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Come cerca lavoro uno stoico?, M. Pigliucci

15 lunedì Mag 2017

Posted by Paola in Filosofia, Massimo Pigliucci, Stoicismo

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Come cerca lavoro uno stoico?, Massimo Pigliucci [dalla rubrica “Consigli stoici” del blog “How to be a stoic“]

M. scrive: “Al momento sono uno studente prossimo alla laurea e sono curioso di sapere come uno stoico si approccerebbe alla questione della ricerca di un lavoro. Nel cercare un lavoro a tempo pieno, ho preso coscienza della tripartizione del controllo e quindi riconosco che quasi tutto il processo di assunzione (quando/se vengo chiamato per un colloquio, se ricevo l’offerta, ecc.) sono completamente al di fuori del mio controllo. Mi sono anche reso conto che sono pochi i momenti chiave dove sono io ad avere il controllo: uno è la posizione per cui mi candido, e l’altro se accetto o meno l’impiego (se mi viene offerto).

“Dal mio punto di vista, queste sembrano essere delle decisioni totalmente sotto il mio controllo, ma non mi è chiaro come dovrei ragionare su queste decisioni. Il campo di mio interesse (ingegneria elettrotecnica) è fantastico perché pieno di opportunità e molti percorsi diversi di carriera. Tuttavia, la gran quantità di opzioni può essere un bel problema. A quale settore dovrei rivolgermi? Devo candidarmi in una piccola impresa? Oppure in una grande azienda? Devo fare domanda per le posizioni che mi sembrano interessanti o confacenti, oppure dovrei semplicemente candidarmi per una posizione qualsiasi e accettare la prima buona occasione che mi viene offerta?

Il mio Epitteto interiore mi dice di prendere quel che viene più semplice per apprendere e imparare e star bene, ma trovo difficile abbandonare il controllo che ho. Vorrei servire la società al mio meglio, quindi mi sento di dover mirare alto piuttosto che soddisfare le mie sole necessità. Hai qualche suggerimento su come applicare i principi stoici per aiutarmi a chiarire su cosa dovrei focalizzarmi?”

Massimo Pigliucci – Penso che ci siano tre modi per approcciare il tuo problema dal punto di vista stoico. Uno richiama il concetto degli indifferenti preferibili; il secondo riconduce alla disciplina dell’azione e alla correlata virtù della giustizia; e il terzo è quello di cui ho parlato già in questo blog, e su cui sto preparando una serie articoli: l’etica del ruolo di Epitteto.

Iniziamo con l’ovvio: gli indifferenti preferibili [1]. Non soltanto quale lavoro riuscire a ottenere, ma anche con quale lavoro iniziare è, naturalmente, un indifferente preferibile. Come sono certo che tu sappia, ciò non significa che ciò non sia importante, ma solo che la tua professione, o anche l’ottenimento di una professione, non influenzerà la tua integrità morale e la tua pratica delle virtù. Come ho detto, a meno che non tu voglia diventare un cinico, bisogna lavorare e sarebbe preferibile che il tuo lavoro abbia certe caratteristiche, in termini sia di preferenze per te che per la società in generale.

Questo mi porta al secondo punto: la disciplina dell’azione e la virtù della giustizia [2]. Per gli stoici, giustizia significa trattare gli altri con rispetto e cortesia, e più in generale cercare di essere utili alla società in generale. Ecco, per esempio, cosa dice Marco Aurelio:

“Fa’ quanto è necessario, e quanto la ragione d’un individuo nato per vivere in società esige e in quel modo che esige.” (Ricordi, IV.24) [3]

“Dove è il suo fine, là è pure l’utile e il bene di ognuno. Ora, il bene dell’essere ragionevole è la società.” (Ricordi, V.16) [3]

Questo dovrebbe dirti che, le altre cose essendo uguali, un lavoro utile per la società è meglio di uno che non sia socialmente utile in modo particolare. Ciò significa che un approccio di sola soddisfazione non è abbastanza buono. Infatti, tu stesso dici chiaramente che vuoi sentirti socialmente utile. Quindi non desideri semplicemente accettare un lavoro qualsiasi, e neppure vuoi impegnarti in una professione incurante dei suoi effetti sulla società in generale. Ora, stiamo parlando di ingegneria elettrotecnica ed io non sono sufficientemente esperto in questo campo per darti un parere più mirato. Ma per comprendere ciò che intendo, immaginiamo invece che il tuo campo sia la medicina. Qui potresti classificare le diverse specialità secondo un valore sociale, dove – per esempio – la remunerativa chirurgia plastica rivolta alle celebrità finirebbe ai piedi della scala, mentre lavorare sul campo per una ONG come Medici Senza Frontiere starebbe probabilmente molto in alto. Naturalmente, non tutti sono tagliati per lavorare con Medici Senza Frontiere, così potresti cercare alternative che sono più confacenti alla tua personalità e alle tue preferenze, e che siano comunque le più alte possibili in termini di valore sociale. Ha senso per te osservare in tal modo le opzioni disponibili nel tuo campo?

