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Archivi della categoria: Linguaggio

Quando abbiamo iniziato a “vedere” il colore blu?, Davide Giorgio Berta

02 mercoledì Nov 2022

Posted by Paola in Evoluzione, Linguaggio, Scienza

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Perchè il cielo è blu? È una delle domande più comuni poste da bambini e adulti, a meno che non si provenga dall’antica Grecia, dove il blu non lo consideravano proprio. Se pensiamo che questo Paese è conosciuto in tutto il mondo per i suoi tipici tetti blu, le acque cristalline e una bandiera bianca e blu, è logico supporre che abbia una lunga tradizione con questo colore. Invece, niente di più sbagliato. Leggendo Omero, il famoso poeta greco dell’VIII secolo a.C., notiamo che la parola “blu” non viene menzionata una singola volta. Nelle centinaia di pagine de “L’Iliade“, il nero è menzionato 170 volte, il bianco 100, il rosso 13 volte, il giallo e il verde 10 volte ciascuno, mentre il blu non compare mai. Un fatto curioso è che Omero descrive l’oceano, color “vino scuro”. Altre stranezze cromatiche riguardano il “verde miele” e il “viola pecora”.

Inizialmente si pensava che gli antichi Greci vedessero i colori in modo diverso da come li percepiamo oggigiorno, o che fossero tutti daltonici. Tuttavia non è così. Ora sappiamo che la visione dei colori si è sviluppata circa 30 milioni di anni fa, quindi non è possibile che i Greci antichi vedessero i colori in modo diverso. La situazione diventa ancora più curiosa quando vengono considerate anche altre civiltà antiche: quasi nessuna ha mai utilizzato la parola “blu” nei propri testi.

Dai testi islandesi agli antichi poemi epici indiani risalenti a circa 4000 anni fa, dagli antichi scritti cinesi fino all’originale Bibbia ebraica, nessuno menziona il colore blu, mentre tutti menzionano il nero, il bianco e il rosso, e molti, inclusa la Bibbia, anche il verde e il giallo. Ad esempio, in questi testi l’oceano viene descritto come ampio, tempestoso e silenzioso, ma mai blu.

A partire dalla metà del XIX secolo, i linguisti iniziarono ad analizzare la storia delle lingue e scoprirono qualcosa di peculiare: in ogni cultura, il bianco e il nero sono i primi colori a comparire, poi subentra il rosso, poi il giallo e infine il verde. Il blu è sempre l’ultimo colore ad essere introdotto nel linguaggio di ogni cultura. Nel corso degli anni, i ricercatori hanno scoperto alcune piccole eccezioni con l’ordine di apparizione di verde e giallo, che ogni tanto si scambiano di posizione, ma il rosso è sempre il terzo e il blu l’ultimo.

Perché questo ordine? Ci sono due teorie principali.

Una è più semplice e riguarda il processo evolutivo. Il bianco e il nero aiutano a distinguere tra notte e giorno, luce e buio, e sono i più chiari e utili, quindi ogni cultura li assimila per primi. Il rosso è spesso associato al sangue oppure a un pericolo. Inoltre anche i volti umani e la comunicazione sfruttano il colore rosso, per esempio attraverso la risposta galvanica della pelle, come quando si arrossisce o si è stressati. Il verde e il giallo potrebbero essere stati introdotti nel linguaggio in seguito alla necessità di distinguere tra cibi maturi e acerbi. E il blu? Ci sono pochissime cose blu con le quali si interagisce: i frutti blu sono piuttosto rari, e lo stesso vale per gli animali.

In base alla seconda ipotesi, una parola non entra a far parte del linguaggio di un popolo fino a quando le persone non hanno utilizzato l’elemento che questa descrive. Il rosso è il colore più facile e accessibile, perché basta prendere un pezzo di argilla secca e usarlo come un pastello. Pensiamo alle pitture rupestri: la maggior parte dei dipinti contengono il nero e il rosso. Mentre il blu? È uno dei colori più difficili da creare. Per migliaia di anni, nessuno è stato in grado di produrlo, ad eccezione degli antichi Egizi, che infatti avevano una parola per descriverlo. (segue)

Testo integrale:https://trustinscience.com/2021/10/15/colore-blu/

L’imprescindibile umanità delle scienze, dialogo con Isabella Blum (da Il Tascabile)

03 sabato Set 2022

Posted by Paola in Coscienza, Intervista, Libri, Linguaggio, Neoscienze, Percezione, Società

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Parole scientifiche e parole letterarie: un dialogo con Isabella C. Blum, traduttrice dei libri di Oliver Sacks e di tanti altri grandi saggi scientifici.

