza con tutta la vita e gli esseri viventi, sia biologici che non.

Il nostro intento, inoltre, dovrebbe anche essere libero da ogni supposizione o aspettativa, poiché le aspettative non sono generate dal futuro ma del passato. Proiettare nel futuro il passato, è impedire a ciò che “ancora non è mai stato” di essere. Quindi, nel momento in cui ci accingiamo a “esprimere l’intento” per una nostra azione, dobbiamo sentirci disponibili a sperimentare qualcosa di assolutamente nuovo, imprevisto, imprevedibile e che è, talvolta al di là dell’apparenza, sicuramente appropriato e conforme al nostro intento.

Non mi è mai successo e neppure ho conosciuto qualcuno che operando con fiducia, convincimento e apertura non abbia ricevuto ciò che il suo cuore più profondo veramente anelava, che si trattasse di una conoscenza, di una guarigione o anche di un piatto di minestra. —

Paola, Paradigma 4

Le Tecniche – Strumenti di auto-conoscenza e auto-sviluppo, Paola

21 mercoledì Mar 2018

Posted by Paola in Estendere i confini, Paola, Percezione, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

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Le Tecniche – Strumenti di auto-conoscenza e auto-sviluppo, Paola (2004)

Qui non si tratta di imporre un punto di vista ma di comunicare un metodo di cui ognuno si avvarrà a suo piacere come di uno strumento.
– Goethe

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Le Tecniche esistono da quando esiste l’uomo, e ogni aspetto della vita trova disponibile una serie di tecniche per la sua miglior gestione. Pur sembrando “artifici”, in realtà le tecniche sono produzioni spontanee di supporto, nate dall’esperienza di uomini desiderosi di semplificare o di ottimizzare un processo, rendendolo poi disponibile altri.

Ormai siamo abituati a essere forniti di tecniche. Fin dall’infanzia ci viene insegnato il “metodo migliore per …” e meccanicamente facciamo nostri procedimenti e scorciatoie. In breve tempo otteniamo risultati che – prima che la tecnica venisse ideata – richiedevano ben altro impegno.

A prima vista, questo modo di procedere sembra rendere schiavi della fretta e del risultato, con conseguente perdita della creatività e cecità alla ricchezza dei particolari. Parlare quindi di Tecniche a favore della consapevolezza può sembrare contraddittorio.

La consapevolezza è uno stato naturale, solo che l’uomo, per la maggior parte del tempo, tende a farsi catturare dalle meraviglie del mondo esterno, ignorando se stesso fin quando non sente la necessità di tornare a conoscersi.

Amo definire le Tecniche come specchi, strutture e catalizzatori: dove questi tre aspetti si legano strettamente in un unico insieme.

Tralasciando l’elencazione di tecniche e caratteristiche, parto dal presupposto che chi legge abbia una qualche concreta esperienza in merito e, di conseguenza, ben sappia cosa e perché stia praticando, o cosa e perché abbia smesso di praticare.

Un aspetto che ritengo importante è l’uguaglianza del valore delle Tecniche: non c’è una Tecnica migliore di un’altra. La qualità del risultato è in mano al praticante. Questo può sembrare scontato ma non lo è, perché non tutte le Tecniche sono per tutti. Con questo non intendo le abilità personali (migliorabili) o la difficoltà intrinseca (superabile), ma proprio la “compatibilità” tra praticante e pratica: avere delle preferenze significa conoscere, rispettare e valorizzare il proprio “essere”.

A prescindere dalle classificazioni – fisiche, mentali, psicologiche, energetiche o quant’altro -, la pratica di una tecnica coinvolge in realtà tutti gli aspetti della persona. Questo perché l’uomo è sempre nella sua totalità, frammentato solo perché in tal modo vuole considerarsi. Le nuove scienze stanno ora scoprendo (con strumentazioni sofisticate e sensibili) le sottilissime ma forti interconnessioni mente-emozione-corpo-emozione-mente-corpo, circolo ininterrotto di scambi e comunicazioni. Aspetti sinora ignorati o sottovalutati che riserveranno notevoli sorprese in futuro.

TECNICHE E FILOSOFIA (PASSATO – PRESENTE – FUTURO)

Molti arrivano a praticare delle Tecniche perché hanno abbracciato una Scuola di Pensiero. Se vogliamo analizzare, anche chi pratica aerobica e body-building sta abbracciando una filosofia.

Chi ha avuto modo di girare di scuola in scuola, di palestra in palestra, ha una chiara idea della diversità-uguaglianza delle tecniche proposte. A volte ci si trova di fronte a tecniche che di nuovo hanno solo il nome, oppure definite innovative solo per piccoli differenti particolari, quando poi non sono altro che miscellanee di diversa provenienza e cultura.

Questo variegato mondo di proposte lascia in genere perplessi e fa scaturire interrogativi, dubbi e aspettative: funzionerà? – farà male? – sarà più efficace? – avrà controindicazioni? – sarò capace? – che garanzia ho che … ? – aumenterà la mia energia? – diventerò telepatico? – vedrò l’aura?, e così via … Come districarsi? A chi chiedere o credere?

Ogni Tecnica è nata in un luogo e in un’epoca: chi l’ha ideata è figlio del suo tempo e fratello dei suoi contemporanei. Sono prodotti di-e-in quel presente. Quello che ha senso ed efficacia in un contesto, variate le variabili – le condizioni spazio/tempo – può anche differire nella sua espressione …

Non penso che gli uomini siano “sempre uguali” a se stessi e, soprattutto, non c’è un uomo uguale a un altro. C’è chi crede che quello che si è acquisito può esser dimenticato ma non perduto, e la scienza conferma quanto siano differenti la mente e il fisico dell’uomo attuale rispetto a pochi decenni fa: non ultimi per gli stimoli ambientali e sociali con cui ci confrontiamo, e per la differente concezione di sé che l’uomo moderno occidentale vive. Le modifiche, più che opportune, sono spesso indispensabili.

