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Archivi della categoria: Libri

L’imprescindibile umanità delle scienze, dialogo con Isabella Blum (da Il Tascabile)

03 sabato Set 2022

Posted by Paola in Coscienza, Intervista, Libri, Linguaggio, Neoscienze, Percezione, Società

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Parole scientifiche e parole letterarie: un dialogo con Isabella C. Blum, traduttrice dei libri di Oliver Sacks e di tanti altri grandi saggi scientifici.

Isabella C. Blum è biologa e traduttrice. Ha tradotto e curato libri per moltissime case editrici, da romanzi a testi scolastici, specializzandosi poi in “saggistica letteraria”: è, per esempio, la voce italiana di Oliver Sacks per Adelphi. Ha tradotto negli anni i libri del neuroscienziato Antonio Damasio, del biologo Stephen J. Gould, del matematico John D. Barrow, del Peter Godfrey Smith. Ma anche classici della scienza scritti da Francis Crick, James Dewey Watson, Charles Darwin.

Che si tratti di biologia o astrofisica, neuroscienze o storia della psichedelia, il lavoro di Blum è sempre al confine fra traduzione scientifica e traduzione letteraria, cercando di riportare in lingua italiana i migliori divulgatori di lingua inglese: grandi scienziati quindi, ma anche ottimi scrittori. Un lavoro fatto di attenzione e cura ai dettagli, chiarezza espositiva e orecchio per lo stile, rigore accademico e poesia.

Vorrei partire dall’inizio: qual è la sua formazione? Come è arrivata a fare il lavoro che fa?

Sono due domande molto diverse. La prima è quella più semplice. La mia formazione è stata fortunatamente, o forse dovrei dire fortunosamente, eclettica. Ho avuto una madre innamorata della letteratura e dell’arte, della lettura e della scrittura, e un padre con una cultura da ingegnere; ho fatto un liceo classico nel corso del quale mi sono capitati (anche) alcuni splendidi docenti, ho studiato musica con un grande Maestro, e ho una laurea scientifica. Tutti questi sono tasselli che hanno contribuito in modo importante alla mia forma mentis, infondendomi l’amore per le parole, per la lettura e la scrittura, l’approccio scientifico al testo, e una certa sensibilità musicale. A posteriori, l’insegnamento più alto che mi venne dal mio Maestro di pianoforte, Alberto Mozzati, fu quello del rispetto verso se stessi e quindi verso il proprio lavoro. Mai esibirsi impreparati, mai o la va o la spacca, sempre un’attenzione certosina – amorevole – al dettaglio: il dettaglio che non è minuzia irrilevante ma componente essenziale. Non pedanteria ma cura. Sono insegnamenti fondamentali, non solo per un musicista, non solo per un traduttore; io li ricevetti da adolescente e li capii molto più tardi. Me li porto sempre dentro.

Per quanto riguarda la seconda domanda, cioè come io sia arrivata alla traduzione – rispondere è un po’ più complicato. Posso dire che terminati gli studi universitari – studi scientifici: io sono laureata in Scienze Biologiche – la mia idea era quella di fare ricerca, possibilmente rimanendo nell’ambiente accademico, oppure anche in campo farmaceutico. Avevo però una grande passione per la divulgazione scientifica e per la scrittura, e quindi avevo già pensato anche a uno sbocco professionale alternativo, in ambito editoriale. Quando capii che le possibilità di guadagnarmi da vivere rimanendo all’università erano prossime allo zero, mi attivai cercando lavoro sia nelle aziende farmaceutiche, sia proponendomi come traduttrice alle case editrici. Fui assunta da una casa farmaceutica che non mi impiegò nella ricerca, ma nel lavoro sulla documentazione scientifica relativa ai suoi prodotti. E contemporaneamente ottenni i primi contratti per traduzioni editoriali – saggistica scientifica. Per qualche anno seguii questo doppio binario, poi decisi che il lavoro editoriale mi interessava decisamente di più, e la mia attività si concentrò in modo sempre più esclusivo sulla saggistica scientifica. (segue)