Ora che abbiamo parlato di personalità e preferenze, passiamo al terzo approccio: l’etica del ruolo. Ho appena terminato di leggere un libro affascinante di Brian Johnson, The Role Ethics of Epictetus: Stoicism in Ordinary Life (L’etica del ruolo di Epitteto: lo Stoicismo nella vita quotidiana, ndt) [4]. Sto pianificando una serie di articoli per il blog che trattano alcuni capitoli del libro, ma – se vuoi – nel frattempo puoi dargli un’occhiata.

Il punto principale trattato da Johnson è che se da una parte Epitteto accetta l’etica stoica standard strutturata in termini di virtù, e naturalmente illustra chiaramente la distinzione tra le tre discipline (desiderio, azione e assenso), elabora anche un ulteriore approccio piuttosto originale che si basa sulla molteplicità dei ruoli che interpretiamo nella società.

L’idea della valenza etica dei ruoli non era nuova agli stoici. Per esempio, Cicerone l’ha illustrata nel De Officiis, che si basava su un’opera ora perduta del medio stoico Panezio (maestro di Posidonio, che fu a sua volta un maestro di Cicerone) dal titolo “Sul dovere”.

Cicerone/Panezio propone un’analisi dell’etica in termini di quattro ruoli (personae) che ciascuno di noi può interpretare: 1) in quanto essere umano, 2) in termini di personalità, 3) in funzione dello stato sociale, e 4) in termini di scelta di carriera. Puoi far riferimento al capitolo 8 del libro di Johnson e, in particolare, cosa ha da dire sul ruolo (4).

Tuttavia concordo con Johnson che il valore dei ruoli in Epitteto è molto più ampio e più sofisticato di quello offerto da Cicerone/Panezio, per cui parlerò brevemente di questo, rimandandoti nuovamente al libro o, almeno, ai miei prossimi articoli, per saperne di più.

Per Epitteto, il primo e fondamentale ruolo per noi è quello di essere umano (similmente al ruolo (1) di Cicerone/Panezio). In quanto esseri umani, dobbiamo servirci della nostra facoltà di prohairesis (volizione/volontà) per esprimere giudizi corretti su ciò che è e non è sotto il nostro controllo, così come su ogni altra materia su cui abbiamo delle “impressioni” per le quali dobbiamo dare o negare l’assenso. Per quanto riguarda il tuo problema, ciò conferma fondamentalmente il mio consiglio precedente: pensare al lavoro come indifferente preferibile, e in questo senso cercare di scegliere una carriera che sia la più virtuosa possibile (in termini di giustizia, in modo particolare).

Epitteto, poi – a differenza di Cicerone/Panezio – non prosegue dandoci un elenco di ruoli, poiché ve ne sono molti (es. padre, figlio, collega di lavoro, capo, amico, compagno, funzionario pubblico, e così via). Piuttosto, ci dà dei criteri per individuare i nostri ruoli specifici e giudicare se stiamo “interpretandoli” bene.

I criteri di Epitteto sono: a) le nostre particolari capacità naturali; b) le nostre relazioni sociali (sia naturali, come genitore o figlio, che acquisite, come di coniuge o vicino di casa); c) le nostre scelte personali (che entrano nell’equazione quando le nostre capacità ci consentono di perseguire più di una carriera possibile); e d) il segno “divino” (o, nel linguaggio moderno, la sensazione di avere una particolare “vocazione”).

Presumo che tu abbia già preso in considerazione il punto (a). Dopotutto, uno non cerca di perseguire una carriera nel campo dell’ingegneria elettrotecnica se non è, diciamo, bravo in matematica e fisica, come pure in un ambito pratico. Presumo anche che tu abbia già tenuto conto del punto (c), cioé l’aver scelto questo campo specifico preferendolo ad altre professioni che le tue capacità ti avrebbero permesso di seguire.

