• HOME
  • Bacheca
  • ELENCO Articoli
  • TAOISMO
  • STOICISMO
  • CONTATTO

Inseparatasede

~ pagina parallela

Inseparatasede

Archivi della categoria: Estendere i confini

La percezione della normalità, Paola

27 martedì Ago 2019

Posted by Paola in Estendere i confini, Inserimenti, Paola, Percezione, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

≈ Commenti disabilitati su La percezione della normalità, Paola

La percezione della normalità, Paola (2005)

“La mente che si apre a una nuova idea
non ritorna mai alla dimensione precedente.”
A. Einstein

– – – – – – – – – – –

La percezione extrasensoriale ha sempre colpito e affascinato l’immaginazione e, secondo l’epoca o la cultura, è stata vista come segno di divinità, possessione o malattia. Solo negli ultimi decenni la scienza ha riconosciuto che alcune capacità, al momento poco comprese, sono connaturate all’uomo benché latenti.

Chi segue un percorso evolutivo attende la manifestazione di doti ritenute superiori desiderando sperimentare la realtà ampliata che ne deriva. Alcune volte, però, la tenera gemma della loro presenza non è riconosciuta proprio a causa di quanto ci si aspetta, poiché la pienezza di alcune capacità – nell’immaginario – è a tal punto standardizzata da impedire il riconoscimento delle sue espressioni intermedie. È come vedere un albero solo dai frutti o dai fiori, e non d’inverno quando è spoglio di ogni ornamento. Mancando questo riconoscimento, si manca la possibilità di sviluppare più rapidamente proprio quanto maggiormente desiderato.

Chi si accorge del suo iniziale germoglio, ha la felice opportunità di nutrirlo osservandone la crescita in piena consapevolezza. La consapevolezza che permette questo riconoscimento è direttamente proporzionale alla consapevolezza che si ha verso tutte le manifestazioni della vita. All’interno di questo processo, d’altra parte, ci sono atteggiamenti involontari che boicottano quanto si cerca con impegno e passione.

ESTENDERE IL CONFINE DELLA NORMALITA’

La paura che l’uomo ha dell’ignoto e dell’incontrollabile è connessa al suo istinto di conservazione.

La normalità è una linea di demarcazione piuttosto arbitraria che delimita e separa il razionale dall’irrazionale, l’accettabile dall’inaccettabile, il conosciuto dallo sconosciuto.
La normalità è come un campo arato e seminato anno dopo anno, ben sorvegliato e recintato affinché animali selvaggi e piante infestanti non ne mettano a rischio la resa prevista. Il paranormale è tutto quello che si scorge aldilà dello steccato, a perdita d’occhio, oltre la linea dell’orizzonte.

In realtà la normalità è l’Esistere con la sua miriade infinita di trasformazioni e differenze, gli sviluppi imprevedibili, i cambiamenti di stato e le modificazioni genetiche. Quello che si è soliti definire “normale” è un banale e limitato sottoinsieme nel più grande insieme del Tutto.

Estendere il limite del concetto di normalità diventa inevitabile, a un certo punto del cammino, volendo espandere consapevolezza e percezione. La percezione extrasensoriale può svilupparsi solo se non considerata estranea e diversa da una supposta normalità. Per farlo è necessario rivedere quei (pre)concetti individuali su cosa è normale o anomalo, accettabile o inaccettabile, vero o falso all’interno del proprio vissuto. Non può essere semplicemente una comprensione intellettuale, un “credere che …”, ma piuttosto un comportamento nella quotidianità, se si vuole ampliare la percezione nella realtà e non nella fantasia.

Non accettare le differenze della vita e delle sue manifestazioni come realtà normale e legittima, inibisce nell’intimo l’espressione di quella diversità che, in fondo, si desidera promuovere in se stessi. Essendo l’uomo uno in sè e con il Tutto, la paura proiettata ritorna di riflesso – in un gioco di specchi interiori ed esteriori – su ogni aspetto della realtà individuale.

Chi vuole manifestare le proprie potenzialità, deve confrontarsi con l’atavica paura dello sconosciuto/imprevedibile e con il suo parametro di coerenza, allargando poi in modo continuo e costante i limiti dell’accettazione: limiti mascherati dall’abitudine e dalle convinzioni personali, spesso sostenuti da una logica inoppugnabile e perfettamente coerente. Ogni cosa deve essere valutata quale aspetto apparente, temporaneo, non sostanziale e suscettibile di cambiamento, onde non perdere l’opportunità di maggior sperimentazione e saggezza che la Vita sempre offre a chi le si affida con fiducia.

SPOSTARE L’ATTENZIONE

Gli impedimenti all’espansione della percezione sono spesso dati – anche qui – più da un’abitudine mentale che da altro. All’inizio della sua esistenza terrena, il nostro cervello registra i dati in entrata e costruisce con essi un archivio, al quale poi successivamente noi ci limitiamo – anche nel senso di “auto-limitazione” – accettando solo ciò che corrisponde all’archiviato, quando – addirittura – non ne “anticipiamo la conclusione” secondo un copione prestabilito da determinate esperienze. È un meccanismo dell’evoluzione utile per semplificare e rendere sicura una vita impostata sulla ripetizione e l’automatismo, ma che si trasforma in una sfida impegnativa per chi vuole andare oltre.

L’ovvietà è un altro meccanismo che devia il flusso di nuove informazioni verso i reparti del “già lo so”, così del nuovo si vede solo ciò che somiglia al già noto e tutto il resto diventa invisibile. Si dovrebbe tornare bambini per avere la spontaneità dell’osservazione, superando la dipendenza da un’autorità esterna che definisce cosa e come osservare. Si tratta di tornare a osservare smantellando quelle strutture mentali che cultura, educazione e esperienze precedenti hanno – più o meno inconsapevolmente – costruito. Si tratta di ri-verificare la realtà personale costruita dalle nostre strutture mentali individuali.

L’interpretazione procede parallela al condizionamento della percezione. Si dovrebbe riuscire a osservare quanto ci troviamo di fronte senza attribuire significati o motivazioni che vengono spontanee a motivo delle strutture su cui poggiamo, permettendoci invece di non lasciarci ingannare dall’apparenza, laddove l’apparenza è la nostra interpretazione. Quando ci si permette di sospendere momentaneamente ogni aggettivo, concedendo a noi stessi, all’altro o alla cosa in sé, ulteriore tempo e spazio, è possibile notare particolari passati inosservati a una prima occhiata percepire sensazioni interiori che illuminano differentemente ombre e colori dentro e fuori di noi.

Gli inganni ottici sono giochi di prospettiva che rendono bene questa idea. Negli stereogrammi, per esempio, si deve mettere diversamente a fuoco lo sguardo nell’apparente caos di colori e linee, per “vedere comparire”, come per magia, quell’immagine che non esiste affatto all’osservazione normale.

ESTENDERE IL CONFINE DELLA PERCEZIONE

Il termine percezione indica sia l’atto che l’effetto del percepire e è relativo tanto all’aspetto fisico quanto al mentale. È una parola ambivalente e dalle molteplici accezioni, anche se il suo uso è in modo particolare utilizzato nella filosofia e nella fisiologia. E non per caso.

La percezione è data da stimoli mediati sia dai cinque sensi fisici che dai loro corrispondenti sensi sottili. Pertanto è la percezione elaborata che definisce la realtà concepita da ciascuno. Come i cinque sensi fisici sono i sensori che mettono in contatto la coscienza con un mondo definito “esterno e materiale”, così i sensi che definiscono la percezione extra-sensoriale rilevano un mondo altrettanto tangibile tramite sensori dalla differente sensibilità, atti a sconfinare i limiti del primo gruppo.

Chi pratica delle tecniche, sviluppa naturalmente la capacità percettiva, solo che molte volte non ne è consapevole: non riconoscendola, non la esercita – non esercitandola, non la rafforza. Quando si comincia a prendere coscienza di uno stato percettivo, a volte già qualcosa è in atto e è questo qualcosa che va individuato, perché può diventare l’aggancio verso ogni altro sviluppo. È opportuno osservarsi per individuare la propria caratteristica peculiare o di partenza. Tutte sono disponibili, ma – all’inizio in special modo – una o due si mostrano più consone, facili o evidenti.

Per esempio, moltissimi, frugando nella memoria, hanno uno o più ricordi di manifestazioni o stati fuori l’ordinario, poi “dimenticati”. Invece di essere mantenuti nella consapevolezza del proprio vissuto, sono stati etichettati come stranezze accidentali oppure immaginazioni, rifiutati come inspiegabili o irreali, e dunque non riconosciuti come manifeste espressioni di se stessi. Queste esperienze andrebbero ri-vissute, ri-considerate e osservate per rintracciare i meccanismi che le hanno prodotte, cercando di individuare così quella capacità che stava tentando di uscire alla luce del sole.

ABBANDONARE ASPETTATIVA E GIUDIZIO

Ciò che può distrarre la persona dal riconoscimento delle sue capacità è l’aspettativa di una manifestazione eclatante e senza passi intermedi: cosa che in genere non succede a chi opera seguendo un percorso di sviluppo, dovuto appunto al modo di operare progressivo.

Molto si svolge in sordina, nella penombra, in un’area dove la razionalità non ha accesso, ma regnano creatività, imprevedibilità e irrazionalità. e è con questi tre aspetti della nostra natura che occorre entrare in confidenza al fine di nutrire l’espressione delle nostre caratteristiche particolari.

A un certo punto, infatti, non si tratta più di praticare tecniche per lo sviluppo dell’aspetto sensitivo e irrazionale in un “ambiente protetto”, ma di osare nel concreto. Tutti gli sforzi profusi nelle tecniche (aspetto razionale) possono essere inefficaci se non viene dato altrettanto spazio e attenzione a ciò che potrebbe svilupparsi (aspetto irrazionale). Portare alla luce quello che è latente significa trasferirlo nella quotidianità, perché è con il suo uso nella vita ordinaria che può rafforzarsi.

Per esempio, se sembra in via di sviluppo l’intuizione, rafforzarla significa dare credito a quei pensieri o quelle sensazioni che potrebbero provenire da questa facoltà. Certo, si può confondere come intuizione anche un pensiero campato in aria o un desiderio inconscio, ma – di fatto – non si conoscerà la qualità di ciò che ci è passato per la mente finché non l’avremo “manifestato”, rischiando anche grossolani errori e situazioni imbarazzanti. Il paradosso è che se non si mette alla prova quanto sta emergendo, se non gli si dà la possibilità di temprarsi nella manifestazione, non è possibile esercitare e affinare la percezione di ciò che è o non è. In questa fase può aiutare il non prendersi troppo sul serio.