La tecnica funziona non per la filosofia da cui è scaturita, ma perché agisce concretamente su alcune leve dello strumento umano. Ed è pur vero che le convinzioni personali sulla sua efficacia o non efficacia influiscono parimenti sul risultato. L’energia segue il pensiero portandone il colore, quindi la tecnica contiene un valore sensibile “attivato” o “disattivato” dal praticante e, parimenti, il praticante detiene quel valore sensibile – il pensiero – che attiva o disattiva la tecnica. L’intensa convinzione personale sulla correttezza della filosofia in cui è inserita la propria pratica è per molti garanzia di successo. E infatti, così è.

TECNICHE – STRUTTURE FUNZIONALI

Le Tecniche possono essere considerate delle strutture funzionali, in quanto nascono per uno scopo. Intendendo con questo che sono un mezzo e non un fine.

L’esecuzione della tecnica porta dei risultati “dentro” la persona, e questi risultati si riconoscono quando manifestati “fuori”. Lo scopo non entra nel merito di quanto bravi si è “a fare”, ma in ciò che “si sviluppa” nel fare. Le Tecniche sono strumenti di cui l’uomo dispone non per diventare qualcosa ma per manifestare chi già è e cosa già ha.

L’esercizio può solo portare alla luce le potenzialità più o meno espresse della persona. Praticare pensando di “diventare come …” è un pre-concetto limitante che può generare frustrazione, disaffezione e, infine, senso di fallimento o incapacità: esattamente il contrario di quanto ci si era preposto. Le tecniche correttamente utilizzate portano piacere, serenità e fiducia in se stessi.

Da qui nasce la necessità di trovare o scegliere una serie di tecniche che permettano lo sviluppo naturale e armonico delle caratteristiche individuali. Attraverso la pratica una persona impara essenzialmente a conoscersi: conosce i non-limiti del proprio corpo, le potenzialità sotto-utilizzate della propria mente e la forza motrice delle proprie emozioni. Proprie, e non di altri. Praticare una o più tecniche, simultaneamente o ciclicamente, permette di entrare in confidenza con il proprio essere più profondo, e scoprirlo immenso e stupefacente.

Le Tecniche si presentano con uno scopo principale manifesto diramandosi poi in molteplici realizzazioni “secondarie” – spesso non valorizzate o persino ignorate. Nulla che viene fatto rimane isolato, ma si riverbera – come un’eco nello spazio – colpendo di riflesso molte pareti. Chi pratica tecniche fisiche ne scopre i benefici in termini di maggiore lucidità e presenza mentale, rilassatezza e disponibilità verso il prossimo. Lo stesso vale per chi ama meditare e visualizzare: scoprendosi fisicamente rilassato e attivo, emotivamente equilibrato. E non è raro, affrontando tecniche di stampo psicologico, ritrovare la scioltezza del corpo.

La struttura è sempre funzionale a ciò che deve supportare. Per quanto il termine struttura tenda a essere associato all’idea di rigidità, deve prevedere invece una certa flessibilità, diversamente mancherebbe lo scopo. Lo scopo della struttura non è di bloccare ma favorire, cioè sostenere o impostare qualcosa che ha una necessità temporanea per potersi sviluppare correttamente e poi auto-reggersi. Una casa ben costruita non conserva indefinitamente ponteggi e impalcature; così pure la pianta inizialmente sorretta da un tutore giunge, prima o poi, a svellerlo.

Senza negare la sempre più sottile efficacia di molte tecniche con il passare del tempo, entrare in confidenza con la propria tecnica, significa anche avere una così intima conoscenza del processo interiore da sentirsi liberi di adattarla o sostituirla alle nuove esigenze che vanno proponendosi. Infatti, poiché alla pratica consegue un cambiamento, il lavoro può solo procedere riconoscendo il nuovo stato e, con questo e su questo, continuare e affinare. Anche qui, come sempre, il discernimento individuale è la misura per ogni cambiamento.

PRATICA – INDIVIDUALE E DI GRUPPO

Molte tecniche si possono fare sia individualmente che in gruppo. C’è chi predilige un modo, chi l’altro. È differente la sensazione o l’espressione che se ne può avere. Una modalità non è meglio dell’altra e ciascuna offre e rivela differenti opportunità e auto-percezioni ai praticanti. La preferenza rimane un fattore individuale.

È sensazione comune che il gruppo potenzia l’espressione acuendone l’intensità. Ci sono molti modi per osservare il tipo di energia che si sviluppa in un gruppo, ma trovo bello il senso di unità e di concretezza che tale lavoro lascia. Per esempio, nel gruppo si crea una maggior energia della somma delle parti, energia che permane nei singoli per il lavoro individuale anche a distanza di tempo: è per questo che il ritrovarsi periodico tende a favorire il successivo lavoro personale. Inoltre, con quelle tecniche che prevedono la condivisione dell’esperienza, tra i partecipanti emergono incredibili coincidenze e similarità, denominatori comuni che si riflettono all’elaborazione di ciascuno.

Gli stessi effetti sono spesso percepiti, da chi è più sensibile e aperto, anche quando il gruppo non si ritrova fisicamente nello stesso luogo, ma si dà un “appuntamento nel tempo” ignorando lo “spazio”. Così, chi non ha l’opportunità di ritrovarsi in un gruppo definito, può sempre sintonizzarsi con tutti quelli che al momento stanno praticando quella tecnica. Il mondo è pieno, giorno e notte, di gente che pratica: una percezione consapevole riconosce il non esser mai soli.

La pratica individuale ha dalla sua una maggiore libertà di risposta. Può apparire meno coinvolgente e a volte risulta più faticosa, ma lavora sull’esatta vibrazione dell’individuo. È un rapporto 1:1, dove la persona è circondata dalla sua energia e si permette di gestire in autonomia i propri stati e tempi interiori, lasciando affiorare sensazioni più direttamente collegate all’essenza personale.