Metteremo da parte il punto (d) poiché per Epitteto è chiaro che pochissime persone sentano una “chiamata” e, da quanto scrivi, a me non pare che tu l’abbia sentita (ma potrei sbagliare, naturalmente!). Il classico esempio di qualcuno che ha avuto una vocazione per seguire una vita particolare è Socrate, anche se penso che è così che descriverebbero la cosa molti artisti e scrittori, ed anche degli scienziati (come me).

Quindi ci rimane il punto (b) e pensare alla domanda secondo le tue relazioni sociali. Quest’ultima potrebbe essere utile per te in quanto citi, per esempio, l’alternativa di lavorare per una piccola o per una grande impresa. In entrambi i casi, avresti il ruolo di impiegato (e, alla fine, anche di capo). C’è qualcosa nella tua personalità che ti fa pensare di essere in grado di assumere meglio questo ruolo in un ambiente rispetto all’altro?

Un altro modo di testare il punto (b) è indirettamente. È possibile che a un certo punto desidererai una relazione a lungo termine (se già non ne hai una) e forse dei figli. Ciò aggiunge uno o due altri ruoli al tuo portfolio: partner e padre. Quanto la tua professione influenzerà in meglio (virtuosamente) la tua capacità di interpretare questi ulteriori ruoli? Queste sono tutte buone domande da tenere a mente mentre rifletti sulle tue scelte.

Johnson dice che l’etica del ruolo di Epitteto schiera in prima linea la pratica dell’auto-analisi, e mi sembra che tu sia in un momento della tua vita dove l’auto-analisi è cruciale. Hai già iniziato questo processo, e spero che le considerazioni di cui sopra ti aiutino a proseguire. —-

Traduzione: Paola (autorizzata dall’autore)

Testo originale: How does a Stoic do job hunting?

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Note

[1] The Stoic spectrum and the thorny issue of preferred indifferents

[2] The discipline of action and the virtue of justice

[3] Marco Aurelio, Ricordi, Einaudi (ndt)

[4] The role of ethics of Epictetus: Stoicism in ordinary life

Il perdono secondo lo stoicismo, M. Pigliucci

23 domenica Apr 2017

Posted by Paola in Filosofia, Massimo Pigliucci, Stoicismo

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Qual è il pensiero degli Stoici sul perdono?, Massimo Pigliucci [dalla rubrica “Consigli stoici” del blog “How to be a stoic“]

K. scrive: “La mia domanda ha a che fare con il concetto di perdono secondo lo Stoicismo. Sono stata sposata con mio marito per vent’anni, ma nel corso degli ultimi anni il suo comportamento diventò violento. Questo comportamento coincise con il ricevimento di una eredità di un fondo fiduciario considerevole. Chiesi il divorzio dopo un incidente che vide il suo arresto e la mia ospedalizzazione. Subito iniziai a cercare uno psicologo, sia per me che per i miei figli, per gestire il trauma e andare avanti nel modo più sano possibile. Non mi aspettavo per nulla di ricevere un corso introduttivo allo Stoicismo. Da questo psicologo capii che non spettava a me esercitare un controllo sul comportamento di mio marito (non dovevo essere biasimata e non dovevo aspettarmelo; solo lui era il responsabile delle sue azioni), ma di valutare il rispetto verso me stessa più del denaro e dei beni materiali (gli accordi del divorzio verso di me furono briciole e la sua eredità non rientrava nella comunione legale), e di concentrarmi sulla relazione con i miei figli e l’esempio che avrei dato loro.

“Ora, cinque anni dopo, la mia domanda è: cosa significa perdonare per chi pratica lo Stoicismo? Il mio ex-marito ha detto a tutti (anche ai nostri figli) che vorrebbe che fossimo amici, ma che io sono “piena di rabbia e rifiuto di perdonarlo”. Questo per me non ha senso. Quando c’è stata l’occasione, ho spiegato che se lui mi avesse chiesto perdono, certamente glielo avrei dato; ma in realtà per me non cambierebbe nulla. Il perdono non è un gomma magica che cancella i fatti. Per me, il perdono è essere gentile verso qualcuno che riconosce di aver sbagliato, non un accordo dove si finge che nulla sia successo. Nelle rare occasioni in cui lo incontro, dimostro al mio ex-marito la stessa cortesia che avrei verso un qualsiasi estraneo. Pratico l’indifferenza e mi concentro sulla mia serenità interiore. Abbiamo entrambi un rapporto affettuoso verso i nostri figli, ma del tutto separati. Sì, abbiamo avuto tre figli e molti begli anni insieme, ma gli anni belli cancellano quelli brutti? E il brutto nega il bello? Secondo me, non è veramente importante. Dovessimo incontrarci oggi, non avremmo nulla in comune. Io insegno in una scuola pubblica, vivo semplicemente e sono affezionata alle mie amicizie. Lui non lavora, vive una vita d’indulgimento ed è attaccato al suo denaro.