Nello sviluppo della propria percezione, occorre abbandonare ogni forma di giudizio e valutazione dei risultati mentre si tenta di entrare in confidenza con questi aspetti dai contorni indefiniti. Letture sul tema e esempi famosi possono essere di stimolo e offrire spunti operativi, ma tenendo presente che, se l’avvenimento visto da fuori è quello che tutti sembrano osservare, rimane assolutamente individuale come questo è vissuto o sperimentato dalla persona che lo produce.

L’aspettativa e il giudizio poggiano e si determinano in base a dati esterni e, nell’affrontare lo sconosciuto, il conosciuto non ha più la valenza prevalente su cui si basa tutta l’esperienza del mondo “normale”. Solo la normalità ha parametri che la definiscono, al di fuori di essa i termini di paragone sono semplici misure approssimative.

IL TERZO È DATO

Il metodo scientifico poggia sulla “ripetibilità” dell’esperimento: alla logica necessita la ripetibilità per poter analizzare, verificare e confrontare ciò che le sta di fronte, e secondo questa visione solo ciò che è reiterazione rientra nei parametri di “realtà”. Di nuovo, questo concetto non è applicabile durante le fasi iniziali delle capacità latenti, che si generano nell’imprevedibile e nell’estemporaneo, sembrando soggette più alle leggi del caos che a quelle della logica.

La difficoltà nel definire la ‘qualità’ della propria esperienza, si deve proprio alla visione del mondo cui siamo esposti sin dalla nascita. La pretesa di conoscere in modo logico e lineare il perché e il come entra in conflitto con l’espressione della facoltà latente che per molti, all’inizio, è svincolata dallo spazio, dal tempo e – soprattutto – dal controllo cosciente.

Per esempio, molte volte queste facoltà si manifestano spontanee in momenti di necessità o pericolo, altre volte in stati di semi-incoscienza, altre ancora durante intensi sforzi fisici o mentali, cioè situazioni in cui si può dire che la logica e la razionalità ‘collassano’ o vanno ‘in tilt’. In queste occasioni ci si chiede chi o cosa abbia agito, vedendolo come un intervento esterno. In realtà è un avvenimento interno, cioè messo in moto da un aspetto di noi che non conosciamo solo perché nessuno ce l’ha mai presentato.

Lo sviluppo di una percezione ampliata si ottiene accettando volontariamente di “‘contenere” parte della propria razionalità per dare all’irrazionale e alla sensitività quella libertà molto temuta, probabile fonte di sviluppi imprevedibili. La nuova capacità nasce dalla continua interazione tra illogicità e razionalità, e non può formarsi esclusivamente da una delle due. Si genera quando questi due aspetti della mente umana sono entrambi maturi, sviluppati e utilizzati. Per quanto improprio, si potrebbe dire – a titolo di similitudine – che si forma un “terzo cervello”.

Questo terzo è dato e non condensa e non sovrintende i due da cui si è sviluppato: cioè non è una percezione che li riassume o li governa. Ciascuna modalità rimane distinta e autonoma: razionalità e irrazionalità conservano le loro caratteristiche e le loro competenze, mentre la terza modalità esiste a sè stante e provvede in modo autonomo e diretto al funzionamento della percezione extrasensoriale, delle manifestazioni ‘paranormali’ e altro. Chi ha (o ha avuto) modo di vivere una situazione o stato ‘anomalo’ può (o ha potuto) sperimentare questa completa autonomia, dove l’azione interviene direttamente, senza alcun coinvolgimento intellettuale, in assoluta libertà e perfetta conoscenza.

PER CONCLUDERE

Coloro che ci hanno preceduto in questo viaggio hanno sempre definito l’espressione delle facoltà latenti di secondaria importanza. Fare delle facoltà paranormali un indice di evoluzione spirituale è altrettanto limitante come pensare il mondo percepito dai cinque sensi fisici come realtà definitiva e immutabile.

Il desiderio di sviluppare la percezione può essere da sprone per esercitare tecniche i cui benefici si estendono nell’invisibile, ma pensare che le manifestazioni paranormali siano il massimo ottenimento è non avere ben compreso la grandezza della coscienza.

Tutto ciò che la mente umana può pensare come apice dell’esperienza, della comprensione e della conoscenza, è semplicemente un gradino di una scala infinita. La percezione extrasensoriale è utile per una comprensione più profonda e particolare del mondo comunemente inteso, predisponendo il riconoscimento degli aspetti e dei processi sottostanti e generanti la manifestazione, maschera visibile di realtà invisibili.

La percezione extrasensoriale, ben lungi dall’essere il punto d’arrivo, è semplicemente un altro strumento di indagine disponibile a un certo punto del cammino. Come il ricercatore scientifico utilizza e acuisce i suoi sensi/strumenti fisici per approfondire e estendere la conoscenza delle innumerevoli meraviglie del mondo fisico, così il ricercatore metafisico può utilizzare e acuire la sua percezione per vivere sempre più l’esperienza di quella Realtà che trascende i concetti culturali di normalità/paranormalità – regola/eccezione – ordine/caos, e la cui incommensurabile vastità e varietà si dispiega e si concentra nell’ “Esistere”.—

– Estendere i confini, 2

Il canale di comunicazione, Paola

31 domenica Mar 2019

Posted by Paola in Estendere i confini, Linguaggio, Paola, Percezione, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

≈ Commenti disabilitati su Il canale di comunicazione, Paola

Il canale di comunicazione, Paola (2005)

“Ho sentito dire che c’è una finestra
che si apre da una mente sull’altra,
ma quando non c’è parete
non c’è alcun bisogno
d’inserirvi una finestra o un chiavistello.”

Rumi

– – – – – – – – – – – – – –

La diffusione e la popolarità di messaggi canalizzati sta portando alla ribalta una potenzialità dell’uomo che spesso viene negata o relegata in ambiti più ristretti e controllati.

Molti considerano il channelling (canalizzazione) equiparabile alla medianità e il canalizzatore (canale o channel) al medium. Negli ultimi anni i due termini hanno assunto una sfumatura diversa, intendendo il medium la persona che si offre come mezzo di trasmissione perdendo totalmente o per buona parte coscienza di sé, mentre il canale o canalizzatore riceve e trasmette rimanendo cosciente. A causa della differenza tra questi due stati di coscienza, il medium – andando in trance – dà l’idea di non interferire con la trasmissione, mentre il canalizzatore si assume la responsabilità della traduzione, ed è questa particolare condizione che suscita in molti le maggiori perplessità. Nel contesto, una persona in stato incosciente sembrerebbe più affidabile di una cosciente.

Il channelling è ora portato all’attenzione da persone che trasmettono comunicazioni dalle più disparate provenienze. Questo fenomeno può essere studiato da molti punti di vista, ma ritenerlo un’alterazione della personalità o una frode per partito preso, è negare quella parte invisibile e fondamentale dell’uomo che, seppure ignorata o misconosciuta, è – secondo me – ben più preponderante dell’espressione fisica.

Coscienza e percezione espanse fanno parte dell’essere umano e, se non si mostrano in modo più comune, è solo perché si mantengono divise parti che in realtà dovrebbero essere parimenti sviluppate. Alcuni associano le facoltà paranormali, tra le quali certe forme di comunicazione, a un positivo grado di sviluppo spirituale. Poiché la letteratura sul tema riporta maggiormente casi di personaggi di una certa levatura, non pochi suppongono che queste manifestazioni riflettano l’integrità di chi le mostra, e quindi siano per se stesse una prova di affidabilità.

Da un certo punto di vista, entrare in contatto con dimensioni diverse non è necessariamente e direttamente collegato allo sviluppo spirituale, ma più semplicemente all’aspetto fisico, poiché l’azione oggettiva su questo piano si manifesta attraverso strumenti fisici. Infatti, ad esempio, c’è chi già nasce con particolari doti o chi se le ritrova a seguito di un trauma, chi ne ha pieno controllo e chi è in loro balia (con variazioni tra gli estremi). Infine, a qualcuno si sviluppano in un percorso di crescita globale.

SOGGETTIVITA’

Qualcuno associa la canalizzazione al passaggio di qualsiasi cosa proveniente dal mondo invisibile, sia che lo si intenda come subconscio della persona che come inconscio collettivo, forme pensiero, spiriti di defunti o entità di varia natura. Altri, invece, vedono in essa un nuovo modello di comunicazione spirituale ed accettano incondizionatamente che la nutrita serie di nomi esotici corrisponda ipso facto ad esseri illuminati e benevolenti di dimensioni “superiori”.

Quando si parla di comunicazione e di informazioni canalizzate, non si possono usare i criteri di valutazione di cui ci si avvale solitamente. Tutte le discussioni sull’affidabilità del canalizzatore, del materiale o della provenienza raramente hanno delle basi oggettive su cui porre od opporre testimonianze e prove.

La dinamica che più fortemente caratterizza il channelling è la soggettività. Soggettiva è la percezione di chi canalizza o dice di farlo,  soggettive sono le fonti dei messaggi – poiché a definirle sono i canalizzatori, e soggettivo è il materiale stesso, derivando dai precedenti. E in ultimo ma non ultimo, soggettiva è la risposta di chi si trova di fronte al materiale canalizzato, in quanto – alla fine – chi ne decide l’attendibilità o meno è colui che ascolta o legge.

Volendo, si potrebbe considerare questo materiale come ogni altra informazione di questo mondo: parziale e provvisoria, vera per alcuni e falsa per altri.

IL CANALE

Caratteristica di chi canalizza è il mantenimento di uno stato di consapevolezza durante la comunicazione, trovandosi in uno stato alterato di coscienza nel comune stato di coscienza di veglia. Se il medium diventa un mezzo nello stato di trance non sapendo chi e cosa sta comunicando, un canalizzatore è cosciente dei suoi differenti stati e percezioni.

Il channelling non è semplicemente un passaggio di informazioni, ma soprattutto l’affermazione dell’apertura di un canale di collegamento e comunicazione cosciente verso e con l’invisibile. In altre parole, il vero canale è quello che si apre tra la personalità fisica ed il suo aspetto invisibile, apertura che permette di veicolare le percezioni/informazioni tra i due come tra vasi comunicanti, dove il contenuto si miscela e si livella.