Testo integrale:https://www.iltascabile.com/scienze/isabella-c-blum/

Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Julian Jaynes (libro)

31 domenica Lug 2022

Posted by Paola in Coscienza, Evoluzione, Filosofia, Libri, Neoscienze, Società, Storia

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Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Julian Jaynes – Edizioni Adelphi

La coscienza della coscienza, Cap. I – Estratto

Quando ci poniamo la domanda:”che cos’è la coscienza?”, diventiamo coscienti della coscienza. E la maggior parte di noi ritiene che proprio questa coscienza della coscienza sia la coscienza. Ma non è così.

Quando siamo coscienti della coscienza, siamo convinti che la coscienza è la cosa più evidente che si possa immaginare. Pensiamo che la coscienza sia l’attributo che definisce tutti i nostri stati di veglia, i nostri stati d’animo e sentimenti, i nostri ricordi, pensieri, attenzioni e volizioni. Ci sentiamo confortevolmente sicuri che la coscienza è la base dei concetti, dell’apprendimento e del ragionamento, del pensiero e del giudizio, e che è tale perchè registra e immagazzina le nostre esperienze man mano che si verificano, consentendoci di esaminarle introspettivamente e di imparare da esse a nostro arbitrio. Siamo anche pienamente coscienti che tutto questo meraviglioso complesso di operazioni e di contenuti che chiamiamo coscienza è situato da qualche parte all’interno della testa.

A un esame critico, tutte queste proposizioni si rivelano erronee. Esso sono il costume con cui la coscienza si è mascherata per secoli. Sono le idee errate che hanno impedito di pervenire a una soluzione del problema dell’origine della coscienza. Dimostrare questi errori e indicare che cosa non è la coscienza è il compito lungo, ma io spero avventuroso, di questo capitolo.—

Indice: Introduzione [Il problema della coscienza] – I. La mente dell’uomo [1. La coscienza della coscienza – 2.  La coscienza – 3. La mente dell’Iliade – 4. Il doppio cervello – 5. L’origine della civiltà] – II. La testimonianza della storia [1. Dèi, tombe e idoli – 2. Teocrazie bicamerali in possesso della scrittura – 3. Le cause della coscienza – 4. Una nuova mente in Mesopotamia – 5. La coscienza intellettuale della Grecia – 6. La coscienza morale dei khabiru] – III. Vestigia della mente bicamerale nel mondo moderno [1. La ricerca dell’autorizzazione – 2. Dei profeti e della possessione – 3. Della poesia e della musica – 4. L’ipnosi – 5. La schizofrenia – 6. Gli auspici della scienza] – Post scriptum (1990)

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Julian Jaynes (1920-1997) – La sua carriera di ricercatore fu dedicata al tema della coscienza intesa come “la differenza tra ciò che gli altri vedono di noi e la nostra auto consapevolezza unita al senso profondo che la sostiene. [Wikipedia] – Julian Jaynes Society

Il rumore di un albero che cade, Robert Lanza (estratto)

22 lunedì Nov 2021

Posted by Paola in Coscienza, Filosofia, Libri, Percezione, Personaggi

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Chi di noi non ha mai sentito dire o non ha mai provato a rispondere alla famigerata domanda: «Se un albero cade in una foresta, e nessuno è presente, fa rumore comunque?». Se facessimo un sondaggio veloce tra amici e parenti, dalla maggioranza otterremmo una decisa risposta affermativa. Recentemente mi è stato risposto: «Ma certo che un albero che cade fa rumore», con un pizzico di fastidio tra l’altro, come se la domanda fosse troppo banale per meritare un minimo di attenzione.