A me non interessa “essere amici per il bene dei figli” perché io e lui abbiamo valori differenti. Tutti i filosofi stoici ci invitano a scegliere i nostri amici saggiamente, così da non cadere sotto infelici influenze. Dimmi… sono una donna “piena di rabbia” che si “rifiuta di perdonare”, o sono una donna coerente con i suoi principi, pur sapendo che altri mi possono giudicare non bene? La mia pratica dello stoicismo mi fa comprendere che se io desidero migliorare, allora devo essere soddisfatta che pensino che io sia sciocca e stupida (o piena di rabbia e inclemente!). È cosa virtuosa giungere a compromessi con i miei valori solo per cercare di far sentire gli altri più a loro agio o affinchè modifichino la loro opinione verso di me? No. Perché dovrei frequentare qualcuno che ha provato di non condividere ciò in cui credo e che per me ha un profondo valore?”

Massimo Pigliucci – Mi sembra che tu abbia già un’idea piuttosto chiara di ciò che uno stoico farebbe in tale situazione, e tu lo stai facendo. Tuttavia, ampliamo un po’ il discorso sul perdono in generale dal punto di vista stoico.

Per iniziare: sì, è corretto che un modo appropriato di pensare al perdono sia il mostrare cortesia verso qualcuno che ha riconosciuto di aver sbagliato, e non un accordo dove si finge che non sia successo nulla. Poi, dici che se lui chiedesse il tuo perdono, tu certamente glielo daresti. La mia indicazione è che la modalità stoica di agire è di andare anche oltre, e concedergli il perdono a prescindere che lo chieda o meno; questo per via del principio generale che le persone non agiscono male perché vogliono essere cattive, ma per amathia, o mancanza di saggezza. Come Marco Aurelio ci ricorda:

“Al mattino comincia col dire a te stesso: incontrerò un indiscreto, un ingrato, un prepotente, un impostore, un invidioso, un individualista. Il loro comportamento deriva ogni volta dall’ignoranza di ciò che è bene e ciò che è male. (…) Quanto a me, ebbene, io non posso ricevere danno da nessuno di essi, perché nessuno potrà coinvolgermi in turpitudini, e nemmeno posso adirarmi con un parente né odiarlo. (Marco Aurelio, Colloqui con se stesso, II.1) [2]

In un certo senso, penso che la posizione stoica è che perdonare è il modo in cui automaticamente agisce la persona saggia:

“È tipico di chi non ha alcuna educazione filosofica addossare agli altri la colpa dei propri mali; del filosofo alle prime armi prendersela con se stesso; del saggio esser libero da qualsivoglia senso di colpa.” (Epitteto, Enchiridion, 5) [2]

Questo passaggio di Epitteto sembra stabilire una progressione di auto-miglioramento morale: dall’incolpare gli altri a biasimare solo se stessi, fino al non incolpare proprio nessuno. Se non c’è biasimo da addossare, allora non c’è neppure un perdono da gestire.

Questo, vorrei puntualizzare, non significa affatto che le azioni del tuo ex-marito non fossero sbagliate, o che non avresti dovuto opporti ad esse. Significa semplicemente che una volta che la cosa si è chiusa, con gli aspetti legali definiti e voi che vivete vite separate, non c’è alcun motivo di indulgere oltre a pensare su ciò che è stato. I pensieri si frappongono semplicemente alla tua ricerca dell’apatheia che, ricordiamolo, significa sviluppare un senso di equanimità che porta all’ataraxia (serenità mentale), e non a un senso di apatia o di soppressione delle emozioni in generale.