L’apertura di questa modalità di comunicazione determina un rapporto diretto tra la personalità fisica e le sue controparti invisibili che si manifesta principalmente e in modo particolare nell’intimo. Da un certo punto di vista, si può dire che si tratta di un atto di fiducia verso il Tutto, poiché annullando la separazione si permette l’ingresso di ciò che prima rimaneva ignorato altrove.

L’INVISIBILE

Alcuni sostengono che “l’uomo è un essere spirituale che ha esperienze terrene”, ribaltando così il concetto di uomo terreno che ha/ può avere/ persegue esperienze spirituali. Questa prospettiva attribuisce al corpo fisico lo stato di porta e strumento sulla dimensione fisica che permette a un essere spirituale di farne esperienza utilizzando parte della sua reale totalità espansa. In questa definizione risiede la capacità che ha l’essere nello stato di umano di co-esistere con tutta la sua totalità e nel contempo – tramite questa natura fondamentale – di partecipare e di entrare in contatto con le altre dimensioni dell’invisibile.

L’apertura del canale fa entrare in comunicazione la personalità umana sia con la sua diretta controparte invisibile sia con il proprio essere spirituale. Con questo si intende che nel flusso dell’invisibile che irrompe nella coscienza della personalità fisica, si muovono correnti celate ed ignorate, molte delle quali con difficoltà riconosciute come proprie.

Il mondo dell’invisibile che si dischiude non partecipa del tempo secondo il piano fisico, ma esiste in uno stato di a-temporalità che mischia e associa senza logicità umana ciò che è di tutto l’essere espanso. Pertanto, dovendo passare su un piano governato da leggi fisiche ben precise, le cose si organizzano secondo la natura di tale piano, cioè in un’aggregazione logica apparente. In questa situazione inusuale, la mente fisica della persona non di rado osserva come “altrui” ciò che invece è “proprio”, e che può provenire sia dalla sua personalità invisibile che dal suo essere spirituale espanso sulle diverse dimensioni di esperienza.

Inoltre, sia la parte invisibile che quella spirituale di ciascuno intrattengono costantemente dei rapporti con le realtà di cui essi stessi costituiscono parte integrante, per cui – grazie a questo rapporto – ci sono relazioni anche con invisibilità e spiritualità diverse dalla propria che possono, data l’attivazione del canale di comunicazione e l’assenza di confine, inter-agire a loro volta con il corpo fisico e/o la personalità.

RESPONSABILITA’

Il mondo invisibile è denso di tutto ciò che l’uomo immagina e non immagina possa esserci. Quali che siano i termini utilizzati nelle differenti culture, muoversi all’interno di esso senza lasciarsi sopraffare dalla consistenza delle coscienze che lo formano necessita di strumenti che salvaguardino l’individualità.

Il primo atto di responsabilità assunto da chi riconosce l’apertura del proprio canale è verso se stesso, in quanto tale stato può essere talmente dirompente da spezzare i legami di una personalità che, pure, ha il suo motivo di esistenza.

La centratura deriva primariamente dal conoscere se stessi, lavoro sempre in corso che fornisce l’ancoraggio utile a non perdersi nel gioco degli specchi. La centratura aiuta così la persona a gestire e gestirsi – e non ad essere gestita – perché fuori dal mondo fisico leggi e valori sono differenti e, quindi, l’interazione tra i mondi personali deve in qualche modo essere adattata al piano corrispondente, nello specifico quello fisico.

Il discernimento che si acquisisce coltivando la centratura, è uno stato di vigilanza che permette di vagliare il flusso dei dati. Aprire la porta comunicante è definitivo, ed illudersi di poterla richiudere per tornare a uno stato di “inconsapevolezza” significa in realtà lasciarla incustodita. Lo stato di vigilanza che dovrebbe caratterizzare chi si è aperto, favorisce il sottile riconoscimento di ciò che è proprio da quello altrui, poiché a questo punto pensieri ed elaborazioni possono sembrare “propri”.

Nella comunicazione tra i mondi si è responsabili in prima persona di ogni percezione raccolta, non importa quale sia la provenienza, essendo la responsabilità su questo piano di chi su questo piano agisce.

Il discernimento è particolarmente importante durante la percezione mentre la centratura pesa maggiormente nell’elaborazione del percepito. Poiché lo stato di coscienza che permette la percezione è definito alterato, cioè “altro” o “modificato” rispetto allo standard, così la trasposizione sul piano umano può incontrare una serie di filtri e strutture della personalità di cui spesso non si è consapevoli e che influiscono su integrità e chiarezza di percezione, elaborazione e trasmissione.

La qualità del collegamento e della percezione sono caratterizzati dall’integrità della persona e del suo stato di coscienza del preciso momento in cui questi avvengono. Supporre che questa apertura garantisca percezione e corretto trasferimento immutabili nel tempo, significa non tenere conto degli aspetti umani e contingenti che coinvolgono la personalità. Il continuo lavoro di raffinamento degli strumenti percettivi non garantisce di per sé la qualità della comunicazione, qualità che dipende in buona misura dal grado di consapevolezza della persona in quello specifico momento.

LA COMUNICAZIONE

Un’apertura più o meno consapevole del canale di comunicazione è più diffusa di quanto si pensi, ma – essendo spesso un processo ignorato o represso – molti pensano che si tratti di facoltà specifiche di un ristretto numero di persone, e non considerano la possibilità di stare già avendo accesso al proprio canale preferenziale, con tutte le potenzialità conseguenti. Accorgersi dell’apertura del canale di comunicazione comporta una presa di coscienza che non può essere ignorata.

Entrare in rapporto diretto con una parte di sé sconosciuta può modificare o anche (s)travolgere l’intera esistenza di una persona. I riferimenti esterni possono perdere di significato o caricarsene di totalmente diversi; i concetti acquisiti per educazione e cultura si mostrano come tali; i rapporti interpersonali assumono un carattere più ampio, riconoscendo negli altri non solo la personalità fisica ma la loro totalità; gli avvenimenti non fanno più parte di una vita terrena limitatamente intesa, ma sono riflessi e risposte che dall’invisibile si proiettano in questo mondo visibile; l’esistenza diventa agibile e fruibile su differenti piani di espressione, osservando ogni azione riverberarsi in onde che raggiungono orizzonti precedentemente nascosti alla vista.

All’interno di questa nuova realtà, colma di presenze e di differenti intendimenti, ciascuno sceglie la propria via d’azione in base a ciò che soggettivamente decide come opportuno per procedere su quel cammino che in passato seguiva indicazioni oggettive. In altre parole, aprendosi il collegamento e volendo passare all’esplorazione di mondi invisibili, cartelli e indicazioni sono nell’invisibile e, come succede visitando una regione sconosciuta, a volte occorre domandare informazioni agli abitanti del luogo ed anche, se è il caso, chiedere a qualcuno di far da guida.

LINGUAGGI E CONTENUTI

La comunicazione è condizionata dai mezzi utilizzati, siano essi strumenti tecnologici o apparati biologici. Il cervello umano traduce in termini di frequenze riconoscibili per la struttura di cui fa parte – e della quale è al servizio – qualcosa che di per se stesso è di altra natura: per esempio, traduce per il nostro corpo fisico alcune frequenza come gradazioni di calore, altre come suoni, altre ancora come colori, e così via, e per ciascuna frequenza utilizza differenti sensori e decodificatori pur facendo tutti parte del medesimo corpo. Ed ecco, poi, che alcune persone vedono i suoni, altre hanno la percezione tattile dei colori ed infine c’è chi vede e sente cose che nessuno intorno riesce a cogliere. Le capacità di ricezione ed elaborazione del cervello umano sono poco conosciute, soprattutto quando osservate fuori da una cosiddetta ‘normalità’.

La trasposizione in linguaggio e contenuto di una comunicazione di natura strettamente personale è molto individuale, potendo anche dire che – a un certo livello – questa comunicazione diventa una comunione, senza movimento da … a …, proprio come nei vasi comunicanti, dove la variazione in uno dei due comporta un’istantanea ed identica rispondenza nell’altro.

Questa dinamica coinvolge anche chi canalizza per altri. Si potrebbe dire che chi legge o ascolta comunicazioni canalizzate, osserva solo quello che fuoriesce dal vaso fisico e non l’essenza (eventualmente) immessa. Quindi, il contenuto prodotto e veicolato durante la canalizzazione può essere commisto al materiale personale di chi lo ha percepito, cioè risente non solo della sua cultura, esperienze di vita, preferenze ed interessi – ma anche del livello di centratura, discernimento ed integrità che vive. A volte, questo si mostra in modo palese quando più persone affermano di canalizzare la medesima entità.

L’OSSERVAZIONE

Centratura, discernimento e integrità sono qualità che occorrono non solo a chi ha il proprio canale aperto, ma anche a chi entra in contatto con messaggi canalizzati. Come il canalizzatore utilizza questi strumenti per mantenere la consapevolezza della propria esperienza con l’invisibile, così dovrebbe essere per chi si trova di fronte a materiale canalizzato, essendo il rapporto di responsabilità che intercorre in questo successivo passaggio di informazioni identico, seppur traslato di piano.

Come il grado di consapevolezza e di coscienza di un canale definisce la qualità del suo contatto con l’invisibile, così la qualità del canalizzatore e di quanto espone è definita dal grado di consapevolezza e di coscienza di chi legge o ascolta.

La comunicazione con l’invisibile è una realtà aperta a tutti, anche per chi non ne è consapevole, pertanto la pulizia degli strumenti di percezione e lo sviluppo di centratura, discernimento ed integrità non è responsabilità particolare di qualcuno ma di ciascuno, non importa a quale mondo si rapporti.—

– Estendere i confini, 4

Coincidenza di linguaggio, Paola

11 martedì Set 2018

Posted by Paola in Estendere i confini, Paola, Percezione, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

≈ Commenti disabilitati su Coincidenza di linguaggio, Paola

Coincidenza di linguaggio, Paola (2005)

“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo.” 

Wittgenstein

– – – – – – – – – – –

L’idea comune vede nel linguaggio (verbale, corporeo, musicale, visivo, etc.) il mezzo per il trasferimento delle informazioni dando per scontato che l’appartenere a una specifica cultura o gruppo garantisca la corretta comunicazione.

Quello che si nota a una più attenta osservazione è che nel passaggio da emittente a ricevente spesso avviene una distorsione, se non una perdita, dell’informazione originale. La complessità e le variabili sono tali da determinare in alcuni l’idea dell’incomunicabilità di qualsivoglia informazione. Se questo è un problema nella comunicazione interpersonale in ambito sociale, a maggior ragione sembrerebbe esserlo nell’acquisizione di ciò che si definisce “conoscenza spirituale”.