Isabella C. Blum è biologa e traduttrice. Ha tradotto e curato libri per moltissime case editrici, da romanzi a testi scolastici, specializzandosi poi in “saggistica letteraria”: è, per esempio, la voce italiana di Oliver Sacks per Adelphi. Ha tradotto negli anni i libri del neuroscienziato Antonio Damasio, del biologo Stephen J. Gould, del matematico John D. Barrow, del Peter Godfrey Smith. Ma anche classici della scienza scritti da Francis Crick, James Dewey Watson, Charles Darwin.

Che si tratti di biologia o astrofisica, neuroscienze o storia della psichedelia, il lavoro di Blum è sempre al confine fra traduzione scientifica e traduzione letteraria, cercando di riportare in lingua italiana i migliori divulgatori di lingua inglese: grandi scienziati quindi, ma anche ottimi scrittori. Un lavoro fatto di attenzione e cura ai dettagli, chiarezza espositiva e orecchio per lo stile, rigore accademico e poesia.

Vorrei partire dall’inizio: qual è la sua formazione? Come è arrivata a fare il lavoro che fa?

Sono due domande molto diverse. La prima è quella più semplice. La mia formazione è stata fortunatamente, o forse dovrei dire fortunosamente, eclettica. Ho avuto una madre innamorata della letteratura e dell’arte, della lettura e della scrittura, e un padre con una cultura da ingegnere; ho fatto un liceo classico nel corso del quale mi sono capitati (anche) alcuni splendidi docenti, ho studiato musica con un grande Maestro, e ho una laurea scientifica. Tutti questi sono tasselli che hanno contribuito in modo importante alla mia forma mentis, infondendomi l’amore per le parole, per la lettura e la scrittura, l’approccio scientifico al testo, e una certa sensibilità musicale. A posteriori, l’insegnamento più alto che mi venne dal mio Maestro di pianoforte, Alberto Mozzati, fu quello del rispetto verso se stessi e quindi verso il proprio lavoro. Mai esibirsi impreparati, mai o la va o la spacca, sempre un’attenzione certosina – amorevole – al dettaglio: il dettaglio che non è minuzia irrilevante ma componente essenziale. Non pedanteria ma cura. Sono insegnamenti fondamentali, non solo per un musicista, non solo per un traduttore; io li ricevetti da adolescente e li capii molto più tardi. Me li porto sempre dentro.

Per quanto riguarda la seconda domanda, cioè come io sia arrivata alla traduzione – rispondere è un po’ più complicato. Posso dire che terminati gli studi universitari – studi scientifici: io sono laureata in Scienze Biologiche – la mia idea era quella di fare ricerca, possibilmente rimanendo nell’ambiente accademico, oppure anche in campo farmaceutico. Avevo però una grande passione per la divulgazione scientifica e per la scrittura, e quindi avevo già pensato anche a uno sbocco professionale alternativo, in ambito editoriale. Quando capii che le possibilità di guadagnarmi da vivere rimanendo all’università erano prossime allo zero, mi attivai cercando lavoro sia nelle aziende farmaceutiche, sia proponendomi come traduttrice alle case editrici. Fui assunta da una casa farmaceutica che non mi impiegò nella ricerca, ma nel lavoro sulla documentazione scientifica relativa ai suoi prodotti. E contemporaneamente ottenni i primi contratti per traduzioni editoriali – saggistica scientifica. Per qualche anno seguii questo doppio binario, poi decisi che il lavoro editoriale mi interessava decisamente di più, e la mia attività si concentrò in modo sempre più esclusivo sulla saggistica scientifica. (segue)

Testo integrale:https://www.iltascabile.com/scienze/isabella-c-blum/

L’osco, questo strano conosciuto – S. Cabriolu (da “Il Mercurio”)