Hai anche assolutamente ragione a rifiutare l’“essere amici” con lui, anche per il bene dei vostri figli. Come dici, non soltanto voi due non avete nulla in comune, ma lui non sembra il tipo di persona che sarebbe bene frequentare:

“Evita di andare a cena con persone che non conosci o che sai essere estranee alla filosofia. Se non puoi proprio evitarlo, ebbene presta attenzione a non lasciarti coinvolgere dalle maniere della gente comune. Se t’accompagni a chi è avvezzo a involgersi nel sudiciume morale, ti schizzerai di fango anche tu, per quanto lindo tu possa essere.” (Epitteto, Enchiridion, 33.6) [2]

Nello stesso tempo, poi, cerca di riformulare i tuoi pensieri sul comportamento del tuo ex-marito, passando da un tono di condanna morale (senza dubbio giustificata) a un più neutrale dato di fatto:

“Tizio si lava in fretta. Non dire «si lava male», bensì «si lava in fretta». Caio beve molto vino. Non dire «beve in modo sconveniente», ma semplicemente «beve molto vino». Infatti, come puoi dire che sia male, prima di esserti fatto un’idea ben precisa dei motivi per cui essi agiscono in tal modo? Piuttosto, impara a non precipitarti nel giudicare, affinché i tuoi giudizi siano conformi alle rappresentazioni che ricevi e non campati in aria.” (Epitteto, Enchiridion, 45) [2]

Proviamoci. Invece di dire, come hai detto: “Non lavora, vive una vita d’indulgimento ed è attaccato al suo denaro”, riformula i tuoi pensieri in termini descrittivi: “Non lavora, ricerca il piacere e si preoccupa della sua fonte di finanziamento.” Questo esercizio potrebbe aiutarti a lasciar andare le emozioni negative, raggiungimento che è per il bene tuo e dei tuoi figli, e non a suo beneficio. Nel tuo caso, questo ti aiuterà anche a sviluppare e mantenere un senso di serenità; nel caso dei tuoi figli, saranno colpiti dal modo magnanimo in cui parli del loro padre senza interporre giudizi, riconoscendo una superiorità morale.

Dici anche correttamente che né gli anni belli cancellano quelli brutti, né viceversa. Vent’anni sono un bel numero nella vita di chiunque, e sarebbe davvero insolito che fossero pieni solo di cose positive o solo negative. Dato che la relazione si è conclusa per violenza, è naturale che, quando ci pensi, le cose negative tendano a pesare più di quelle positive. Ma, ripeto, esercitati sul distaccarti dall’intera faccenda, che sia bella o brutta. Focalizzati, piuttosto, sui tuoi tre figli, qualcosa di bellissimo nato dalla vostra relazione, e che sarà una parte importante del tuo futuro prossimo.

Ciò che Seneca ci dice di fare ogni sera, possiamo farlo per gli eventi del nostro passato, anche lontano: chiediamoci dove abbiamo sbagliato, ciò che abbiamo fatto bene e cosa avremmo potuto fare in modo diverso. E di conseguenza:

“L’ira cesserà, e sarà più moderato l’uomo che sa di doversi presentare ogni giorno al giudice. C’è usanza più bella di questa, di esaminare un’intera giornata? (…) quanto tranquillo, quanto profondo e libero, dopo che l’animo o è stato lodato o ammonito e, da osservatore e censore privato di se stesso, ha concluso l’inchiesta sui suoi costumi.” (Seneca, De Ira III,36) [3]

Nel tuo caso, sembra che tu abbia fatto bene a cercare l’aiuto di un terapista per il bene tuo e dei tuoi figli. E probabilmente hai imparato molto dall’esperienza così che non si ripeta in futuro. La tua posizione nel trattare con lui ora è, quindi, esattamente corretta: dimostrargli la cortesia che si ha per un estraneo, perché tale è lui per te. Le sue opinioni sul tuo comportamento e sulla tua ritrosia a un coinvolgimento con lui sono solo sue, e non sono sotto il tuo controllo. E non devi neppure perdonarlo, puoi semplicemente pensare a lui come a una persona non saggia che merita la tua pietà, non la tua rabbia o il tuo risentimento.—-

Traduzione: Paola (autorizzata dall’autore)

Testo originale: What do Stoics think of forgiveness?