Ciò che s’intende come spirituale, è una conoscenza alla quale l’uomo sa – in modo innato – di poter accedere, pur percependola come superiore e immanente. Nonostante l’aggettivo “spirituale” abbia un significato ben preciso, succede che – a volte – questa conoscenza non venga considerata come il termine esplicitamente intende, ma affrontata come una qualsiasi materia accademica, trasferibile per via discorsiva o logica, supponendo che una mente allenata e un pensiero educato siano i requisiti necessari.

LA DIMENSIONE DELLA TRASMISSIONE

Il messaggio spirituale rimane nella sua integrità solo restando nella sua dimensione – cioè quella spirituale – pronto a fluire in chi è in grado di riceverlo avendo raggiunto quello stesso piano. Come una radio riceve il segnale solo se sintonizzata sulla frequenza del segnale stesso, così la conoscenza spirituale è ricevibile quando ci si sintonizza sulla sua frequenza d’origine. Quello che si può incontrare sul piano fisico non è una conoscenza o un messaggio spirituale in sé completo ma semplicemente un rimando, un’icona sul desktop inadeguata a esprimere la vastità di cui è segnale.

A volte dimentichiamo che ogni registrazione di conoscenza spirituale con cui si entra in contatto è il tentativo di esprimere qualcosa che, per sua natura, non è confinabile nella limitazione di una forma linguistica e, quindi, dei suoi derivati. Parole e suoni, immagini e visioni, per quanto ricche e dettagliate, sono tracce imperfette che, come vaghi accenni, possono anche confondere ed essere confuse.

La conoscenza, nel suo proiettarsi sulla dimensione fisica, inevitabilmente coinvolge mente e cuore, poiché diversamente non vi sarebbe presa di coscienza e nessun desiderio di approfondimento, ma fermarsi alla comprensione intellettuale (per quanto vasta) e al coinvolgimento emotivo (per quanto intenso) non è centrare lo scopo. L’indagare e frugare significati e associazioni mentali, carichi dell’emozione di un viaggio “pre-fissato”, predispone a una comprensione intellettuale che non garantisce la conoscenza di quello che si sta affacciando.

LA DIMENSIONE DELLA RICEZIONE

La dimensione dove si può raccogliere pienamente la conoscenza spirituale è il suo piano d’esistenza, il piano spirituale. Chi aspira a riceverla deve portarsi coscientemente in quella dimensione dove la mente e l’emozione assistono e registrano senza intervenire, permettendo – nella loro passività consapevole – di essere invase e sensibilizzate a una percezione sempre nuova.

La conoscenza spirituale volge direttamente alla parte spirituale dell’individuo, quella parte immensamente più estesa di quanto è in grado di concepire una mente ancora priva di esperienze trascendenti, quella sola in grado di accogliere e di elaborare pienamente l’intensità dell’esperienza. L’impressione che sul piano fisico viene riconosciuta in termini di pensiero e di emozione, sul piano spirituale è uno stato d’essere dell’essere, in cui le identità dell’osservatore e dell’osservato sfumano nella fusione.

Portarsi nella propria dimensione spirituale libera dai limiti della realtà di consenso e anche dall’idea che si ha dei termini, poiché ciò che non deriva dall’esperienza diretta è una costruzione che, confrontandosi con l’aspettativa, ci auto-preclude a quella conoscenza travolgente e non-intellettuale che è la dimensione spirituale.

Raggiungere lo stato dove si perdono i limiti dei riferimenti acquisiti intellettualmente, significa aprirsi alla vastità di noi stessi per scoprire quella conoscenza già appresa che difficilmente riconosciamo nell’attuale singola personalità con cui ci identifichiamo.

IL LINGUAGGIO DEL GRUPPO

Ci sono due linguaggi particolari che – spesso – vengono tra loro confusi o equiparati: quello utilizzato del gruppo d’appartenenza e il linguaggio personale.

Pur riconoscendo la conoscenza spirituale come universale, senza confini e proprietà, una volta che si procede alla sua trasposizione, l’illimitato viene limitato e caratterizzato. La conoscenza veicolata nel gruppo è una “trasposizione” nella forma comunicativa del piano umano di stati esistenti sul piano spirituale.

Ora, un’organizzazione sul piano fisico non può trasferire alcuna conoscenza spirituale a nessuno, può solo indicare l’esistenza e la fattibilità di una tale esperienza e allenare la persona al suo (della persona) raggiungimento. Questo per quanto anticipato, cioè che la conoscenza spirituale coincide con l’esperienza per chi – per affinità o capacità – la vive riportandone segno indelebile.

Il corpus degli insegnamenti del gruppo non ha la sua ragione d’essere nel trasferirsi pari-pari da una persona a un’altra, ma è lo strumento utilizzato per allenare l’individuo a espandersi consapevolmente nel suo stato spirituale, e grazie a questo sviluppo riappropriarsi della propria capacità di sperimentare. Il concetto è che se uno non vive la propria dimensione interiore sperimentando dentro di sé la sua reale esperienza/conoscenza, difetta dello strumento specifico che gli permette automaticamente l’ampliamento successivo. Come dire che se vedo, vedo e se non vedo, non vedo – non importa cosa ho sotto gli occhi.

Nel riconoscere che gli insegnamenti non sono la conoscenza ma sono solo gli strumenti che allenano a raggiungerla, ci si rende conto che il linguaggio utilizzato nel/dal gruppo è ugualmente uno strumento. Per esempio, in matematica si insegna a svolgere calcoli utilizzando lettere al posto di numeri. Il principio sottinteso è che attribuendo alle lettere un determinato valore il risultato sarà conseguente. Questi esercizi non intendono risolvere nulla di tangibile, essendo il loro scopo allenare la mente a riconoscere, impostare e risolvere problemi della più varia natura: grazie a questo apprendimento in astratto, quando le lettere si trasformano in valori che rappresentano una realtà concreta, l’architetto erige costruzioni di ogni genere mentre l’ingegnere e il fisico lanciano satelliti nel cosmo.

Allo stesso modo concetti, musiche, esercizi e pratiche che sembrano la conoscenza da apprendere, sono i mezzi utili per l’allenamento, sono – nella loro apparente consistenza – le astrazioni che vanno sostituite dall’indicibilità dell’esperienza.

IL LINGUAGGIO PERSONALE

Concomitante è il riconoscere il proprio linguaggio personale, cioè il significato che si attribuisce interiormente alle parole ascoltate o proferite. Molto spesso si ragiona sul significato di concetti e termini senza aver adeguatamente indagato sui collegamenti mentali e le emozioni che determinate parole – concetti o immagini – suscitano dentro di noi per se stesse. Il linguaggio personale si può intendere come quell’intima associazione che lega la parola-significato all’emozione-vissuto in una connessione indissolubile, spesso inconscia.

La costruzione del linguaggio avviene principalmente in famiglia e all’interno di un ambiente sociale legando il significato dei termini al vissuto. In seguito, quando si incontra un insegnamento o si entra in un gruppo, ci si conforma a un linguaggio dove i significati possono assumere differenti sfumature che, nonostante la comprensione intellettuale, permangono secondarie a quelle acquisite per prime. Per fare un esempio, sembra che nel bilinguismo in cui la seconda lingua è acquisita in tempi successi alla lingua madre, le aree cerebrali preposte alla comprensione di ciascuna lingua non sono vicine e avviene una “traduzione” da area a area, cioè da lingua a lingua. Nel bilinguismo acquisito durante l’infanzia le aree cerebrali della comprensione sono sempre distinte per ciascuna lingua ma tra loro adiacenti, e qui non c’è “traduzione” ma un’immediata comprensione, cioè ogni lingua viene gestita in completa autonomia essendo le peculiarità di entrambe completamente interiorizzate.

Il linguaggio personale è quel linguaggio intimo che ciascuno di noi usa inconsciamente, che da un lato si esteriorizza con un vocabolario e delle immagini comuni e dall’altro s’interfaccia con la propria speciale interiorità. È una lingua nascosta a qualsiasi percezione, spesso anche a quella della persona stessa. Questo tipo di linguaggio va distinto, osservato e compreso nel suo duplice aspetto, poiché in esso è possibile rinvenire una chiave di comunicazione tra le nostre dimensioni esteriori e interiori non solo di linguaggio, ma anche nella trasposizione di tutto ciò con cui si entra in contatto e che ci impressiona.

IL LINGUAGGIO DELL’ESPERIENZA

L’esperienza spirituale è uno stato dell’essere che non contempla la comunicazione per il semplice fatto che non c’è separazione delle parti e, quindi, necessità di comunicazione tra le stesse: tutto/tutti istantaneamente/totalmente si è, non essendoci spazio neppure per il pensiero. Poiché si realizza su un piano privo di attributi, colui che sperimenta mentre ancora partecipa di un corpo fisico trasferisce automaticamente secondo il grado di consapevolezza e sensibilità che dispone, per cui l’esperienza si converte in parte in qualcosa che lascia traccia nella mente e nel cuore, e a volte nel corpo fisico stesso (guarigioni, modificazioni fisiche).

Il linguaggio coinvolto in questo processo è il linguaggio personale in quanto – pur essendo l’esperienza disponibile per chiunque – rimane specifica per la persona che l’ha colta e vissuta, che non può che tradurla/ridurla a (e per) se stessa. In questo processo di consapevolezza, la frase di Wittgenstein è pertinente: per quanto l’esperienza spirituale sia sempre completa nella sua dimensione, la sua impressione sul piano fisico viene limitata dalla sensibilità percettiva che ognuno ha della propria parte spirituale, che pure partecipa della dimensione in toto. Per cui non esistono livelli e dimensioni spirituali (attribuzione quantitativa e qualitativa umana), ma livelli e dimensioni di percezione di chi esperisce.

Saper ascoltare, parlare e leggere il proprio linguaggio personale collega direttamente all’esperienza spirituale che esiste dietro – e si manifesta in – ogni avvenimento visibile. Infatti, la dimensione spirituale non è localizzata in confini, ma si è ‘separati’ da essa solo dalla limitazione percettiva. Essere padroni del proprio linguaggio interiore dispiega un’interazione con l’invisibile, permettendo di cogliere la natura più profonda di quanto si esprime nel visibile e così individuare le correlazioni e le influenze che si manifestano nella nostra vita in qualsiasi tipo di forma (insegnamenti, concetti, immagini, sogni, avvenimenti, incontri, coincidenze, etc.).