Ciò che queste risposte affermano è la certezza nell’esistenza di una realtà oggettiva e indipendente. In effetti, che l’universo possa tranquillamente esistere con o senza di noi è la concezione più diffusa, concezione che s’inserisce perfettamente nella visione occidentale, radicata fin dai tempi biblici, secondo cui nell’economia del cosmo l’uomo sarebbe «una cosa piccola» per importanza e rilievo. Solo poche persone (forse quelle che possiedono una preparazione scientifica adeguata) analizzano correttamente dal punto di vista sonoro ciò che succede quando un albero cade in un bosco.

Qual è il processo che genera un suono? Perdonatemi un breve ripasso delle lezioni di scienze delle medie: il suono viene creato da un disturbo in un mezzo, di solito l’aria, anche se il suono riesce a viaggiare ancora più velocemente e più efficacemente in mezzi più densi, come l’acqua o addirittura l’acciaio. Quando rami e tronchi cadono a terra creano veloci spostamenti d’aria. Una persona sorda riesce a cogliere subito alcuni di questi spostamenti; sono particolarmente percepiti sulla pelle quelli che hanno una frequenza tra le cinque e le trenta volte al secondo. Dunque, quello che la caduta di un albero produce davvero sono veloci variazioni della pressione dell’aria, che si propagano nel mezzo circostante a una velocità di circa 330 metri al secondo. Nel loro espandersi perdono coerenza finché non viene a ristabilirsi l’uniformità nella zona d’aria coinvolta. Tutto questo, con l’ausilio di nozioni scientifiche elementari, è ciò che avviene in assenza di qualsiasi meccanismo orecchio-cervello: una semplice alternanza di zone a pressione più alta con altre a pressione più bassa. Minuscoli e rapidi soffi d’aria. Senza alcun suono annesso.

Adesso porgiamo un orecchio alla scena. Se ci fosse qualcuno nelle vicinanze, quei soffi d’aria farebbero vibrare la membrana timpanica (nota come timpano) del suo orecchio, che a sua volta stimolerebbe delle connessioni nervose solo nel caso in cui l’aria stesse vibrando tra le 20 e le 20000 volte al secondo (con un limite superiore che si aggira sulle 10000 volte per le persone con più di quarant’anni, e con uno ancora più basso per quelli di noi che hanno trascorso un’adolescenza dissoluta sotto il palco di assordanti concerti rock). L’aria che soffia 15 volte al secondo non ha nulla di intrinsecamente differente da quella che pulsa 30 volte al secondo, eppure, per come è strutturata la nostra rete neurale, la prima non produrrà mai un suono da noi percepito. A ogni modo, le terminazioni nervose stimolate dal timpano inviano dei segnali elettrici in una zona del cervello, generando la percezione di un rumore. La natura di questa esperienza è indiscutibilmente simbiotica. Le folate d’aria da sole non costituiscono nessun suono, e questo è ovvio perché i soffi che si ripetono 15 volte al secondo rimangono muti indipendentemente dal numero di orecchie presenti. Solamente quando si ripetono in un determinato intervallo di frequenze la struttura della rete neurale uditiva permette alla coscienza umana di fare esperienza di un rumore.

Per dirla brevemente, un osservatore, un orecchio e un cervello sono in ugual misura indispensabili per l’esperienza generale di un suono, tanto quanto lo sono gli spostamenti d’aria. Il mondo esterno e la coscienza sono correlati. Un albero che cade in una foresta disabitata produce solo folate d’aria silenziose, minuscoli soffi di vento. Quando qualcuno risponde scocciato: «Ma certo che un albero che cade fa rumore anche se non c’è nessuno nei paraggi», sta semplicemente dimostrando la propria incapacità di riflettere razionalmente su un fatto a cui nessuno ha assistito. Non ce la fanno a chiamarsi fuori dal gioco, in qualche modo continuano a vedersi presenti sulla scena quando invece non lo sono affatto. (…)

– Estratto da “Biocentrismo”, R. Lanza e B. Berman – Edizioni Il Saggiatore, 2015

La scomparsa dei riti, Byung-Chul Han (Libro)