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NOTE

1 Traduzione di P. Sanasi, Edizione Acrobat

2 Traduzione di Francesco Dipalo

3 Traduzione da http://www.classicitaliani.it di Giuseppe Bonghi

Sul determinismo e il perseguimento dei propri sogni (Consigli stoici), M. Pigliucci

12 giovedì Gen 2017

Posted by Paola in Filosofia, Massimo Pigliucci, Neoscienze, Stoicismo

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massimo_pigliucciSul determinismo e il perseguimento dei propri sogni (Rubrica di Consigli Stoici), di Massimo Pigliucci (2017)

[Lo Stoicismo è una filosofia pratica, e come Epitteto ricorda spesso ai suoi studenti: “Se non hai imparato queste cose per mostrarle nella pratica, per che cosa le hai imparate?” (Discorso I, 29-35) Essendo d’accordo, ho dato inizio alla rubrica “Consigli Stoici”, una versione filosoficamente informata e, si spera, utile, delle rubriche classiche nei giornali di tutto il mondo. Se desiderate sottoporre una domanda alla rubrica Consigli Stoici, inviate un’email a <massimo at howtobeastoic dot org>. Vi prego di considerare che i consigli dati in questa rubrica si basano su opinioni strettamente personali e riflettono la mia comprensione, forse non corretta, della filosofia stoica.]

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D. scrive: “Qual è la reazione di uno stoico ai concetti moderni di QI (Quoziente d’Intelligenza, ndt) e di genetica? Nelle società dove un alto QI è legato al raggiungimento di traguardi accademici in materie di elevati contenuti, e conseguenti benefici conferiti dalla società, cosa farebbe uno stoico di fronte a questo determinismo genetico? Cosa risponderebbe uno stoico a chi avesse un’intelligenza mediocre ma che vuole disperatamente raggiungere una competenza in abilità di alto livello? Una vita a perseguire i propri sogni, anche costantemente e inevitabilmente fallendo, è più significativa di una vita in cui si è rinunciato ai propri sogni? Oppure, si dovrebbe consigliare di vivere una vita più pratica? Gli stoici avevano il concetto del talento innato?”

Un’ottima domanda e, se posso dirlo un po’ immodestamente, ha fatto la domanda alla persona giusta, poiché non sono soltanto un praticante dello stoicismo, ma sono un biologo specializzato proprio nelle interazioni gene-ambiente.

Quindi, permettimi di iniziare con un po’ di background scientifico. Come sai, gli stoici pensavano che fosse importante studiare non solo l’ “etica” (termine con il quale intendevano il modo in cui si vive la vita) ma anche la fisica (che comprendeva le scienze naturali). Questo perché non ci si può orientare nel mondo in modo efficace se non si ha un’idea soddisfacente di come il mondo in realtà funziona. Quindi, una conoscenza scientifica di base è molto più attuale a come uno stoico si approccia alle questioni etiche.

Sia il concetto di ereditarietà che quello di QI è molto controverso. E non intendo solo negli ambiti politico-ideologici. Sì, è vero che la sinistra tende a rifiutare ogni discussione su QI ed ereditarietà perché li vede come un indebolimento della libertà umana, così come è vero che è tipico della destra abbracciarli al fine di mantenere ciò che preferiscono, lo status quo sociale. Sto parlando di dibattiti scientifici. Un buon compendio delle questioni principali si può trovare nel saggio del mio amico e collega Jonathan Kaplan [1] e molto altro nel mio libro Phoenotypic Plasticity: Beyond Nature and Nurture.

La conclusione, comunque, è questa:

1. Il QI misura una porzione dell’“intelligenza” analitica (comunque la si vuole definire) fortemente influenzata culturalmente e, di conseguenza, il risultato del test varia a seconda dell’età, il livello di istruzione e la modalità del parto. Con questo non s’intende dire che il test non misuri nulla che valga la pena di essere misurato, ma che qualunque sia la cosa misurata, viene ridotta semplicisticamente a un singolo numero che esclude un buon numero di complessità rilevanti.

2. L’ereditarietà non – ripeto – non misura il grado di determinazione genetica di un tratto. Tanto per cominciare, l’ereditarietà è una misurazione statistica che ha senso solo a livello di popolazione e non di individuo. Quindi, quando noi diciamo, per esempio, che l’altezza di un uomo ha un’ereditarietà dell’80%, non significa che l’80% della mia altezza dipende dai geni e il 20% dalle influenze ambientali. Significa, piuttosto, che l’80% della cosiddetta variazione fenotipica dell’altezza in una determinata popolazione si collega statisticamente con la variazione genetica di quella popolazione. Per comprendere perché questo non è la stessa cosa del determinismo genetico,  consideriamo questo semplice esempio: l’ereditarietà del numero delle narici negli umani è zero perché, fondamentalmente, non c’è una variazione per questo tratto della nostra specie (tutti quanti abbiamo due narici). Eppure questo tratto è, come risulta, fortemente determinato geneticamente: non esiste ambiente dove si sviluppino una, o tre, o un altro numero di narici che non siano due.