L’interpretazione di questo linguaggio è impegno del soggetto perché, pur essendoci un’apparente somiglianza nel visibile che induce a attribuire significati comuni, questa comunanza è legata sempre a una osservazione esterna e non dell’essere interiore, cioè il creatore del proprio linguaggio.

OLTRE IL LINGUAGGIO

Chi ha avuto consapevolmente un’esperienza spirituale – non importa di quale natura e intensità – riesce a riconoscere la stessa esperienza nel linguaggio personale di un altro che l’abbia raggiunta, non importa quanto diverso, incomprensibile e stravagante possa sembrare al resto del mondo. La comunicazione tra chi ha vissuto (o vive) l’esperienza spirituale oltrepassa sia gli aspetti esteriori che interiori di un linguaggio personale per stabilirsi sulla dimensione dell’invisibile, dove la comprensione non poggia più sul piano della manifestazione – con tutte le sue particolari sfumature intellettuali, emotive e psicologiche (che permangono e proseguono nella personalità fenomenica) – ma avviene nella dimensione priva di barriere dove “tutti i linguaggi svaniscono coincidendo”. Potendo ben affermare:

“I limiti del mio linguaggio non sono i limiti del mio mondo“.

————–

 – Estendere i confini, 3

Le Tecniche – Strumenti di auto-conoscenza e auto-sviluppo, Paola

21 mercoledì Mar 2018

Posted by Paola in Estendere i confini, Paola, Percezione, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

≈ Commenti disabilitati su Le Tecniche – Strumenti di auto-conoscenza e auto-sviluppo, Paola

Le Tecniche – Strumenti di auto-conoscenza e auto-sviluppo, Paola (2004)

Qui non si tratta di imporre un punto di vista ma di comunicare un metodo di cui ognuno si avvarrà a suo piacere come di uno strumento.
– Goethe

– – – – – – – – – – –

Le Tecniche esistono da quando esiste l’uomo, e ogni aspetto della vita trova disponibile una serie di tecniche per la sua miglior gestione. Pur sembrando “artifici”, in realtà le tecniche sono produzioni spontanee di supporto, nate dall’esperienza di uomini desiderosi di semplificare o di ottimizzare un processo, rendendolo poi disponibile altri.

Ormai siamo abituati a essere forniti di tecniche. Fin dall’infanzia ci viene insegnato il “metodo migliore per …” e meccanicamente facciamo nostri procedimenti e scorciatoie. In breve tempo otteniamo risultati che – prima che la tecnica venisse ideata – richiedevano ben altro impegno.

A prima vista, questo modo di procedere sembra rendere schiavi della fretta e del risultato, con conseguente perdita della creatività e cecità alla ricchezza dei particolari. Parlare quindi di Tecniche a favore della consapevolezza può sembrare contraddittorio.

La consapevolezza è uno stato naturale, solo che l’uomo, per la maggior parte del tempo, tende a farsi catturare dalle meraviglie del mondo esterno, ignorando se stesso fin quando non sente la necessità di tornare a conoscersi.

Amo definire le Tecniche come specchi, strutture e catalizzatori: dove questi tre aspetti si legano strettamente in un unico insieme.

Tralasciando l’elencazione di tecniche e caratteristiche, parto dal presupposto che chi legge abbia una qualche concreta esperienza in merito e, di conseguenza, ben sappia cosa e perché stia praticando, o cosa e perché abbia smesso di praticare.

Un aspetto che ritengo importante è l’uguaglianza del valore delle Tecniche: non c’è una Tecnica migliore di un’altra. La qualità del risultato è in mano al praticante. Questo può sembrare scontato ma non lo è, perché non tutte le Tecniche sono per tutti. Con questo non intendo le abilità personali (migliorabili) o la difficoltà intrinseca (superabile), ma proprio la “compatibilità” tra praticante e pratica: avere delle preferenze significa conoscere, rispettare e valorizzare il proprio “essere”.

A prescindere dalle classificazioni – fisiche, mentali, psicologiche, energetiche o quant’altro -, la pratica di una tecnica coinvolge in realtà tutti gli aspetti della persona. Questo perché l’uomo è sempre nella sua totalità, frammentato solo perché in tal modo vuole considerarsi. Le nuove scienze stanno ora scoprendo (con strumentazioni sofisticate e sensibili) le sottilissime ma forti interconnessioni mente-emozione-corpo-emozione-mente-corpo, circolo ininterrotto di scambi e comunicazioni. Aspetti sinora ignorati o sottovalutati che riserveranno notevoli sorprese in futuro.

TECNICHE E FILOSOFIA (PASSATO – PRESENTE – FUTURO)

Molti arrivano a praticare delle Tecniche perché hanno abbracciato una Scuola di Pensiero. Se vogliamo analizzare, anche chi pratica aerobica e body-building sta abbracciando una filosofia.

Chi ha avuto modo di girare di scuola in scuola, di palestra in palestra, ha una chiara idea della diversità-uguaglianza delle tecniche proposte. A volte ci si trova di fronte a tecniche che di nuovo hanno solo il nome, oppure definite innovative solo per piccoli differenti particolari, quando poi non sono altro che miscellanee di diversa provenienza e cultura.

Questo variegato mondo di proposte lascia in genere perplessi e fa scaturire interrogativi, dubbi e aspettative: funzionerà? – farà male? – sarà più efficace? – avrà controindicazioni? – sarò capace? – che garanzia ho che … ? – aumenterà la mia energia? – diventerò telepatico? – vedrò l’aura?, e così via … Come districarsi? A chi chiedere o credere?

Ogni Tecnica è nata in un luogo e in un’epoca: chi l’ha ideata è figlio del suo tempo e fratello dei suoi contemporanei. Sono prodotti di-e-in quel presente. Quello che ha senso ed efficacia in un contesto, variate le variabili – le condizioni spazio/tempo – può anche differire nella sua espressione …

Non penso che gli uomini siano “sempre uguali” a se stessi e, soprattutto, non c’è un uomo uguale a un altro. C’è chi crede che quello che si è acquisito può esser dimenticato ma non perduto, e la scienza conferma quanto siano differenti la mente e il fisico dell’uomo attuale rispetto a pochi decenni fa: non ultimi per gli stimoli ambientali e sociali con cui ci confrontiamo, e per la differente concezione di sé che l’uomo moderno occidentale vive. Le modifiche, più che opportune, sono spesso indispensabili.

La tecnica funziona non per la filosofia da cui è scaturita, ma perché agisce concretamente su alcune leve dello strumento umano. Ed è pur vero che le convinzioni personali sulla sua efficacia o non efficacia influiscono parimenti sul risultato. L’energia segue il pensiero portandone il colore, quindi la tecnica contiene un valore sensibile “attivato” o “disattivato” dal praticante e, parimenti, il praticante detiene quel valore sensibile – il pensiero – che attiva o disattiva la tecnica. L’intensa convinzione personale sulla correttezza della filosofia in cui è inserita la propria pratica è per molti garanzia di successo. E infatti, così è.

TECNICHE – STRUTTURE FUNZIONALI

Le Tecniche possono essere considerate delle strutture funzionali, in quanto nascono per uno scopo. Intendendo con questo che sono un mezzo e non un fine.

L’esecuzione della tecnica porta dei risultati “dentro” la persona, e questi risultati si riconoscono quando manifestati “fuori”. Lo scopo non entra nel merito di quanto bravi si è “a fare”, ma in ciò che “si sviluppa” nel fare. Le Tecniche sono strumenti di cui l’uomo dispone non per diventare qualcosa ma per manifestare chi già è e cosa già ha.

L’esercizio può solo portare alla luce le potenzialità più o meno espresse della persona. Praticare pensando di “diventare come …” è un pre-concetto limitante che può generare frustrazione, disaffezione e, infine, senso di fallimento o incapacità: esattamente il contrario di quanto ci si era preposto. Le tecniche correttamente utilizzate portano piacere, serenità e fiducia in se stessi.

Da qui nasce la necessità di trovare o scegliere una serie di tecniche che permettano lo sviluppo naturale e armonico delle caratteristiche individuali. Attraverso la pratica una persona impara essenzialmente a conoscersi: conosce i non-limiti del proprio corpo, le potenzialità sotto-utilizzate della propria mente e la forza motrice delle proprie emozioni. Proprie, e non di altri. Praticare una o più tecniche, simultaneamente o ciclicamente, permette di entrare in confidenza con il proprio essere più profondo, e scoprirlo immenso e stupefacente.

Le Tecniche si presentano con uno scopo principale manifesto diramandosi poi in molteplici realizzazioni “secondarie” – spesso non valorizzate o persino ignorate. Nulla che viene fatto rimane isolato, ma si riverbera – come un’eco nello spazio – colpendo di riflesso molte pareti. Chi pratica tecniche fisiche ne scopre i benefici in termini di maggiore lucidità e presenza mentale, rilassatezza e disponibilità verso il prossimo. Lo stesso vale per chi ama meditare e visualizzare: scoprendosi fisicamente rilassato e attivo, emotivamente equilibrato. E non è raro, affrontando tecniche di stampo psicologico, ritrovare la scioltezza del corpo.

La struttura è sempre funzionale a ciò che deve supportare. Per quanto il termine struttura tenda a essere associato all’idea di rigidità, deve prevedere invece una certa flessibilità, diversamente mancherebbe lo scopo. Lo scopo della struttura non è di bloccare ma favorire, cioè sostenere o impostare qualcosa che ha una necessità temporanea per potersi sviluppare correttamente e poi auto-reggersi. Una casa ben costruita non conserva indefinitamente ponteggi e impalcature; così pure la pianta inizialmente sorretta da un tutore giunge, prima o poi, a svellerlo.

Senza negare la sempre più sottile efficacia di molte tecniche con il passare del tempo, entrare in confidenza con la propria tecnica, significa anche avere una così intima conoscenza del processo interiore da sentirsi liberi di adattarla o sostituirla alle nuove esigenze che vanno proponendosi. Infatti, poiché alla pratica consegue un cambiamento, il lavoro può solo procedere riconoscendo il nuovo stato e, con questo e su questo, continuare e affinare. Anche qui, come sempre, il discernimento individuale è la misura per ogni cambiamento.

PRATICA – INDIVIDUALE E DI GRUPPO

Molte tecniche si possono fare sia individualmente che in gruppo. C’è chi predilige un modo, chi l’altro. È differente la sensazione o l’espressione che se ne può avere. Una modalità non è meglio dell’altra e ciascuna offre e rivela differenti opportunità e auto-percezioni ai praticanti. La preferenza rimane un fattore individuale.