Nel lavoro individuale a volte si tende a giudicare criticamente l’esperienza effettuando paragoni vari. Sono giudizi inutili: non ha senso standardizzare le aspettative o i risultati. Le tecniche agiscono su dei livelli così sottili e profondi da risultare inavvertiti alla consapevolezza ordinaria. Spesso chi ha avuto in prima battuta la sensazione di una pratica poco soddisfacente, nota in seguito l’emergere “a scoppio ritardato” di un’esperienza inattesa.

L’esercizio della tecnica è per sua natura nuovo e originale ogni volta, perché è la persona a essere ogni volta differente. Ed è con tale predisposizione al nuovo che ci si apre alla scoperta e all’apprezzamento delle differenze oltre che delle somiglianze; è con questa attenzione libera da condizionamenti che diventa visibile ciò che tende a scivolare nell’inosservato.

AUTO-CONOSCENZA E AUTO-SVILUPPO

Le tecniche hanno la funzione di catalizzatore della presa di coscienza individuale e sono come specchi interiori che rimandano all’osservatore la sua immagine. Non c’è nulla che sia aggiunto o tolto all’essere della persona. La tecnica contribuisce all’auto-riconoscimento, cioè il riconoscimento di sé. Il confronto tra ‘quanto si fa e quanto ritorna’ non deve essere visto come indice di successo o di fallimento, ma di una comprensione di se stessi che va ampliandosi.

Non si tratta di trovare motivazioni – per esempio: “perché la tecnica con me non funziona?” oppure “perché non mi riesce di …?”-, ma di osservare la risposta mediata dalla pratica, sia durante la tecnica stessa sia durante l’attività quotidiana. Qualsiasi tecnica si basa e prende come oggetto di lavoro un aspetto già presente in noi e nella nostra vita – in altre parole, si può lavorare solo su qualcosa che già c’è. E in realtà c’è già tutto, basta rendersene conto.

L’auto-riconoscimento porta in modo naturale all’auto-sviluppo perché viene spontaneo agire, a fronte di precise comprensioni, come detta la nuova visione.

Il prendere coscienza di sé è un momento particolarmente delicato e importante, e proprio per questo può creare timori e turbamenti. Questa presa di coscienza prevede una tale assunzione di responsabilità nei confronti di se stessi, della propria vita e del proprio cammino, che molti preferiscono a questo punto abbandonarsi, affermando di non essere ancora pronti.

L’auto-sviluppo prevede la responsabilità e l’autonomia, impegni che spesso si assumono più verso l’esterno che verso l’interno, più nei confronti di altri che nei propri. Lo sviluppo armonico non prevede uni-direzionalità, ma espansione equilibrata ed equilibrante.

LE TRE CONSAPEVOLEZZE DELLA PRATICA

Le Tecniche hanno principalmente come scopo la scoperta della consapevolezza. Costantemente gli istruttori dirigono l’attenzione su cosa si sta facendo, come si sta facendo, quali parti sono interessate – il respiro, il movimento, il pensiero, l’emozione. Eseguire una pratica consapevolmente è un raggiungimento non da poco, pur essendo spesso solo un attimo fuggevole.

Volendo definire tale consapevolezza, la si potrebbe esprimere come meccanica – consapevole – applicata.

La Consapevolezza Meccanica: l’automatismo, la correttezza formale, l’abitudine, il dover o voler fare: l’orologio.

La Consapevolezza Consapevole è altrettanto chiara: quella che viene in genere richiesta e auspicata, percezione delle parti e del tutto – l’insieme : l’orologiaio.

Ci si accontenta, o si mira semplicemente, all’essere orologiaio (già apprezzabilissimo risultato) perché la terza consapevolezza è quella che generalmente sfugge: la Consapevolezza Applicata. Usare l’orologio per leggere l’ora.

Lo scopo della tecnica è realizzare qualcosa di pratico. Che senso ha sviluppare i muscoli mancando poi di aiutare a portare un peso? Che senso ha osservare il respiro, il pensiero, le emozioni in mezz’ora di meditazione o in una seduta di rebirthing, se quella stessa attenzione si spegne come la lampada nell’uscire dalla stanza?

Tutte le pratiche, tutte le tecniche, sono attrezzi usati per sperimentare e allenare il riconoscimento di quella consapevolezza che già c’è nella vita di tutti i giorni: ed è nella vita di tutti i giorni che l’essere consapevoli ha la sua ragione d’essere.

Praticare una tecnica è solo un frammento di spazio/tempo che ferma il riflesso di quello che “già sono-già ho”, è un momento di riconoscimento che ci si prende per abituare “noi a noi stessi”, sono attimi per staccarci dall’automatismo e allenarci a gestire aspetti di noi di solito trascurati, e nell’esperienza di questi preziosi istanti riconoscerci, apprezzarci, rivalutarci e trarre l’energia per vivere la consapevolezza che già abbiamo, perché è questo il tipo di consapevolezza, o di coscienza, che ci distingue.

UN PASSO OLTRE

Chi pratica le proprie tecniche con piacere e libero dai rigidi dettami dell’aspettativa propria o altrui, prima o poi giunge a scoprire qualcosa che neppure sapeva di avere/essere. Ci sono sfumature, nell’esperienza umana, che valicano di molto la semplice fisicità. Ci sono aspetti che non toccano la vita quotidiana, ma che cambiano la visione che se ne ha. Una pratica costante e rilassata, non rigida e forzosa, col tempo regala sensazioni più sottili ai cinque sensi, al pensiero e all’emozione, trasformando la percezione che si ha del solito mondo in un “mondo speciale”.

È ormai accertato che molte tecniche inducono a degli stati di coscienza definiti “alterati”. Chi non ha avuto un’esperienza diretta, a volte li suppone come una sorta di intontimento e vacuità: nulla di più estraneo, è esattamente l’opposto. Lo stato di coscienza che va sviluppandosi prevede maggiore sensibilità agli stimoli più sottili ed evanescenti, ma senza perdere il contatto con il mondo fisico definito “materiale”. Per esempio, le intuizioni avvengono in questo stato parallelo all’attività della veglia.