3. Contrariamente a quanto comunemente malinteso, l’ereditarietà è una misura locale e non generale, nel senso che varia per la particolare costituzione genetica di una popolazione come per l’ambiente in cui l’individuo cresce. Questo, a sua volta, significa che non ha senso dire che l’ereditarietà del QI è “x”. Si dovrebbe, invece, dire che l’ereditarietà del QI per quella particolare popolazione e in quella particolare gamma di ambienti è “x”. Cambiate la costituzione genetica della popolazione, o dell’ambiente, e otterrete un numero differente. Talvolta un numero radicalmente differente.

4. Per di più, ciò che importa veramente non è il singolo numero dato all’ereditarietà (a livello di una popolazione), ma a una serie di funzioni individuali (per ciascuno di noi) che si collegano al fenotipo (in questo caso, il QI), il genotipo e l’ambiente, per via di quella che viene chiamata “norma di reazione”. Una norma di reazione è una curva specifica di un genotipo che appare come in questa immagine:

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La conoscenza del set delle norme di reazione in una popolazione di organismi ci dice con precisione come la costituzione genetica di questi organismi interagisce con la gamma ambientale per incontrarsi, verosimilmente, con quegli organismi che sono sensibili a una gamma di fenotipi corrispondente. Questa interattività genotipo-ambiente si manifesta nel fenomeno conosciuto come plasticità fenotipica, il fatto che laddove non vi siano norme di reazioni piatte (p.e., non parallele all’asse dell’ambiente) il fenotipo espresso per un dato genotipo sarà una funzione dell’ambiente.

5. In ultimo, in termini di background scientifico, si evince che è pressoché impossibile misurare le norme di reazione negli umani, per il semplice motivo che non possiamo clonare le persone e crescerle in condizioni controllate (vi sono questioni sia logistiche che etiche a precluderlo). Quindi, possiamo soltanto ipotizzare indirettamente il dato di plasticità di un determinato tratto. Nel caso del QI, noi sappiamo che è plastico (dato che è influenzato da uno sviluppo precoce, dalla disponibilità di risorse materiali, dall’istruzione e così via), ma non sappiamo quanto, e neppure conosciamo la variabilità della plasticità nella specie umana.

Mi scuso per essermi dilungato su questo, ma come ho detto – da una prospettiva strettamente stoica – fare chiarezza scientifica è necessario. Ora, avendo saldamente in mente questo background scientifico, risponderò più specificamente alle tue domande.

Dato che non conosciamo il grado di determinismo genetico del QI (che, come ho detto, non si misura con l’ereditarietà), in un certo senso le tue prime domande si vanificano. Lo stoico non se ne farebbe nulla del QI e della genetica per la semplice ragione che non se ne sa molto. Non è una conoscenza pratica su cui basarsi.

Vorrei puntualizzare che gli stessi stoici furono, di fatto, sia materialisti che deterministi: credevano in una causa ed effetto universale. Le persone tendono a dimenticare che la nostra genetica non è la sola cosa che contribuisce a determinare la nostra vita. Le influenze ambientali sono anche loro deterministiche, e così pure (complesse e difficilissime da misurare) lo sono le interazioni genetico-ambientali, congiuntamente raccolte dalle idee di plasticità e norme di reazione. Così, in un certo senso, dal punto di vista stoico la domanda è mal posta: a prescindere che sia dai geni, dalle condizioni ambientali o (molto più realisticamente) da entrambi, la nostra vita è comunque determinata.

[Questo spesso, ed erroneamente, porta le persone a una sorta di nichilismo. Tratterò la risposta stoica a questa reazione, nota come “argomento futile”, la prossima settimana.]

Comunque, per quanto riguarda l’intelligenza, le tue domande successive restano pertinenti: cosa direbbe uno stoico a chi è dotato di un’intelligenza mediocre ma vuole disperatamente raggiungere una competenza in abilità di alto livello? Una vita a perseguire i propri sogni, anche costantemente e inevitabilmente fallendo, è più significativa di una vita in si è rinunciato ai propri sogni?