È sensazione comune che il gruppo potenzia l’espressione acuendone l’intensità. Ci sono molti modi per osservare il tipo di energia che si sviluppa in un gruppo, ma trovo bello il senso di unità e di concretezza che tale lavoro lascia. Per esempio, nel gruppo si crea una maggior energia della somma delle parti, energia che permane nei singoli per il lavoro individuale anche a distanza di tempo: è per questo che il ritrovarsi periodico tende a favorire il successivo lavoro personale. Inoltre, con quelle tecniche che prevedono la condivisione dell’esperienza, tra i partecipanti emergono incredibili coincidenze e similarità, denominatori comuni che si riflettono all’elaborazione di ciascuno.

Gli stessi effetti sono spesso percepiti, da chi è più sensibile e aperto, anche quando il gruppo non si ritrova fisicamente nello stesso luogo, ma si dà un “appuntamento nel tempo” ignorando lo “spazio”. Così, chi non ha l’opportunità di ritrovarsi in un gruppo definito, può sempre sintonizzarsi con tutti quelli che al momento stanno praticando quella tecnica. Il mondo è pieno, giorno e notte, di gente che pratica: una percezione consapevole riconosce il non esser mai soli.

La pratica individuale ha dalla sua una maggiore libertà di risposta. Può apparire meno coinvolgente e a volte risulta più faticosa, ma lavora sull’esatta vibrazione dell’individuo. È un rapporto 1:1, dove la persona è circondata dalla sua energia e si permette di gestire in autonomia i propri stati e tempi interiori, lasciando affiorare sensazioni più direttamente collegate all’essenza personale.

Nel lavoro individuale a volte si tende a giudicare criticamente l’esperienza effettuando paragoni vari. Sono giudizi inutili: non ha senso standardizzare le aspettative o i risultati. Le tecniche agiscono su dei livelli così sottili e profondi da risultare inavvertiti alla consapevolezza ordinaria. Spesso chi ha avuto in prima battuta la sensazione di una pratica poco soddisfacente, nota in seguito l’emergere “a scoppio ritardato” di un’esperienza inattesa.

L’esercizio della tecnica è per sua natura nuovo e originale ogni volta, perché è la persona a essere ogni volta differente. Ed è con tale predisposizione al nuovo che ci si apre alla scoperta e all’apprezzamento delle differenze oltre che delle somiglianze; è con questa attenzione libera da condizionamenti che diventa visibile ciò che tende a scivolare nell’inosservato.

AUTO-CONOSCENZA E AUTO-SVILUPPO

Le tecniche hanno la funzione di catalizzatore della presa di coscienza individuale e sono come specchi interiori che rimandano all’osservatore la sua immagine. Non c’è nulla che sia aggiunto o tolto all’essere della persona. La tecnica contribuisce all’auto-riconoscimento, cioè il riconoscimento di sé. Il confronto tra ‘quanto si fa e quanto ritorna’ non deve essere visto come indice di successo o di fallimento, ma di una comprensione di se stessi che va ampliandosi.

Non si tratta di trovare motivazioni – per esempio: “perché la tecnica con me non funziona?” oppure “perché non mi riesce di …?”-, ma di osservare la risposta mediata dalla pratica, sia durante la tecnica stessa sia durante l’attività quotidiana. Qualsiasi tecnica si basa e prende come oggetto di lavoro un aspetto già presente in noi e nella nostra vita – in altre parole, si può lavorare solo su qualcosa che già c’è. E in realtà c’è già tutto, basta rendersene conto.

L’auto-riconoscimento porta in modo naturale all’auto-sviluppo perché viene spontaneo agire, a fronte di precise comprensioni, come detta la nuova visione.

Il prendere coscienza di sé è un momento particolarmente delicato e importante, e proprio per questo può creare timori e turbamenti. Questa presa di coscienza prevede una tale assunzione di responsabilità nei confronti di se stessi, della propria vita e del proprio cammino, che molti preferiscono a questo punto abbandonarsi, affermando di non essere ancora pronti.

L’auto-sviluppo prevede la responsabilità e l’autonomia, impegni che spesso si assumono più verso l’esterno che verso l’interno, più nei confronti di altri che nei propri. Lo sviluppo armonico non prevede uni-direzionalità, ma espansione equilibrata ed equilibrante.

LE TRE CONSAPEVOLEZZE DELLA PRATICA

Le Tecniche hanno principalmente come scopo la scoperta della consapevolezza. Costantemente gli istruttori dirigono l’attenzione su cosa si sta facendo, come si sta facendo, quali parti sono interessate – il respiro, il movimento, il pensiero, l’emozione. Eseguire una pratica consapevolmente è un raggiungimento non da poco, pur essendo spesso solo un attimo fuggevole.

Volendo definire tale consapevolezza, la si potrebbe esprimere come meccanica – consapevole – applicata.

La Consapevolezza Meccanica: l’automatismo, la correttezza formale, l’abitudine, il dover o voler fare: l’orologio.

La Consapevolezza Consapevole è altrettanto chiara: quella che viene in genere richiesta e auspicata, percezione delle parti e del tutto – l’insieme : l’orologiaio.

Ci si accontenta, o si mira semplicemente, all’essere orologiaio (già apprezzabilissimo risultato) perché la terza consapevolezza è quella che generalmente sfugge: la Consapevolezza Applicata. Usare l’orologio per leggere l’ora.

Lo scopo della tecnica è realizzare qualcosa di pratico. Che senso ha sviluppare i muscoli mancando poi di aiutare a portare un peso? Che senso ha osservare il respiro, il pensiero, le emozioni in mezz’ora di meditazione o in una seduta di rebirthing, se quella stessa attenzione si spegne come la lampada nell’uscire dalla stanza?

Tutte le pratiche, tutte le tecniche, sono attrezzi usati per sperimentare e allenare il riconoscimento di quella consapevolezza che già c’è nella vita di tutti i giorni: ed è nella vita di tutti i giorni che l’essere consapevoli ha la sua ragione d’essere.

Praticare una tecnica è solo un frammento di spazio/tempo che ferma il riflesso di quello che “già sono-già ho”, è un momento di riconoscimento che ci si prende per abituare “noi a noi stessi”, sono attimi per staccarci dall’automatismo e allenarci a gestire aspetti di noi di solito trascurati, e nell’esperienza di questi preziosi istanti riconoscerci, apprezzarci, rivalutarci e trarre l’energia per vivere la consapevolezza che già abbiamo, perché è questo il tipo di consapevolezza, o di coscienza, che ci distingue.

UN PASSO OLTRE

Chi pratica le proprie tecniche con piacere e libero dai rigidi dettami dell’aspettativa propria o altrui, prima o poi giunge a scoprire qualcosa che neppure sapeva di avere/essere. Ci sono sfumature, nell’esperienza umana, che valicano di molto la semplice fisicità. Ci sono aspetti che non toccano la vita quotidiana, ma che cambiano la visione che se ne ha. Una pratica costante e rilassata, non rigida e forzosa, col tempo regala sensazioni più sottili ai cinque sensi, al pensiero e all’emozione, trasformando la percezione che si ha del solito mondo in un “mondo speciale”.

È ormai accertato che molte tecniche inducono a degli stati di coscienza definiti “alterati”. Chi non ha avuto un’esperienza diretta, a volte li suppone come una sorta di intontimento e vacuità: nulla di più estraneo, è esattamente l’opposto. Lo stato di coscienza che va sviluppandosi prevede maggiore sensibilità agli stimoli più sottili ed evanescenti, ma senza perdere il contatto con il mondo fisico definito “materiale”. Per esempio, le intuizioni avvengono in questo stato parallelo all’attività della veglia.

CONCLUDENDO

Riprendendo i tre termini che mi sono sembrati meglio sintetizzare i loro molteplici aspetti, le Tecniche sono:

*specchi – che rimandano in mille riflessi immagini di noi stessi nelle nostre differenti forme, capacità e potenzialità, permettendo all’osservatore di osservare e conoscere se stesso.

*strutture – funzionali con il potenziale dello sviluppo e dell’adattamento.

*catalizzatori – che stimolano risposte inespresse giacenti nella totalità dell’essere Essere Umano.

Nell’esercizio si va a ri-svegliare l’essere percettivo, in quanto l’osservazione degli stati fisici, emotivi e mentali, fa scattare anche il riconoscimento di chi sta percependo tali stati.

Parlare delle Tecniche è parlare dell’Uomo, perché sono nate dall’uomo e per l’uomo. Come l’uomo sono sempre uguali e nel contempo diverse, si adattano all’ambiente e alle necessità, si sviluppano e migliorano, si moltiplicano e caratterizzano, si mettono alla prova e correggono, si trasformano e si inventano.

Praticare delle Tecniche è un atto creativo su molti piani di coscienza e livelli di comprensione, e permette di vivere e ammirare più profondamente le meraviglie anche di quella parte della Creazione che siamo Noi. —

– Estendere i confini, 1

Elementi di divinazione, Paola

05 giovedì Gen 2017

Posted by Paola in Estendere i confini, Paola, Percezione, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza, Tempo

≈ Commenti disabilitati su Elementi di divinazione, Paola

ombra-della-seraElementi di divinazione, Paola

Se volete sapere dove vi trovate, domandatelo ai non-locali. 

–  M. Talbot, Tutto è Uno

 – – – – – – – – –

Con questo scritto mi piacerebbe portare un contributo per ravvivare l’arte della divinazione soprattutto a livello personale, perché penso che mai come in questi tempi frettolosi, tecnologici e quasi insensibili alle pause, all’osservazione e alle sfumature, questa pratica possa ricollegarci a noi stessi e alla nostra realtà personale. Conoscere ciò che non si sa o non si comprende è da sempre uguale, le mantiche e gli strumenti per raggiungerlo sono da sempre diversi. Non è mia intenzione entrare nello specifico dei tipi di mantica, poiché la scelta dipende dalle inclinazioni personali e dal contesto culturale; piuttosto, vorrei soffermarmi su alcuni elementi comuni e un’esperienza personale di metodo, consapevole che l’argomento ha spazi di esplorazione ben più vasti.