CONCLUDENDO

Riprendendo i tre termini che mi sono sembrati meglio sintetizzare i loro molteplici aspetti, le Tecniche sono:

*specchi – che rimandano in mille riflessi immagini di noi stessi nelle nostre differenti forme, capacità e potenzialità, permettendo all’osservatore di osservare e conoscere se stesso.

*strutture – funzionali con il potenziale dello sviluppo e dell’adattamento.

*catalizzatori – che stimolano risposte inespresse giacenti nella totalità dell’essere Essere Umano.

Nell’esercizio si va a ri-svegliare l’essere percettivo, in quanto l’osservazione degli stati fisici, emotivi e mentali, fa scattare anche il riconoscimento di chi sta percependo tali stati.

Parlare delle Tecniche è parlare dell’Uomo, perché sono nate dall’uomo e per l’uomo. Come l’uomo sono sempre uguali e nel contempo diverse, si adattano all’ambiente e alle necessità, si sviluppano e migliorano, si moltiplicano e caratterizzano, si mettono alla prova e correggono, si trasformano e si inventano.

Praticare delle Tecniche è un atto creativo su molti piani di coscienza e livelli di comprensione, e permette di vivere e ammirare più profondamente le meraviglie anche di quella parte della Creazione che siamo Noi. —

– Estendere i confini, 1

Una nota sulla “chiusura”, Paola

27 mercoledì Dic 2017

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Sulla “chiusura”, Paola (nota  al gruppo di pratica)

Vorrei condividere alcuni pensieri sull’importanza di una “chiusura“ appropriata.

Nel nostro paradigma il concetto di chiusura non sottintende esclusione ma conclusione. Nella nostra chiusura non c’è l’idea di liberarsi di qualcosa dandogli un calcio, di eliminarlo o cacciarlo via, di disfarcene in quanto sgradevole e indesiderato. Non è così. La nostra chiusura è un momento di riconoscimento del valore di un’esperienza, è un momento in cui noi volutamente e consapevolmente non giudichiamo in senso di positivo o negativo, ma consideriamo l’utilità o il servizio che l’esperienza, il rapporto, l’evento o la cosa che si è chiusa o sta chiudendosi, ci ha donato. Lo andiamo a considerare come un nutrimento che ci è stato dato, che ci ha fatto crescere e comprendere meglio alcuni aspetti di noi.

Nel corso della nostra vita dobbiamo riconoscere e prendere coscienza dei momenti in cui una cosa si trasforma o cambia, che non è più quella che intendevamo, o che non va più bene, per noi o gli altri. Pertanto, quando la cosa finisce per cause esterne, oppure decidiamo di abbandonarla o di togliere noi stessi dalla situazione, prendiamo atto che per noi – ribadisco per “noi” e non necessariamente per le altre parti in causa – la situazione, l’evento, il contesto si sono esauriti.

A volte delle nuove iniziative non partono proprio perché non hanno lo spazio o la libertà necessaria a svilupparsi a causa delle influenze delle esperienze passate. E mi riferisco alle esperienze negative tanto quanto a quelle positive. Generalmente, tendiamo a considerare condizionanti solo gli eventi che riteniamo negativi, mentre di quelli positivi vogliamo farne tesoro. Tuttavia, per quanto riguarda i condizionamenti non si possono usare due pesi e due misure secondo criteri di “piacevolezza” personale. A tal proposito vorrei citare il pensiero di C. G. Jung: “Non dobbiamo soggiacere a nulla, nemmeno al bene. Un cosiddetto bene al quale si soccombe perde il carattere etico. Non che diventi cattivo in sé, ma è il fatto di esserne succubi che può avere cattive conseguenze. Ogni forma di intossicazione è un male, non importa se si tratta di alcol, morfina o idealismo. Dobbiamo guardarci dal considerare il male e il bene come due opposti.”

Un’esperienza esaltante o profondamente felice lascia un’impronta condizionante sulle esperienze future tanto quanto un’esperienza tragica. Condiziona la percezione assumendo il carattere di termine di paragone per una felicità futura, crea uno schema altrettanto inficiante a vivere liberamente ogni diversa manifestazione del nuovo e del diverso, bloccando ogni altro diverso godimento.

È per questo motivo che noi riconosciamo l’importanza di operare un qualche atto di chiusura, soprattutto per ciò che si è già dichiaratamente concluso e che fa parte di un passato decisamente alle nostre spalle. Dal punto di vista del nostro paradigma tutto ciò che non ci serve più, che si è ormai esaurito e che vogliamo lasciare, deve essere chiuso in modo appropriato. Abbiamo il compito verso noi stessi di entrare in contatto con queste forze limitanti e scioglierle, così da non restare legati a immagini di noi cristallizzanti e disattivanti.

Quando riconosciamo o consideriamo la conclusione di qualcosa, dobbiamo esprimerla; dobbiamo compiere un atto che in qualche modo lo attesti in modo manifesto e palese nella realtà di consenso. Può essere con un rituale, oppure con una festa, un biglietto, un regalo, un pensiero: azioni e gesti accompagnati da un sincero e reale ringraziamento. Anche se l’esperienza non è stata piacevole, dovrebbe essere portata a buon fine con grazia e in armonia.

Per me, gli elementi di un atto di chiusura sono: 1) Riconoscimento che l’esperienza o l’evento si sono conclusi. 2) Apprezzamento e gratitudine per il dono che l’esperienza o l’evento mi ha lasciato come conoscenza o saggezza. 3) Ringraziamento e congedo senza giudizio.

Questi tre punti dovrebbero essere sentiti sinceramente e non essere azioni o parole dette per formalità.

Anche se è stata vissuta con un senso di profondo dolore o infelicità, se non si vuole che una certa esperienza influenzi il proprio futuro, deve essere congedata con sincera gratitudine, con il pensiero che è solo per suo merito che si è giunti a questo nostro momento di reale (e non immaginario) punto di svolta. La Provvida Sventura di manzoniana memoria, insegna.