28 giovedì Lug 2022

Posted by Paola in Linguaggio, Società, Storia

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A tutti sarà capitato di sentire parlare, anche solo di sfuggita, del popolo degli ‘Osci’ o ‘Oschi’, e della lingua osca, e magari avrà inteso che si tratta di un’antica cultura della nostra penisola. Ma di preciso di che cosa stiamo parlando? Di quale popolo, di quale lingua? E quale è l’eredità che ci ha lasciato, l’impronta che persiste nell’italiano dei nostri giorni? Lo scopriremo insieme, e queste domande ci porteranno a rievocare un passato dal sapore italiano o, meglio, italico, ma di respiro ampio. Basti pensare a parole di uso comunissimo come ʻpadreʼ o ʻdonoʼ le quali, in lingua osca, suonano come patír e dúnúm, non poi tanto diverse da lingue più note come il latino pătĕr e dōnum, il greco πατήρ (patḕr) e δῶρον (dṑron) il sanscrito dāna e pitṛ.

L’osco era una lingua indoeuropea e la sua vastissima area di estensione andava da Messina, attraverso il Bruttium (Calabria) e la Lucania (quasi tutta l’odierna Basilicata) e parte dell’area apula (attuale Puglia con l’esclusione della penisola salentina), fino alla Campania, al Samnium (pressappoco corrispondente a buona parte dell’attuale Molise, alla fascia meridionale dell’Abruzzo nonché ai settori nord-orientali della Campania) e alla regione costiera adriatica centrale popolata dai Frentani (Abruzzo adriatico meridionale). La lingua osca era parlata grosso modo dal VI-V secolo a.C. fino al processo di romanizzazione (circa I secolo a.C.), vale a dire l’egemonia politica di Roma sulle altre popolazioni italiche tra le quali, appunto, gli Osci. Il processo di romanizzazione ebbe come immediata conseguenza la cosiddetta latinizzazione linguistica, cioè la diffusione del latino rispetto alle altre preesistenti tradizioni linguistiche che concorsero alla preistoria dell’italiano.  (segue)

Ttesto integrale: https://unaparolaalgiorno.it/articoli/lingue-e-popoli/l-osco-questo-strano-conosciuto-55

Sensemaking

28 sabato Mag 2022

Posted by Paola in Coscienza, Filosofia, Linguaggio, Neoscienze, Percezione, Società

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1. Nell’organizzazione

Il sensemaking o sense-making è il processo attraverso il quale le persone danno significato alle loro esperienze collettive. È stato definito come “lo sviluppo retrospettivo in corso di immagini plausibili che razionalizzano ciò che le persone stanno facendo”. Il concetto è stato introdotto negli studi organizzativi da Karl E. Weick negli anni ’70 e ha influenzato sia la teoria che la pratica. Weick intendeva incoraggiare uno spostamento dal tradizionale focus dei teorici dell’organizzazione sul processo decisionale e verso i processi che costituiscono il significato delle decisioni che vengono emanate nel comportamento.

Non esiste una singola definizione concordata di sensemaking, ma c’è consenso sul fatto che si tratta di un processo che consente alle persone di comprendere questioni o eventi ambigui, equivoci o confusi. I disaccordi sul significato del sensemaking consistono se consideare il sensemaking come un processo mentale all’interno dell’individuo, un processo sociale o un processo che si verifica come parte della discussione; oppure se sia un processo quotidiano in corso oppure si verifica solo in risposta a eventi rari; oppure se sensemaking descrive gli eventi passati oppure considera il futuro.

[da: https://en.wikipedia.org/wiki/Sensemaking]

2. Nella Scienza dell’informazione

Mentre il sensemaking è stato studiato da altre discipline sotto altri nomi per secoli, nella scienza dell’informazione e nell’informatica il termine “sensemaking” ha segnato principalmente due argomenti distinti ma correlati. Il sensemaking è stato introdotto come metodologia da Brenda Dervin negli anni ’80 e nell’interazione uomo-computer dai ricercatori PARC Daniel Russell, Mark Stefik, Peter Pirolli e Stuart Card nel 1993.Nella scienza dell’informazione, il termine è spesso scritto come “sense-making”. In entrambi i casi, il concetto è stato utilizzato per riunire le intuizioni tratte dalla filosofia, dalla sociologia e dalle scienze cognitive (in particolare dalla psicologia sociale). La ricerca sul sensemaking viene quindi spesso presentata come un programma di ricerca interdisciplinare.