Vorrei iniziare dicendo che uno stoico non direbbe nulla a nessuno, a meno che non gli sia chiesto esplicitamente (come tu stai facendo con me). Non si impugna lo stoicismo come un bastone per colpire gli altri sulla testa. È, innanzitutto e principalmente, per il proprio miglioramento personale.

Comunque, supponendo che qualcuno ti chieda un consiglio, la prima risposta come stoico sarebbe che la sola vita degna di essere perseguita è quella dell’eccellenza morale ottenuta con la pratica delle virtù. E questo non ha nulla a che vedere con il tipo di lavoro ci si ritrova a fare, cosa che cade sotto la categoria degli indifferenti preferibili. Sull’argomento Seneca dice:

“La virtù non è cambiata dalle situazioni; quelle spiacevoli e difficili non la rendono peggiore, come non la rendono migliore quelle gioiose e liete. … Metti da una parte un uomo onesto e ricco, dall’altra uno nullatenente ma che possiede tutto dentro di sé: entrambi saranno ugualmente uomini onesti, anche se godono di una diversa fortuna. (Lettera LXVI, Sui vari aspetti della virtù, 15 e 22). [2]

Cambia “ricchezza” e “fortuna” con “professione” e “QI”, e il senso è lo stesso.

Poi, gli stoici erano persone molto pratiche: se qualcosa si rivela irraggiungibile, allora è folle continuare a sognarci sopra. Si deve invece fare il punto della situazione e focalizzarsi su che cosa si può fare e farlo al meglio.

Io posso sognare di essere un grande calciatore ma non ne ho la costituzione, non sono portato e non ho iniziato ad allenarmi quando ero abbastanza giovane. Sarebbe sciocco da parte mia continuare a sognarci sopra trascurando la mia professione attuale, rischiando forse la povertà per la mia famiglia come conseguenza dei miei sogni. Lo stesso si applica nel voler essere un attore, un musicista, uno scrittore o un banchiere di Wall Street (anche se devo ammettere che quest’ultimo è il più remoto dei miei sogni).

Ci tengo a dire, tuttavia, che questo non è un consiglio a rassegnarsi di fronte all’avversità. Anche ben prima di diventare stoico, ero determinato a perseguire una carriera accademica. Sapevo che questo era pressoché impossibile in Italia, dove sono cresciuto, per la cronica carenza di fondi e ancor più per il canceroso livello di nepotismo nelle università. Così me ne sono andato e mi sono trasferito negli Stati Uniti, dove una combinazione di fortuna, determinazione e qualche talento mi hanno permesso di diventare ciò che sognavo di diventare.

Se avessi beneficiato dello Stoicismo fin dall’inizio, avrei fatto esattamente la stessa cosa, ma il mio atteggiamento sarebbe stato più sano. Proprio come nel caso del famoso arciere nel “De Finibus” di Cicerone, diventare un professore universitario sarebbe stato “da scegliere e non da desiderare”, in quanto la decisione di perseguire questa carriera e gli sforzi che ho fatto, spettavano a me; ma l’esito finale non è stato:

“Se un uomo si proponesse di colpire con un giavellotto o una freccia un bersaglio, il suo scopo finale,  che per noi corrisponde al sommo bene, farebbe tutto quel che può per centrarlo. L’uomo, in questo contesto, dovrebbe fare di tutto per colpirlo; benché faccia di tutto per colpirlo, per noi il suo “Fine ultimo”, per così dire, corrisponderebbe a ciò che chiamiamo il Sommo Bene nel vivere la vita, e colpire il bersaglio, in realtà, per noi sarebbe “da scegliere” e non “da desiderare”.” (Cicerone, De Finibus Bonorum et Malorum, III 22)

Traduzione: Paola (con revisione dell’autore)
Testo originale: On determinism and the pursuit of your dreams

Note

[1]  Heritability: a handy guide to what it means, what it doesn’t mean, and that giant meta-analysis of twin studies

[2] Citazione in italiano da: Seneca, Lettera a Lucilio – Ed. Acrobat (a cura di Patrizio Sanasi)

* Genotipo – Costituzione genetica, patrimonio ereditario di un individuo. Il risultato dell’interazione fra il genotipo di un individuo e l’ambiente nel quale i geni si esprimono costituisce il fenotipo.  (NdT, da Treccani.it)

* Fenotipo – In genetica, l’insieme delle caratteristiche morfologiche e funzionali di un organismo determinate dall’interazione fra la sua costituzione genetica e l’ambiente. (NdT, da Treccani.it)

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