Altrettanto vale nel chiudere un’esperienza ritenuta felice, quelle di cui si è portati a dire: “più di così non potrò avere…”, o “ il futuro non sarà mai più così radioso…”, o anche “non troverò più una persona/un lavoro/un contesto migliore di…”. E lo stesso vale quando questa felicità ci è stata data da un profondo affetto che ci ha lasciato: è bene congedarla.

Vorrei sottolineare che oggetto dell’atto di chiusura sono le esperienze o gli eventi, e non le persone. Le persone di per sé sono anime eterne e da esse non ci separeremo mai, le troviamo sempre e comunque nostre compagne di viaggio. Le persone sono gli attori che allestiscono la scena di cui noi siamo protagonisti, e nei loro diversi ruoli danno l’estro alla nostra interpretazione. Pertanto è possibile chiudere appropriatamente qualcosa di nostro: un atteggiamento, un’abitudine, un’esperienza di cui riconosciamo realmente di aver assimilato il valore e che, di conseguenza, sono diventate per noi preziose. In caso contrario ci ritroveremo in breve tempo a riviverle in apparentemente altre diverse scene con differenti attori.

Perché dobbiamo farlo in questo modo? Innanzitutto perché chiudere formalmente con riconoscenza e apprezzamento rompe i ponti e impedisce al passato di protendere i suoi tentacoli nel nostro futuro. Inoltre, con queste tre attenzioni – in particolare con la gratitudine – noi recuperiamo l’energia emozionale che abbiamo immesso in quel vissuto, e la recuperiamo con il valore aggiunto di una saggezza che ci porterà senza fallo a superare con facilità e grazia ogni altra situazione simile. Una volta appresa e assimilata la comprensione diventata nostra, la manifesteremo in modo libero e spontaneo.

Un’ulteriore nota: il distacco. L’esperienza insegna che se eseguito con puro intento e sincerità emozionale, l’atto di chiusura è efficace e spesso pressoché immediato. Tuttavia, ci sono situazioni in cui la persona, pur essendo ormai libera da quel passato, continua a trovarsi in una certa situazione per il bene degli altri partecipanti.

Noi che intendiamo vivere in armonia con tutto e tutti, accettiamo anche il ruolo che interpretiamo per gli altri attori sulla scena per tutto il tempo che serve, perché anch’essi sono a loro volta protagonisti della loro rappresentazione e noi siamo ugualmente, e coerentemente, attori che danno a loro l’estro della loro libera interpretazione. Così può capitare che ci troviamo a continuare a vivere un evento che non ci appartiene più e accorgerci con stupore che, nonostante tutto, lo viviamo e vi agiamo con libertà e senso di impermanenza. In tale situazione, invece di depauperarci, ci apriamo a nuove possibilità. —

Paola, Paradigma 3

Elementi di divinazione, Paola

05 giovedì Gen 2017

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ombra-della-seraElementi di divinazione, Paola

Se volete sapere dove vi trovate, domandatelo ai non-locali. 

–  M. Talbot, Tutto è Uno

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Con questo scritto mi piacerebbe portare un contributo per ravvivare l’arte della divinazione soprattutto a livello personale, perché penso che mai come in questi tempi frettolosi, tecnologici e quasi insensibili alle pause, all’osservazione e alle sfumature, questa pratica possa ricollegarci a noi stessi e alla nostra realtà personale. Conoscere ciò che non si sa o non si comprende è da sempre uguale, le mantiche e gli strumenti per raggiungerlo sono da sempre diversi. Non è mia intenzione entrare nello specifico dei tipi di mantica, poiché la scelta dipende dalle inclinazioni personali e dal contesto culturale; piuttosto, vorrei soffermarmi su alcuni elementi comuni e un’esperienza personale di metodo, consapevole che l’argomento ha spazi di esplorazione ben più vasti.

La divinazione è una pratica che accompagna l’uomo fin da quando ha cominciato a riflettere su di sé e sul suo rapporto con i suoi simili, il suo ambiente e le forze misteriose alle quali si vedeva soggetto. Oggi l’uomo moderno con fatica accetta l’idea di qualcosa di più vasto in cui è inserito e di cui fa parte, o che sia oltre la sua comprensione. Dopo secoli di visione meccanicistica del mondo, alcuni scienziati stanno ora proponendoci la teoria dell’Intelligent Design (letteralmente, Progetto Intelligente), secondo la quale: «alcune caratteristiche dell’universo e delle cose viventi sono spiegabili meglio attraverso una causa intelligente, e non attraverso un processo non pilotato come la selezione naturale» [Wikipedia].

INTRODUZIONE

La divinazione può apparire a prima vista un intrico oscuro e incerto, e magari incutere un certo timore. Se i giochi divinatori dimostrano un’affidabilità di vario grado, ciò dipende dai giocatori e non certo dagli strumenti, che di per sé sono neutri come le lettere dell’alfabeto che possono trasmettere ispirazione o menzogna, secondo chi le adopera.

Nella pratica divinatoria ci sono tre personaggi e una scena, tutti sullo stesso piano e interconnessi, dove la debolezza o la forza dell’uno pregiudica o esalta gli altri: consultante – mantica – divinante (che può coincidere con il consultante) e una scena predisposta secondo set, setting e mind–set. Questi ultimi sono termini nello studio sulle esperienze negli stati di coscienza espansi, e mi sembrano pertinenti anche in questa sede, in quanto la divinazione prevede uno stato di coscienza diverso da quello della comune attività di veglia. Oltre a questi elementi, la sfera che – secondo me – racchiude scena e partecipanti è una sorta di sacralità (non superstizione) poiché la divinazione, come chiaramente lascia intendere il termine, riconosce e si affida alla presenza di un “divino”, di qualcosa che trascende gli aspetti terreni, l’apparenza degli eventi, la personalità e le conoscenze intellettuali.

SET – SETTING – MIND-SET

In questo contesto, il set sono le caratteristiche della persona: tutto il suo mondo interiore, la conoscenza o non conoscenza, l’esperienza o non esperienza, lo stato di salute, le credenze, le aspettative, le paure, le dipendenze; in breve, il suo bagaglio mentale ed emotivo.