Come processo – Il sensemaking può essere descritto come un processo di sviluppo di una rappresentazione sofisticata e di organizzazione delle informazioni per servire un compito, ad esempio, il processo decisionale e la risoluzione dei problemi (Russell et al., 1993). Gary A. Klein e colleghi (Klein et al. 2006b) concettualizzano il sensemaking come un insieme di processi che viene avviato quando un individuo o un’organizzazione riconosce l’inadeguatezza della loro attuale comprensione degli eventi. Il sensemaking è un processo attivo a due vie di inserimento dei dati in un frame (modello mentale) e l’installazione di un frame intorno ai dati. Né i dati né la cornice vengono prima; i dati richiamano i frame e i frame selezionano e collegano i dati. Qualora non vi sia un’adeguata corrispondenza, i dati possono essere riesaminati o un quadro esistente può essere rivisto. Questa descrizione assomiglia al modello di riconoscimento-metacognizione (Cohen et al., 1996), che descrive i processi metacognitivi che vengono utilizzati dagli individui per costruire, verificare e modificare modelli di lavoro (o “storie”) nella consapevolezza situazionale per spiegare una situazione non riconosciuta. Tali nozioni riecheggiano anche i processi di assimilazione e di accomodamento nella teoria dello sviluppo cognitivo di Jean Piaget.

Come metodologia – Brenda Dervin ha studiato il sensemaking individuale, sviluppando teorie sul “gap cognitivo” che gli individui sperimentano quando tentano di dare un senso ai dati osservati. Poiché gran parte di questa ricerca psicologica applicata si basa sul contesto dell’ingegneria dei sistemi e dei fattori umani, mira a rispondere alla necessità che i concetti e le prestazioni siano misurabili e che le teorie siano verificabili. Di conseguenza, il sensemaking e la consapevolezza situazionale sono visti come concetti di lavoro che consentono ai ricercatori di indagare e migliorare l’interazione tra le persone e le tecnologie dell’informazione. Questa prospettiva sottolinea che gli esseri umani svolgono un ruolo significativo nell’adattarsi e rispondere a situazioni inaspettate o sconosciute, così come situazioni riconosciute. Il lavoro della Dervin si è in gran parte concentrato sullo sviluppo di una guida filosofica per il metodo, compresi i metodi di teorizzazione sostanziale e la conduzione della ricerca.

Interazione uomo-computer – Dopo la pubblicazione nel 1993 (Russell et al., 1993) di un documento fondamentale sul sensemaking nel campo dell’interazione uomo-computer (HCI), ci fu molta attività sulla comprensione di come progettare sistemi interattivi per il sensemaking, e workshop sul sensemaking si sono svolti in importanti conferenze HCI.

[da: https://en.wikipedia.org/wiki/Sensemaking_(information_science)]

Traduzione: Paola

La musica della pre-morte, G. Tedoldi (da Il Tascabile)

22 lunedì Nov 2021

Posted by Paola in Coscienza, Linguaggio, Percezione, Società, Stati altri di coscienza

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Sono sempre stato affascinato dal Tardo Stile, le ultime opere degli scrittori, dei pittori, ma soprattutto dei musicisti. Non sarà casuale che la stessa espressione è più ricorrente nei libri di storia della musica che altrove, e la si adopera canonicamente per riferirsi alle ultime sonate per pianoforte e agli ultimi quartetti per archi di Beethoven, alla Missa Solemnis e alla Nona sinfonia, insomma a quel gruppo variegato di lavori composti nell’ultimo decennio di vita del maestro di Bonn. Così, in base a una semplice curiosità (“qual è stata l’ultima composizione di Chopin?”) ho passato alcuni giorni a ascoltare e riascoltare questi lavori, alcuni dei quali, come il Quartetto in fa min. op 80 di Felix Mendelssohn o le ultime mazurke di Chopin, scritti a pochi mesi dalla morte. Perché mi domando: ne erano coscienti? Sapevano che stava per finire? Se sì, questa consapevolezza come si incarna, o da cosa trapela? E si può, fissando l’appressarsi della morte, riuscire a buttare giù note su un pentagramma? Cosa produce la doppia visione di questo e dell’altro mondo?