La divinazione è una pratica che accompagna l’uomo fin da quando ha cominciato a riflettere su di sé e sul suo rapporto con i suoi simili, il suo ambiente e le forze misteriose alle quali si vedeva soggetto. Oggi l’uomo moderno con fatica accetta l’idea di qualcosa di più vasto in cui è inserito e di cui fa parte, o che sia oltre la sua comprensione. Dopo secoli di visione meccanicistica del mondo, alcuni scienziati stanno ora proponendoci la teoria dell’Intelligent Design (letteralmente, Progetto Intelligente), secondo la quale: «alcune caratteristiche dell’universo e delle cose viventi sono spiegabili meglio attraverso una causa intelligente, e non attraverso un processo non pilotato come la selezione naturale» [Wikipedia].

INTRODUZIONE

La divinazione può apparire a prima vista un intrico oscuro e incerto, e magari incutere un certo timore. Se i giochi divinatori dimostrano un’affidabilità di vario grado, ciò dipende dai giocatori e non certo dagli strumenti, che di per sé sono neutri come le lettere dell’alfabeto che possono trasmettere ispirazione o menzogna, secondo chi le adopera.

Nella pratica divinatoria ci sono tre personaggi e una scena, tutti sullo stesso piano e interconnessi, dove la debolezza o la forza dell’uno pregiudica o esalta gli altri: consultante – mantica – divinante (che può coincidere con il consultante) e una scena predisposta secondo set, setting e mind–set. Questi ultimi sono termini nello studio sulle esperienze negli stati di coscienza espansi, e mi sembrano pertinenti anche in questa sede, in quanto la divinazione prevede uno stato di coscienza diverso da quello della comune attività di veglia. Oltre a questi elementi, la sfera che – secondo me – racchiude scena e partecipanti è una sorta di sacralità (non superstizione) poiché la divinazione, come chiaramente lascia intendere il termine, riconosce e si affida alla presenza di un “divino”, di qualcosa che trascende gli aspetti terreni, l’apparenza degli eventi, la personalità e le conoscenze intellettuali.

SET – SETTING – MIND-SET

In questo contesto, il set sono le caratteristiche della persona: tutto il suo mondo interiore, la conoscenza o non conoscenza, l’esperienza o non esperienza, lo stato di salute, le credenze, le aspettative, le paure, le dipendenze; in breve, il suo bagaglio mentale ed emotivo.

Il setting è il luogo dove si svolge la pratica e il suo allestimento, quindi ciò che è esterno: l’ambiente con le sue caratteristiche di luci, musiche, profumi, decorazioni, oggetti, l’abbigliamento, la postura e quant’altro.

Il mind-set è l’atteggiamento mentale, l’intento o l’intenzione con cui ci si appresta all’opera.

Il set è certamente cruciale per colui che divina, che deve leggere i segni che arrivano dalla sfera della divinità. Nell’antichità la divinazione era appannaggio di persone distaccate dalla mondanità e quasi esclusivamente dedite al servizio divino nei templi, o che vivevano una vita a volte austera, altre volte isolata. In ogni cultura tali persone vivevano ai margini della società, in esilio dal mondo.

Tuttavia, il set non è meno importante per il richiedente, perché il suo desiderio di conoscere, la passione o la necessità che lo lega alla domanda sono indicatori di uno stato di coscienza. Anticamente, chi cercava risposte vitali affrontava molti disagi, percorrendo grandi distanze, soggiornando e purificandosi a lungo prima di poter accedere al contatto con la divinità o il divinante.

Anche oggi, la preparazione è requisito fondamentale: in primis per chiedere ed entrare in contatto con il divino, e successivamente per ricevere/comprendere/interpretare la visione/risposta.

Il setting può svolgere un ruolo di rilievo nell’espansione della coscienza. Per qualcuno si tratta di seguire rituali consolidati, altri si preparano e preparano il luogo secondo criteri personali dati da esperienze precedenti o intuizioni. Il setting è generalmente predisposto dal divinante al fine di fornire un ambiente che aiuti a creare/entrare in una diversa dimensione spaziale e temporale.

In questo elemento, ciascuno deve essere consapevole della natura dei suoi allestimenti, poiché questi dovrebbero servire ad espandere la percezione e non a confinarla o condizionarla in costrutti predefiniti, in una sorta di auto-suggestione o superstizione: il divino non può manifestarsi là dove tutto lo spazio è occupato da convinzioni, preconcetti, aspettative e orgoglio personali. Se una persona si conosce, sa che ciò che per qualcuno va bene potrebbe non essere opportuno per sé. Per esempio, io mi riconosco come una persona piuttosto impressionabile, per cui il mio setting è il più possibile neutro.

Inoltre, il setting coinvolge anche il consultante, quindi anche la sua apertura sia a esprimersi che a ricevere. Non sempre ciò che aiuta il divinante è altrettanto utile per il consultante. La divinazione è un’arte ispirata oltre che una pratica, e come ogni ispirazione segue flussi che spesso la razionalità non può seguire.

Il mind-set è, come detto, l’atteggiamento mentale, l’intenzione o l’attenzione con cui si opera. È, quindi, anche la domanda. Entrare nello stato di divinazione è entrare in uno stato alterato di coscienza, diversamente si rimarrebbe nello stato comune di veglia e razionalità e ciò che sembra “arrivare” in realtà “non arriva”, ma è un prodotto della propria mente razionale che, pur capace di dare buoni consigli, nella divinazione deve tacere per accogliere il non-limitato e il non-razionale, che non significa irrazionale.

Il mind-set è simile a un’antenna o a un telescopio che necessitano di sintonizzazione o direzione per catturare ciò che cercano. Può anche essere paragonato a un magnete che attrae solo ciò che attrae. Nel corso del tempo il significato di “divinazione” è andato abbassandosi di frequenza per adattarsi a differenti stati di coscienza, a differenti mondi di realtà, di intervento e risposte. Divino è un aggettivo il cui sostantivo risponde a varie concetti intellettuali e, pertanto, non è un termine di chiaro o univoco intendimento. Come diceva Tolstoj: “Un’idea di Dio non è Dio.”

Nella divinazione, entrando in una dimensione dove tempo e spazio non esistono, spariscono limiti, convenzioni, riferimenti e conoscenze razionali e tutto può comparire insieme. Questo “tutto” può apparire confuso, confondente o evanescente se il mind-set non è il più possibile cristallino e immacolato. Questo non perché la “risposta” sia di per sé confusa o vaga, ma perché la lente attraverso cui si guarda è opaca o distorcente: in quei piani o dimensioni, divinante/consultante, la loro coscienza e le loro lenti coincidono con la visione stessa.

INFORMAZIONI

In Wikipedia, sotto la voce divinazione sono elencate esattamente 100 mantiche (e probabilmente ce ne saranno altre ancora) dalle più note a quelle più impensabili che pure, da quel che si legge, non solo sono state pensate ma anche esercitate. Ciò ben illustra non solo il desiderio di conoscere ciò che è nascosto – che è sempre presente nell’umanità senza differenze di tempo, luogo e cultura, ma anche come l’uomo creda e abbia sempre creduto di poterlo sapere. Quindi, ecco che la presenza di strumenti di ogni specie in grado di dare risposte a domande sia pratiche che esistenziali ci potrebbe portare a riflettere sulle implicazioni della teoria dell’ordine implicato di Bohm per cui: “ … nell’universo esisterebbe un ordine implicato che non vediamo, e che Bohm paragona a un ologramma nel quale la sua struttura complessiva è identificabile in quella di ogni sua singola parte” [Wikipedia].

Dove si trovano le informazioni desiderate, quelle che preconizzano il futuro, illuminano il passato o mostrano ciò che è nascosto? Chi lo può dire con certezza? Nell’antichità si parlava di mondo degli dei, delle idee, di mondi angelici, spiriti e così via; con la psicologia sono nate nuove espressioni come inconscio personale, inconscio collettivo, mondo degli archetipi; con la moderna fisica si parla di energia, non-località, energia del punto zero. E dove si trovano queste dimensioni, essendo oltre la sfera della fisica conosciuta? Dentro, fuori, dappertutto o da nessuna parte? A prescindere da come ipotizziamo la sede delle informazioni, queste ultime esistono e possono essere trasferite da una dimensione sconosciuta a una ritenuta conosciuta.

Sempre tenendo a mente che set, setting e mind-set agiscono in collettivo, l’informazione è leggermente più responsiva al mind-set. In questo caso si può paragonare il mind-set a un missile dotato di un sistema d’inseguimento e intercettazione, ma dato che caratteristica di questo “dove” sembra essere l’assenza di tempo e spazio, non c’è alcuna distanza da percorrere e il bersaglio è colpito nel momento stesso in cui si preme il pulsante di lancio. Quindi non c’è nessun manuale di fisica da studiare, ma solo essere estremamente precisi, limpidi e distaccati; quindi, liberare la mente da secondi fini, mezze parole, mezze verità, illusioni, speranze, fantasie, giudizi, buone intenzioni e quant’altro circola in un cervello confuso e in un cuore turbato; ogni interferenza mentale ed emotiva influisce sulla chiarezza della visione.

La domanda, quindi, catalizza e precipita la risposta. Aver ben delineato i termini di ciò che si vuole conoscere è una condizione iniziale importante.

LINGUAGGIO

“Il dio, il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde, ma indica” [Eraclito]. Quale che sia per noi questo “dio” a cui attingere nella divinazione, parla una lingua diversa da quella ordinaria. Per entrare nella dimensione più profonda, efficace e guaritrice di una divinazione bisogna imparare a conoscerne la lingua.

Ogni mantica ha un suo linguaggio che va acquisito, interiorizzato ed esercitato, e non solo strettamente in sede di consulto. Addentrarsi nella pratica della divinazione significa instaurare una comunicazione costante con l’invisibile perché, al di là del momento in cui si sceglie di entrare nella procedura, la comunicazione è sempre in continuo scambio e interazione, dove ogni attimo precedente divina il successivo. Le mantiche mostrano le dinamiche, e – a un certo livello – non rappresentano persone ed eventi, ma momenti e movimenti coscienziali travestiti da persone ed eventi.

Ci sono diversi tipi di linguaggio, alcuni utilizzano supporti esterni come, per esempio, i Tarocchi, l’I Ching, le Rune, ecc., che hanno in sé codificati simboli e significati secondo una lunga tradizione; poi ci sono pratiche che si servono degli stati espansi di coscienza della persona: di tipo naturale come l’oniromantica e il viaggio sciamanico, oppure indotti attraverso condizioni di privazione o con l’uso di sostanze enteogene. [Poiché qui si parla di divinazione, trovo l’aggettivo “enteogeno” più appropriato di psicotropo o allucinogeno, perché dal greco entheos-genesthai, dove en=dentro, theos=dio e genesthai=generare, quindi “ciò che genera Dio (o l’ispirazione divina) nella persona.] Inoltre, parallelamente a ogni pratica umana, la comunicazione divina si serve anche degli elementi ambientali (sincronicità, fenomeni naturali, ecc.).