30 sabato Ott 2021

Posted by Paola in Filosofia, Libri, Percezione, Personaggi, Società, Storia, Tempo

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La scomparsa dei riti, Byung-Chul Han – Edizioni Nottetempo (estratto)

I riti sono azioni simboliche. Tramandano e rappresentano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità. Creano una comunità senza comunicazione, mentre oggi domina una comunicazione senza comunità. A costituire i riti è la percezione simbolica. Il simbolo (dal greco symbolon) indica originariamente il segno di riconoscimento tra ospiti (tessera hospitalis) L’ospite spezza a metà una tavoletta di argilla e ne dà un pezzo all’altra persona in segno di ospitalità. In tal modo il simbolo serve per il riconoscimento. Questa è una forma particolare di ripetizione:

“Riconoscere non è vedere di nuovo qualcosa. I riconoscimenti non sono una serie di incontri, ma riconoscere significa piuttosto: conoscere qualcosa per ciò che ci è già noto. E costituisce l’autentico processo dell’”accasamento” (Einhausung) umano – una parola di Hegel, che voglio usare in questo caso – il fatto che ogni riconoscimento sia sciolto dalla contingenza della prima presa di conoscenza e sia elevato all’idealità. Noi tutti lo sappiamo assai bene. Nel riconoscimento è implicito il fatto che ora si conosce più propriamente di quanto si potesse fare nella confusione momentanea del primo incontro. Il riconoscere vede il permanente nel fuggevole. [Charles Taylor, Il disagio della modernità]

La percezione simbolica, intesa come riconoscimento, percepisce ciò che dura: il mondo viene liberato dalla propria contingenza e ottiene un che di permanente. Oggi il mondo è assai povero di simboli: i dati e le informazioni non possiedono alcuna forza simbolica, per cui non consentono il riconoscimento. Nel vuoto simbolico si perdono quelle immagini e quelle metafore capaci di dare fondamento al senso e alla comunità stabilizzando la vita. L’esperienza della durata si attenua, mentre la contingenza aumenta radicalmente.

I riti si lasciano definire nei termini di tecniche simboliche dell’accasamento: essi trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa. Riordinano il tempo, lo aggiustano. (…)

Oggi al tempo manca una struttura stabile. Non è una casa, bensì un flusso incostante: si riduce a una mera sequenza di presente episodico, precipita in avanti. Nulla gli offre un sostegno, e il tempo che precipita in avanti non è abitabile.

I riti stabilizzano la vita. Parafrasando Antoine de Saint-Exupèry, potremmo dire che i riti sono nella vita ciò che le cose sono nello spazio. Per Hannah Arendt è la resistenza delle cose a offrire loro un’”indipendenza dagli uomini”. Le cose hanno “la funzione di stabilizzare la vita umana”. La loro oggettività sta nel fatto che “gli uomini, malgrado la loro natura sempre mutevole, possono ritrovare il loro sé”, cioé la loro identità, “riferendosi alla stessa sedia e allo stesso tavolo”. [Richard Sennett, Il declino dell’uomo pubblico]

Le cose sono il punto fermo, stabilizzante della vita. I riti hanno la medesima funzione: stabilizzano la vita per mezzo della proprio medesimezza (Selbigkeit), della loro ripetizione (Wiederholung). Rendono, dunque, la vita resistente. L’odierna coazione a produrre sottrae alle cose la loro resistenza: essa distrugge consapevolmente la durata allo scopo di produrre di più, di costringere a un maggior consumo. L’indugiare, d’altro canto, presuppone cose che durano; se le cose vengono solo usate e consumate, ecco che indugiare diventa impossibile. E dal momento che la stessa coazione a produrre destabilizza la vita smontando ciò che dura nella vita, essa distrugge anche la resistenza della vita, sebbene quest’ultima si allunghi. (…)