Il setting è il luogo dove si svolge la pratica e il suo allestimento, quindi ciò che è esterno: l’ambiente con le sue caratteristiche di luci, musiche, profumi, decorazioni, oggetti, l’abbigliamento, la postura e quant’altro.

Il mind-set è l’atteggiamento mentale, l’intento o l’intenzione con cui ci si appresta all’opera.

Il set è certamente cruciale per colui che divina, che deve leggere i segni che arrivano dalla sfera della divinità. Nell’antichità la divinazione era appannaggio di persone distaccate dalla mondanità e quasi esclusivamente dedite al servizio divino nei templi, o che vivevano una vita a volte austera, altre volte isolata. In ogni cultura tali persone vivevano ai margini della società, in esilio dal mondo.

Tuttavia, il set non è meno importante per il richiedente, perché il suo desiderio di conoscere, la passione o la necessità che lo lega alla domanda sono indicatori di uno stato di coscienza. Anticamente, chi cercava risposte vitali affrontava molti disagi, percorrendo grandi distanze, soggiornando e purificandosi a lungo prima di poter accedere al contatto con la divinità o il divinante.

Anche oggi, la preparazione è requisito fondamentale: in primis per chiedere ed entrare in contatto con il divino, e successivamente per ricevere/comprendere/interpretare la visione/risposta.

Il setting può svolgere un ruolo di rilievo nell’espansione della coscienza. Per qualcuno si tratta di seguire rituali consolidati, altri si preparano e preparano il luogo secondo criteri personali dati da esperienze precedenti o intuizioni. Il setting è generalmente predisposto dal divinante al fine di fornire un ambiente che aiuti a creare/entrare in una diversa dimensione spaziale e temporale.

In questo elemento, ciascuno deve essere consapevole della natura dei suoi allestimenti, poiché questi dovrebbero servire ad espandere la percezione e non a confinarla o condizionarla in costrutti predefiniti, in una sorta di auto-suggestione o superstizione: il divino non può manifestarsi là dove tutto lo spazio è occupato da convinzioni, preconcetti, aspettative e orgoglio personali. Se una persona si conosce, sa che ciò che per qualcuno va bene potrebbe non essere opportuno per sé. Per esempio, io mi riconosco come una persona piuttosto impressionabile, per cui il mio setting è il più possibile neutro.

Inoltre, il setting coinvolge anche il consultante, quindi anche la sua apertura sia a esprimersi che a ricevere. Non sempre ciò che aiuta il divinante è altrettanto utile per il consultante. La divinazione è un’arte ispirata oltre che una pratica, e come ogni ispirazione segue flussi che spesso la razionalità non può seguire.

Il mind-set è, come detto, l’atteggiamento mentale, l’intenzione o l’attenzione con cui si opera. È, quindi, anche la domanda. Entrare nello stato di divinazione è entrare in uno stato alterato di coscienza, diversamente si rimarrebbe nello stato comune di veglia e razionalità e ciò che sembra “arrivare” in realtà “non arriva”, ma è un prodotto della propria mente razionale che, pur capace di dare buoni consigli, nella divinazione deve tacere per accogliere il non-limitato e il non-razionale, che non significa irrazionale.

Il mind-set è simile a un’antenna o a un telescopio che necessitano di sintonizzazione o direzione per catturare ciò che cercano. Può anche essere paragonato a un magnete che attrae solo ciò che attrae. Nel corso del tempo il significato di “divinazione” è andato abbassandosi di frequenza per adattarsi a differenti stati di coscienza, a differenti mondi di realtà, di intervento e risposte. Divino è un aggettivo il cui sostantivo risponde a varie concetti intellettuali e, pertanto, non è un termine di chiaro o univoco intendimento. Come diceva Tolstoj: “Un’idea di Dio non è Dio.”

Nella divinazione, entrando in una dimensione dove tempo e spazio non esistono, spariscono limiti, convenzioni, riferimenti e conoscenze razionali e tutto può comparire insieme. Questo “tutto” può apparire confuso, confondente o evanescente se il mind-set non è il più possibile cristallino e immacolato. Questo non perché la “risposta” sia di per sé confusa o vaga, ma perché la lente attraverso cui si guarda è opaca o distorcente: in quei piani o dimensioni, divinante/consultante, la loro coscienza e le loro lenti coincidono con la visione stessa.

INFORMAZIONI

In Wikipedia, sotto la voce divinazione sono elencate esattamente 100 mantiche (e probabilmente ce ne saranno altre ancora) dalle più note a quelle più impensabili che pure, da quel che si legge, non solo sono state pensate ma anche esercitate. Ciò ben illustra non solo il desiderio di conoscere ciò che è nascosto – che è sempre presente nell’umanità senza differenze di tempo, luogo e cultura, ma anche come l’uomo creda e abbia sempre creduto di poterlo sapere. Quindi, ecco che la presenza di strumenti di ogni specie in grado di dare risposte a domande sia pratiche che esistenziali ci potrebbe portare a riflettere sulle implicazioni della teoria dell’ordine implicato di Bohm per cui: “ … nell’universo esisterebbe un ordine implicato che non vediamo, e che Bohm paragona a un ologramma nel quale la sua struttura complessiva è identificabile in quella di ogni sua singola parte” [Wikipedia].

Dove si trovano le informazioni desiderate, quelle che preconizzano il futuro, illuminano il passato o mostrano ciò che è nascosto? Chi lo può dire con certezza? Nell’antichità si parlava di mondo degli dei, delle idee, di mondi angelici, spiriti e così via; con la psicologia sono nate nuove espressioni come inconscio personale, inconscio collettivo, mondo degli archetipi; con la moderna fisica si parla di energia, non-località, energia del punto zero. E dove si trovano queste dimensioni, essendo oltre la sfera della fisica conosciuta? Dentro, fuori, dappertutto o da nessuna parte? A prescindere da come ipotizziamo la sede delle informazioni, queste ultime esistono e possono essere trasferite da una dimensione sconosciuta a una ritenuta conosciuta.