Al di là della tecnica utilizzata, il linguaggio dell’esperienza divinatoria assume nel tempo carattere individuale e personale. Come si sa, il comune linguaggio è una struttura convenzionale limitata alla comunicazione in certi ambiti di esperienza, per lo più fenomenica e materiale, che assolve l’esigenza primaria di relazione tra umani. Nella divinazione, sia con l’utilizzo di strumenti che per auto-induzione e comunicazione ambientale, compare la necessità di tradurre immagini, simboli, visioni e altri tipi di percezione in una risposta intellegibile e coerente. Poiché, come dice Eraclito, il dio non dice ma indica (o accenna, secondo altra traduzione) consegue che questo divino lascia ampio margine di interpretazione all’uomo; così, a mio parere, non è il dio ma l’uomo che gestisce la risposta, verbalizzata secondo la sua sensibilità e capacità di intendere e tradurre.

Per quanto sopra, essendo il linguaggio del divino (dell’inconscio collettivo o del non-locale, che dir si voglia) non strutturato e tanto meno limitato a una lingua o a immagini standardizzate, ritengo che sia compito di chi vuole avvicinarsi all’arte divinatoria acquisire il più ampio vocabolario possibile esercitandosi in più mantiche e di diverso genere, perché a volte limitarsi a una sola lingua è condizionare a una manciata di termini la traduzione di un flusso che proviene dal magazzino dell’universo intero e delle esperienze di tutta l’umanità nel corso di molti millenni.

Considero, inoltre, buona cosa avere strumenti diversi in funzione della domanda o della dimensione cui ci si rivolge, perché alcune mantiche possono sembrare più consone a responsi di ordine pratico e altre a responsi di ordine più esistenziale o impersonale.

FEEDBACK

La divinazione è un’arte e una scienza, e la loro padronanza prevede studio, esercizio e verifica. È un’arte che opera con l’invisibile e questo invisibile non è un semplice “visibile che non si vede” ma qualcosa che ha leggi diverse, modalità diverse, realizzazioni diverse, intendimenti diversi. Quindi non può essere avvicinato con meccanicità e stereotipi ma con sensibilità, calma e apertura. Spesso l’accesso avviene non per visione centrale ma periferica, così come le stupende ma fioche Pleiadi si colgono meglio con la coda dell’occhio fissando le stelle più brillanti intorno. Le risposte sono sempre e ovunque presenti ma celate, come nella nube confusa di uno stereogramma. Talvolta basta che lo sguardo sia diversamente a fuoco ed ecco che miracolosamente compaiono, ad ogni livello di manifestazione.

Ciò che si definisce spirituale ha delle “dinamiche” che non sono limitate alle abitudini e alle aspettative della personalità, per cui divinante/consultante dovrebbero approcciarsi aperti a ricevere anche risposte che potrebbero apparire in un primo momento non chiare, contrarie alle regole o illogiche, o anche scontate… Una volta che si ha l’immagine, la visione o l’indicazione, non sempre si è in grado di capirla chiaramente o correttamente; alcune volte è necessario astenersi e lasciare a quel “divino cenno” tempo e spazio per manifestarsi con più consistenza e chiarezza. L’ansia da prestazione di aver capito tutto subito e attribuire immediata certezza a ogni affermazione è un imperativo dei tempi moderni a cui non si deve cedere. Nella divinazione i tempi sono altri, sono i tempi della coscienza e non degli eventi; talvolta una risposta non è “la riposta ricevuta”, ma un moto iniziale o un seme che, lasciato libero, si sviluppa in qualcosa d’imprevisto che meglio corrisponderà alla necessità.

Riguardo alla visione o al responso, poche volte ho incontrato chi dopo una divinazione attende una conferma sul piano oggettivo; la maggior parte dei divinanti e dei consultanti si limita ad accettare piuttosto acriticamente, come se il divino si offendesse ad essere messo in dubbio.

Personalmente, prima di dare credibilità a una percezione, visione o lettura, soprattutto se suscita perplessità o dubbio o indica un’azione drastica, attendo (o faccio attendere al richiedente) un feedback o conferma attraverso il sogno, la sincronicità o l’ambiente esterno entro un periodo di tempo che, per quanto mi riguarda, ho stabilito di 24 ore. Se entro tale termine non si riceve il feedback, quell’interpretazione è sospesa.

Mente e percezione non sono facili da tenere limpide e distaccate, specialmente se la divinazione viene fatta per se stessi. Chiedere il feedback significa anche uscire dalla presunzione di infallibilità riguardo la propria interpretazione, ciò che si visualizza o passa per la testa; è un atto di umiltà e fiducia permettere al divino di manifestarsi anche con altri mezzi e lasciare ad esso l’ultima parola.

La teoria che sta dietro a questa modalità è che se qualcosa è veramente “vero/reale” deve rivelarsi tale su tutti i piani, quindi anche sul piano ordinario e non solo quello raggiunto in stato alterato. Questo risponde al paradigma olografico, dove nella parte c’è il tutto – e se una parte proviene da un “intero”, ogni altra e diversa parte di quell’intero lo rivelerà allo stesso modo. Parafrasando il Mahabharata: “Ciò che c’è qui lo si può trovare anche altrove; ma ciò che qui non si trova, non esiste in nessun luogo.” Questo il motivo per cui – sempre a parer mio – è importante riconoscere che la comunicazione può essere confermata attraverso molti messaggeri, e che spesso è bene avere più di una testimonianza prima di dar credito e procedere. È quasi incredibile come le conferme arrivino tempestive e tramite i più disparati ignari emissari.

REALTA’ PERSONALE

Alla divinazione si oppone spesso la “realtà” della validità delle risposte. Cosa significa “realtà” è una questione dibattuta e infinita, per cui – in questo contesto in modo particolare – per me la realtà è una realtà personale.

Se abbiamo un problema, lo abbiamo nella nostra realtà. Delle persone che ci circondano abbiamo immagini mentali che riflettono la nostra relazione con loro, gli avvenimenti che ci accadono sono quelli che ci toccano direttamente. Così, nella divinazione, le domande sono sempre personali e hanno risposte personali. Chiedere per altri è inutile, perché la risposta che si può ottenere non è diretta all’“altro”, ma al richiedente. Ho notato che c’è come una sorta di legge sulla privacy. Quando da giovane facevo ingenue domande sulle faccende altrui, le risposte ottenute non avevano mai riscontro reale. Ho capito, quindi, che ciascuno di noi attinge esclusivamente al proprio magazzino di esistenza passata e futura perché ha il suo proprio viaggio di andata e ritorno. Sono del parere che l’immensità della sfera individuale sia proprietà privata: solo l’interessato è autorizzato ad accedervi. Diversamente, la considero un’intrusione non autorizzata.

La divinazione ha senso per coloro che sentono il divino partecipe della loro vita e loro stessi partecipi di una vita divina. Se questo divino sia inteso secondo un ideale religioso, psicologico o scientifico è – secondo me – ininfluente. Entrare nella pratica della divinazione significa riconoscere che la manifestazione origina da una sede apparentemente diversa da quella che definiamo realtà oggettiva. Non ritengo importante sapere dove sia e darle un nome, ma lo è arrivare a cogliere quelle informazioni mancanti che danno a certi aspetti della nostra vita un senso o una direzione quando non riusciamo a trovarli con la mente razionale. A volte non si tratta di capire e nemmeno di credere, si tratta semplicemente di agire.

CONCLUSIONE

La divinazione è sia un fine che un mezzo per acquisire conoscenza ed esperienza di noi stessi e di una realtà ampliata. Tutti i nomi che possono venir dati a dimensioni che sconfinano dalla realtà consensuale sono semplici modelli di comunicazione, il loro valore non consiste nell’idea della loro esistenza e descrizione ma nella plasticità con cui si manifestano in tempo, spazio, materia e, di conseguenza, coscienza. Nel momento in cui si entra in un vero stato di divinazione, in una dimensione espansa e impredicibile, si è in un eterno presente a contatto con le energie indifferenziate della creazione, pronte a modellarsi alla richiesta.

Il valore di una divinazione non sta nella bontà o nel conforto di un responso che ci solleva dal nostro stato, ma nella possibilità di osservare un quadro più ampio così da acquisire quell’ulteriore conoscenza che aiuta a prendere una decisione personale e autonoma assumendocene la responsabilità.

La divinazione può essere praticata per diversi fini, dalle urgenze legate alla sopravvivenza e alla soddisfazione materiale ed emozionale, a quelle della ricerca di uno scopo o del significato degli accadimenti, fino ad arrivare all’esperienza di una dimensione collegata a quella terrena unicamente dal filo sottile della vita che tutto pervade.

L’affinamento nella pratica della divinazione risponde all’affinamento del nostro stato di coscienza, per cui vorrei concludere con A. Huxley: “Ciò che percepiamo e ciò che comprendiamo dipendono da ciò che noi siamo.” —

– Estendere i confini, 6

– – – – – – – – – –

Nota

Michael Talbot, Tutto è uno (The Holographic Universe) – Urra/Feltrinelli

Inserisci il tuo indirizzo email per seguire questo blog e ricevere notifiche di nuovi messaggi via e-mail.

Unisciti a 73 altri iscritti

Articoli recenti

  • Sulla pratica dell’I Ching – Incontri 24/01/2023
  • Ho sentito dunque raccontare … , Platone (Estratto dal “Fedro”) 21/01/2023
  • Il Capodanno cinese, da Star Walk (estratti) 18/01/2023
  • I CHING | 26 DA CHU – Grande Contenimento, Deng Ming-Dao 16/01/2023
  • I CHING | 40 JIE – Sollievo, Taoist Master Huang 02/12/2022
  • I CHING | 40 XIE – Lasciare andare, Deng Ming-Dao 01/12/2022
  • Abitare l’intreccio del mondo vivente, Sofia Belardinelli (da Il Tascabile) 19/11/2022

Categorie

Archivi

Un sito WordPress.com.

  • Segui Siti che segui
    • Inseparatasede
    • Segui assieme ad altri 73 follower
    • Hai già un account WordPress.com? Accedi ora.
    • Inseparatasede
    • Personalizza
    • Segui Siti che segui
    • Registrati
    • Accedi
    • Segnala questo contenuto
    • Visualizza il sito nel Reader
    • Gestisci gli abbonamenti
    • Riduci la barra