Tali opere terminali rappresentano, oltre al valore artistico, delle specie di NDE, Near Death Experiences, esperienze di pre-morte, e non c’è dubbio che questo aspetto, se si vuole un po’ necrofilo, mi attragga non meno (e forse più) di valutazioni e confronti di tipo stilistico o storico-estetico, complessivamente riconducibili a un’osservazione del musicologo Carl Dahlhaus: “la modernità dell’‘opera tarda’ non consiste nel fatto che anticipa un pezzo di futuro: la modernità di Bach, Beethoven e Liszt è stata scoperta solo dopo che il futuro che essa anticipava era divenuto da tempo presente”. Affermazione che avanza una pretesa di validità universale anche se, per citare un caso esotico quanto si vuole e, certo, non alla veggente altezza di Bach, Beethoven o Liszt, il futuro dell’Opus Clavicembalisticum di Kaikhosru Sorabij che, pur essendo stato completato a quasi sessant’anni dalla morte dell’autore, nasce già inseguendo un miraggio di Tardo Stile, è decaduto nel passato senza mai lambire il presente. “Può esistere un artista che non trova la sua epoca, e un’epoca che non trova il suo artista” diceva Burckhardt, e può accadere che l’allineamento, come tra corpi celesti incommensurabilmente distanti, non si verifichi mai. Il Tardo Stile è il cosciente, più radicale e misterioso tentativo di un artista di disallinearsi da tutti gli altri corpi orbitanti nel cielo della sua epoca. (continua)

Articolo integrale: La musica della pre-morte, il Tascabile

Le lingue modificano il modo in cui guardiamo il mondo?, F. Batisti (da Il Tascabile)

05 venerdì Nov 2021

Posted by Paola in Linguaggio, Percezione, Società

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Immaginate di essere ospiti a casa di qualcuno per un tè. Passato un po’ di tempo chiedete dov’è il bagno e il padrone di casa vi dice “dopo il corridoio gira a sud, poi la seconda porta a ovest”. Con tutta probabilità siete in casa di una persona che parla una lingua diversa dalla vostra, una delle molte di lingue che si basano su un sistema di coordinate spaziali geografiche, “assolute” invece che “egocentriche” come quelle a cui siamo abituati (per cui il bagno è “dopo il corridoio a destra, poi la seconda porta a destra”). Secondo l’antropologo Stephen Levinson, che ha studiato le conseguenze cognitive della descrizione spaziale nella lingua guugu yimithirr, popolazione aborigena australiana, chi parla questo genere di lingue è costretto a costruirsi una sorta di “bussola mentale” per soddisfare la richiesta di essere costantemente a conoscenza della direzione cardinale in cui si è orientati – e finisce per ricordarla anche a distanza di anni, quando racconta qualche evento che ha vissuto.

La struttura di una lingua richiede di rispettare determinate regole per poter essere parlata in maniera coerente e comprensibile. Ciò che tutti noi facciamo imparandone una qualsiasi è abituarci lentamente ma inesorabilmente a fare nostre queste “richieste” e ciò, verosimilmente, lascia un segno permanente nei meccanismi della nostra mente. Possiamo dire che le lingue impongono ai propri parlanti un’immagine della realtà che è diversa da lingua a lingua? Che una lingua può cambiare la comprensione dei concetti più basilari di chi la parla, come lo scorrere del tempo, la posizione degli oggetti, la dinamica degli avvenimenti?