Sono le forme rituali che, come la cortesia, rendono possibile non solo un bel rapporto interpersonale, ma anche un bel rapporto delicato con le cose. Nel quadro rituale, le cose non vengono consumate o spese, bensì usate – così possono anche invecchiare. In preda alla coazione a produrre, ci rapportiamo alle cose e al mondo non come utilizzatori, bensì come consumatori. Di ritorno, le cose e il mondo consumano noi. Il consumo senza scrupoli ci attornia insieme alla sparizione, che destabilizza la vita. Le pratiche rituali fanno sì che ci rapportiamo armoniosamente non solo con le altre persone, ma anche con le cose…

Indice: – Avvertenza  – Coazione a produrre  – Coazione all’autenticità  – Rituali di chiusura  – Festa e religione  – La vita in gioco  – La fine della Storia  – L’impero dei segni  – Dal duello alla guerra coi droni  – Dal mito al dataismo  – Dalla seduzione al porno

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– Byung-Chul Han (Seul, 1959), è un filosofo e docente sudcoreano che vive in Germania. I suoi interessi vanno dall’etica alla filosofia sociale, dalla fenomenologia all’antropologia, dall’estetica alle comunicazioni di massa, in particolare nel campo dei cultural studies e in chiave interculturale, prestando attenzione a fenomeni globali e contemporanei. [Wikipedia]

Negli abissi luminosi, A. Tonelli (Libro)

06 mercoledì Ott 2021

Posted by Paola in Coscienza, Filosofia, Libri, Percezione, Percorsi spirituali, Personaggi, Realtà Parallele, Spiritualità, Storia

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Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Grecia antica, a cura di Angelo Tonelli – Edizioni Feltrinelli (2021)

Estratti dall’Introduzione

Nella nostra epoca – contrassegnata dal trionfo della tecnica e della scienza sempre più saldate in un binomio che esalta la dimensione della razionalità funzionale – è già in atto una scissione dell’interiorità, che è destinata a crescere esponenzialmente con la rivoluzione cibernetica in corso di intensificazione, rivoluzione che costringe e costringerà sempre di più gli umani a potenziare il “pensiero meccanico”, ovvero un lógos riduttivo e segmentato, privato del suo respiro cosmico, a tutto svantaggio di quella che Jung chiamava anima, e di quello che i Greci chiamavano noûs. (…)

In altri termini, in Occidente e nel resto del mondo assoggettato al modello occidentale, si è assistito nel corso della storia e negli sviluppi della cultura, ovvero della mente collettiva, a un progressivo “furto d’organo”: ovvero a una castrazione antropologica dell’umanità, vale a dire all’amputazione del centro più profondo degli individui che li connette all’armonia segreta del cosmo. Ciò è avvenuto attraverso il silenziamento, o la caricatura o la ghettizzazione di tutte le esperienze mistiche, iniziatiche, sapienziali ben radicate nel nostro Occidente greco e magnogreco, a sua volta originariamente connesso con il sostrato sciamanico e sapienziale eurasiatico. In questo consiste l’inattuale attualità delle esperienze sciamaniche, mistiche e sapienziali di cui qui si tenta di offrire una significativa sintesi al lettore che non si accontenti di una politematica escursione nell’antropologia del mondo antico, ma miri a cogliere vertici coscienziali e abissi luminosi e numinosi che i nostri padri e madri spirituali sapevano elicitare ora in lampeggiamenti e folgorazioni estatiche, ora in vertigini mistiche e iniziatiche. E condensarle nelle voci più alte della Sapienza, da Pitagora a Eraclito a Empedocle a Parmenide. E altri ancora. (…)