Sempre tenendo a mente che set, setting e mind-set agiscono in collettivo, l’informazione è leggermente più responsiva al mind-set. In questo caso si può paragonare il mind-set a un missile dotato di un sistema d’inseguimento e intercettazione, ma dato che caratteristica di questo “dove” sembra essere l’assenza di tempo e spazio, non c’è alcuna distanza da percorrere e il bersaglio è colpito nel momento stesso in cui si preme il pulsante di lancio. Quindi non c’è nessun manuale di fisica da studiare, ma solo essere estremamente precisi, limpidi e distaccati; quindi, liberare la mente da secondi fini, mezze parole, mezze verità, illusioni, speranze, fantasie, giudizi, buone intenzioni e quant’altro circola in un cervello confuso e in un cuore turbato; ogni interferenza mentale ed emotiva influisce sulla chiarezza della visione.

La domanda, quindi, catalizza e precipita la risposta. Aver ben delineato i termini di ciò che si vuole conoscere è una condizione iniziale importante.

LINGUAGGIO

“Il dio, il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde, ma indica” [Eraclito]. Quale che sia per noi questo “dio” a cui attingere nella divinazione, parla una lingua diversa da quella ordinaria. Per entrare nella dimensione più profonda, efficace e guaritrice di una divinazione bisogna imparare a conoscerne la lingua.

Ogni mantica ha un suo linguaggio che va acquisito, interiorizzato ed esercitato, e non solo strettamente in sede di consulto. Addentrarsi nella pratica della divinazione significa instaurare una comunicazione costante con l’invisibile perché, al di là del momento in cui si sceglie di entrare nella procedura, la comunicazione è sempre in continuo scambio e interazione, dove ogni attimo precedente divina il successivo. Le mantiche mostrano le dinamiche, e – a un certo livello – non rappresentano persone ed eventi, ma momenti e movimenti coscienziali travestiti da persone ed eventi.

Ci sono diversi tipi di linguaggio, alcuni utilizzano supporti esterni come, per esempio, i Tarocchi, l’I Ching, le Rune, ecc., che hanno in sé codificati simboli e significati secondo una lunga tradizione; poi ci sono pratiche che si servono degli stati espansi di coscienza della persona: di tipo naturale come l’oniromantica e il viaggio sciamanico, oppure indotti attraverso condizioni di privazione o con l’uso di sostanze enteogene. [Poiché qui si parla di divinazione, trovo l’aggettivo “enteogeno” più appropriato di psicotropo o allucinogeno, perché dal greco entheos-genesthai, dove en=dentro, theos=dio e genesthai=generare, quindi “ciò che genera Dio (o l’ispirazione divina) nella persona.] Inoltre, parallelamente a ogni pratica umana, la comunicazione divina si serve anche degli elementi ambientali (sincronicità, fenomeni naturali, ecc.).

Al di là della tecnica utilizzata, il linguaggio dell’esperienza divinatoria assume nel tempo carattere individuale e personale. Come si sa, il comune linguaggio è una struttura convenzionale limitata alla comunicazione in certi ambiti di esperienza, per lo più fenomenica e materiale, che assolve l’esigenza primaria di relazione tra umani. Nella divinazione, sia con l’utilizzo di strumenti che per auto-induzione e comunicazione ambientale, compare la necessità di tradurre immagini, simboli, visioni e altri tipi di percezione in una risposta intellegibile e coerente. Poiché, come dice Eraclito, il dio non dice ma indica (o accenna, secondo altra traduzione) consegue che questo divino lascia ampio margine di interpretazione all’uomo; così, a mio parere, non è il dio ma l’uomo che gestisce la risposta, verbalizzata secondo la sua sensibilità e capacità di intendere e tradurre.

Per quanto sopra, essendo il linguaggio del divino (dell’inconscio collettivo o del non-locale, che dir si voglia) non strutturato e tanto meno limitato a una lingua o a immagini standardizzate, ritengo che sia compito di chi vuole avvicinarsi all’arte divinatoria acquisire il più ampio vocabolario possibile esercitandosi in più mantiche e di diverso genere, perché a volte limitarsi a una sola lingua è condizionare a una manciata di termini la traduzione di un flusso che proviene dal magazzino dell’universo intero e delle esperienze di tutta l’umanità nel corso di molti millenni.

Considero, inoltre, buona cosa avere strumenti diversi in funzione della domanda o della dimensione cui ci si rivolge, perché alcune mantiche possono sembrare più consone a responsi di ordine pratico e altre a responsi di ordine più esistenziale o impersonale.

FEEDBACK

La divinazione è un’arte e una scienza, e la loro padronanza prevede studio, esercizio e verifica. È un’arte che opera con l’invisibile e questo invisibile non è un semplice “visibile che non si vede” ma qualcosa che ha leggi diverse, modalità diverse, realizzazioni diverse, intendimenti diversi. Quindi non può essere avvicinato con meccanicità e stereotipi ma con sensibilità, calma e apertura. Spesso l’accesso avviene non per visione centrale ma periferica, così come le stupende ma fioche Pleiadi si colgono meglio con la coda dell’occhio fissando le stelle più brillanti intorno. Le risposte sono sempre e ovunque presenti ma celate, come nella nube confusa di uno stereogramma. Talvolta basta che lo sguardo sia diversamente a fuoco ed ecco che miracolosamente compaiono, ad ogni livello di manifestazione.

Ciò che si definisce spirituale ha delle “dinamiche” che non sono limitate alle abitudini e alle aspettative della personalità, per cui divinante/consultante dovrebbero approcciarsi aperti a ricevere anche risposte che potrebbero apparire in un primo momento non chiare, contrarie alle regole o illogiche, o anche scontate… Una volta che si ha l’immagine, la visione o l’indicazione, non sempre si è in grado di capirla chiaramente o correttamente; alcune volte è necessario astenersi e lasciare a quel “divino cenno” tempo e spazio per manifestarsi con più consistenza e chiarezza. L’ansia da prestazione di aver capito tutto subito e attribuire immediata certezza a ogni affermazione è un imperativo dei tempi moderni a cui non si deve cedere. Nella divinazione i tempi sono altri, sono i tempi della coscienza e non degli eventi; talvolta una risposta non è “la riposta ricevuta”, ma un moto iniziale o un seme che, lasciato libero, si sviluppa in qualcosa d’imprevisto che meglio corrisponderà alla necessità.