L’affascinante e controversa idea che ciascuna lingua contribuisca a costruire la realtà oggettiva dei propri parlanti è stata chiamata nei primi decenni del Novecento “relatività linguistica”, in un audace tentativo di analogia con la relatività in fisica, che in quegli anni aveva dato grande popolarità ad Albert Einstein. Senza scendere nei dettagli della sua genesi, possiamo dire che quest’idea viene etichettata ancora oggi come “ipotesi Sapir-Whorf”, dal nome del linguista Edward Sapir e del suo allievo Benjamin Lee Whorf, a dispetto del fatto che né i due formularono una singola proposta nettamente identificabile come tale, né tantomeno lo fecero congiuntamente. Di solito, ad essere riconosciuto come padre del “principio di relatività linguistica” è infatti il solo Whorf, noto per la sua eclettica vita intellettuale. Studiò ingegneria chimica all’MIT senza brillare e per mantenersi, in seguito, lavorò come perito chimico per una società di assicurazioni. Infine si iscrisse a Yale seguendo le lezioni di linguistica di Sapir, di cui finì addirittura per rilevare la cattedra a ridosso della morte, prima che lo stesso Whorf morisse prematuramente di cancro. Whorf si avvicinò allo studio del linguaggio tramite la lettura di testi settecenteschi d’ispirazione cabalistica che ravvisavano un rapporto speciale tra lingua e misticismo, e per quanto negli anni di Yale fosse rientrato, per così dire, nei binari della linguistica scientifica del tempo (tanto che svolse approfondite ricerche sul campo studiando lingue di comunità native meso e nordamericane), l’interesse per il mistico non lo abbandonò mai: il suo ultimo saggio, Language, Mind, and Reality, pubblicato postumo, apparve su una rivista indiana di teosofia. (continua)

Testo integrale: https://www.iltascabile.com/scienze/lingua-pensiero-realta/

Shuimòhuà: quando la pittura incontra la filosofia dell’equilibrio, G. Mangialardo (da Il Chiasmo, Treccani)

20 venerdì Ago 2021

Posted by Paola in Filosofia, Linguaggio, Spiritualità, Taoismo

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Shuǐmòhuà, significa “pittura ad inchiostro e ad acqua” ed è uno stile pittorico monocromatico dell’Estremo Oriente che utilizza solo inchiostro nero in varie concentrazioni. Questo tipo di pittura potrebbe richiamare l’acquerello occidentale, ma è in realtà profondamente diverso. La shuǐmòhuà è l’arte che permette di raggiungere l’equilibrio tramite l’annullamento del sé. Per comprenderla bisogna partire dal pensiero sotteso ad essa: il pensiero taoista e zen.

Il taoismo è una filosofia mistica molto antica fondata da Laozi, vissuto nel VI secolo a. C. e autore del Daodejing, cioè libro del Dao e della virtù. Le varie dottrine sono state enunciate da pensatori cinesi vissuti tra il IV ed il III secolo a.C. Il Dao (o Tao) è la via, la norma dell’universo, la spontaneità, l’intelligenza suprema che regola tutte le cose, ed è composto da Yin e Yang, i due opposti che compongono tutte le cose, come per esempio passività e attività, oscurità e luce. È fondamentale la compresenza delle due polarità in ogni cosa, poiché dà origine alle cose e al divenire. Questo concetto è spiegato bene nel secondo capitolo del Daodejing: «tutti nel mondo riconoscono il bello come bello, in questo modo si ammette il brutto. Tutti riconoscono il bene come bene, in questo modo si ammette il male. Infatti, l’essere e il non-essere si generano l’un l’altro».

L’essere si origina dal non-essere. Il Tao è entrambe le cose, e dà origine al divenire. Tuttavia, il Tao non è come un dio, di cui si può parlare, che si può immaginare. Niente di tutto questo: il Tao è inesprimibile e indefinibile, non è possibile contemplarlo attraverso la logica. L’uomo è in pace con se stesso quando raggiunge l’equilibrio e può raggiungere l’equilibrio solo seguendo la Via, cioè il Tao. L’unico modo che si ha per seguire il Tao è liberarsi da ogni costruzione sociale e culturale, dimenticare se stessi, le proprie passioni, i desideri, le emozioni e le pulsioni più profonde, e realizzare il vuoto mentale. Realizzare il vuoto mentale vuol dire osservare senza giudicare, agire senza fini personali, cioè non agire. Il non-agire (wu-wei) è uno dei concetti fondamentali del taoismo, ed è l’atteggiamento che permette di raggiungere la virtù. La virtù autentica è quella del Tao e consiste nella “spontaneità di natura”, normalmente offuscata dall’ambizione umana, dalle leggi dei governi, dalle implicite regole sociali e culturali. Essere in armonia con se stessi vuol dire essere in armonia con la natura propria, come un neonato, o come l’acqua che si adatta ad ogni situazione, ma rimanendole sempre fedele. (segue)

Testo integrale: https://www.treccani.it/magazine/chiasmo/lettere_e_arti/Equilibrio/MAngialardo.html

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