Riguardo alla visione o al responso, poche volte ho incontrato chi dopo una divinazione attende una conferma sul piano oggettivo; la maggior parte dei divinanti e dei consultanti si limita ad accettare piuttosto acriticamente, come se il divino si offendesse ad essere messo in dubbio.

Personalmente, prima di dare credibilità a una percezione, visione o lettura, soprattutto se suscita perplessità o dubbio o indica un’azione drastica, attendo (o faccio attendere al richiedente) un feedback o conferma attraverso il sogno, la sincronicità o l’ambiente esterno entro un periodo di tempo che, per quanto mi riguarda, ho stabilito di 24 ore. Se entro tale termine non si riceve il feedback, quell’interpretazione è sospesa.

Mente e percezione non sono facili da tenere limpide e distaccate, specialmente se la divinazione viene fatta per se stessi. Chiedere il feedback significa anche uscire dalla presunzione di infallibilità riguardo la propria interpretazione, ciò che si visualizza o passa per la testa; è un atto di umiltà e fiducia permettere al divino di manifestarsi anche con altri mezzi e lasciare ad esso l’ultima parola.

La teoria che sta dietro a questa modalità è che se qualcosa è veramente “vero/reale” deve rivelarsi tale su tutti i piani, quindi anche sul piano ordinario e non solo quello raggiunto in stato alterato. Questo risponde al paradigma olografico, dove nella parte c’è il tutto – e se una parte proviene da un “intero”, ogni altra e diversa parte di quell’intero lo rivelerà allo stesso modo. Parafrasando il Mahabharata: “Ciò che c’è qui lo si può trovare anche altrove; ma ciò che qui non si trova, non esiste in nessun luogo.” Questo il motivo per cui – sempre a parer mio – è importante riconoscere che la comunicazione può essere confermata attraverso molti messaggeri, e che spesso è bene avere più di una testimonianza prima di dar credito e procedere. È quasi incredibile come le conferme arrivino tempestive e tramite i più disparati ignari emissari.

REALTA’ PERSONALE

Alla divinazione si oppone spesso la “realtà” della validità delle risposte. Cosa significa “realtà” è una questione dibattuta e infinita, per cui – in questo contesto in modo particolare – per me la realtà è una realtà personale.

Se abbiamo un problema, lo abbiamo nella nostra realtà. Delle persone che ci circondano abbiamo immagini mentali che riflettono la nostra relazione con loro, gli avvenimenti che ci accadono sono quelli che ci toccano direttamente. Così, nella divinazione, le domande sono sempre personali e hanno risposte personali. Chiedere per altri è inutile, perché la risposta che si può ottenere non è diretta all’“altro”, ma al richiedente. Ho notato che c’è come una sorta di legge sulla privacy. Quando da giovane facevo ingenue domande sulle faccende altrui, le risposte ottenute non avevano mai riscontro reale. Ho capito, quindi, che ciascuno di noi attinge esclusivamente al proprio magazzino di esistenza passata e futura perché ha il suo proprio viaggio di andata e ritorno. Sono del parere che l’immensità della sfera individuale sia proprietà privata: solo l’interessato è autorizzato ad accedervi. Diversamente, la considero un’intrusione non autorizzata.

La divinazione ha senso per coloro che sentono il divino partecipe della loro vita e loro stessi partecipi di una vita divina. Se questo divino sia inteso secondo un ideale religioso, psicologico o scientifico è – secondo me – ininfluente. Entrare nella pratica della divinazione significa riconoscere che la manifestazione origina da una sede apparentemente diversa da quella che definiamo realtà oggettiva. Non ritengo importante sapere dove sia e darle un nome, ma lo è arrivare a cogliere quelle informazioni mancanti che danno a certi aspetti della nostra vita un senso o una direzione quando non riusciamo a trovarli con la mente razionale. A volte non si tratta di capire e nemmeno di credere, si tratta semplicemente di agire.

CONCLUSIONE

La divinazione è sia un fine che un mezzo per acquisire conoscenza ed esperienza di noi stessi e di una realtà ampliata. Tutti i nomi che possono venir dati a dimensioni che sconfinano dalla realtà consensuale sono semplici modelli di comunicazione, il loro valore non consiste nell’idea della loro esistenza e descrizione ma nella plasticità con cui si manifestano in tempo, spazio, materia e, di conseguenza, coscienza. Nel momento in cui si entra in un vero stato di divinazione, in una dimensione espansa e impredicibile, si è in un eterno presente a contatto con le energie indifferenziate della creazione, pronte a modellarsi alla richiesta.

Il valore di una divinazione non sta nella bontà o nel conforto di un responso che ci solleva dal nostro stato, ma nella possibilità di osservare un quadro più ampio così da acquisire quell’ulteriore conoscenza che aiuta a prendere una decisione personale e autonoma assumendocene la responsabilità.

La divinazione può essere praticata per diversi fini, dalle urgenze legate alla sopravvivenza e alla soddisfazione materiale ed emozionale, a quelle della ricerca di uno scopo o del significato degli accadimenti, fino ad arrivare all’esperienza di una dimensione collegata a quella terrena unicamente dal filo sottile della vita che tutto pervade.

L’affinamento nella pratica della divinazione risponde all’affinamento del nostro stato di coscienza, per cui vorrei concludere con A. Huxley: “Ciò che percepiamo e ciò che comprendiamo dipendono da ciò che noi siamo.” —

– Estendere i confini, 6

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Nota

Michael Talbot, Tutto è uno (The Holographic Universe) – Urra/Feltrinelli

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