Per i Greci il noûs, già in Parmenide, Eraclito, Empedocle, e poi in Aristotele, Platone, e ancora più tardi in Plutarco, negli Oracoli caldaici e nel Neoplatonismo, è l’intuizione profonda, l’“occhio dell’anima”, il fulcro dell’interiorità individuale che tutto connette e ricompone nel Grande Uno. È il distillato sapienziale di esperienze – e non percorsi intellettuali – sciamaniche, meditative, contemplative che coinvolgono sangue e sentire, pensiero ed emozione dilatando i confini dell’organismo psicocorporeo ed egoico (il luogo del principium individuationis) fino a traboccare – nella trance dionisiaca, nell’ékstasis apollinea – in un Oltre che è interiorità profonda del singolo che si rovescia in profonda cosmicità del medesimo: coscienza oceanica, luogo in cui il singolo coincide con l’Uno, o meglio in cui l’Assoluto che è nel singolo è ipso facto l’Assoluto che è nell’Uno e di cui l’Uno è nome, perché dell’Assoluto non si può predicare nulla.

A questo stato di coscienza approssimano lo sciamanesimo e le esperienze di trance ed estasi della Grecia antica, ma anche musica e danza e poesia, con diversi gradi di intensità, e diversi approcci. (…)

(Testi originali latino e greco a fronte)

Indice
– Introduzione – Dioniso – Coribanti, musica e manìa – Oracoli e sciamanesimo apollineo – I misteri di Samotracia – Epimenide – Abaris – Ermotimo – Aristea – Zalmoxis – Appendice iconografica

Angelo Tonelli – (1954) poeta, autore e regista teatrale, tra i massimi grecisti viventi, ha studiato Filosofia Antica a Pisa con Giorgio Colli. Ha pubblicato tra l’altro diverse opere di poesia e saggi. Per i “Classici” di Feltrinelli ha tradotto e curato Dell’Origine (1993) di Eraclito, La terra desolata. Quattro quartetti (1995) di T.S. Eliot, il primo volume di Le parole dei Sapienti (2010), dedicato a Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso e il volume Eleusis e Orfismo (2015)

L’ardore, R. Calasso (Libro)

29 giovedì Lug 2021

Posted by Paola in Intervista, Libri, Percorsi spirituali, Società, Spiritualità, Storia, Video

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L’ardore, Roberto Calasso (Ed. Adelphi, 2010)

Qualcosa di immensamente remoto dall’oggi apparve più di tremila anni fa nell’India del Nord: il Veda, un «sapere» che comprendeva in sé tutto, dai granelli di sabbia sino ai confini dell’universo. Distanza che si avverte nel modo di vivere ogni gesto, ogni parola, ogni impresa. Gli uomini vedici prestavano un’attenzione adamantina alla mente che li reggeva, mai disgiungibile da quell’«ardore» da cui ritenevano si fosse sviluppato il mondo. L’attimo acquistava senso in rapporto a un invisibile traboccante di presenze divine. Fu un esperimento del pensiero così estremo che sarebbe potuto scomparire senza lasciare traccia del suo passaggio nella «terra dove vaga in libertà l’antilope nera» (così veniva definito il luogo della legge). Eppure quel pensiero – groviglio composto da inni enigmatici, atti rituali, storie di dèi e folgorazioni metafisiche – ha l’indubitabile capacità di illuminare con luce radente, diversa da ogni altra, gli eventi elementari che appartengono all’esperienza di chiunque, oggi e dappertutto, a cominciare dal puro fatto di essere coscienti. Così collidendo con molte di quelle che vengono ormai considerate ferme acquisizioni. Questo libro racconta come attraverso i «cento cammini» a cui allude il titolo di un’opera smisurata e capitale del Veda, lo Satapatha Brahmana, si può raggiungere ciò che sta davanti ai nostri occhi passando attraverso ciò che da noi è più lontano.

INDICE: 1. Esseri remoti – 2. Yajnavalkya – 3. Animali – 4. Progenitori – 5. Coloro che videro gli Inni – 6. Dalle avventure di Mente e Parola – 7. Atman – 8. La veglia perfetta – 9. I Brahmana – 10. La linea dei fuochi – 11. L’erotica vedica– 12. Dei che offrono libagioni – 13- Residuo e sovrappiù – 14. Solitari nella foresta – 15. Ritologia – 16. La visione sacrificale – 17. Dopo il diluvio – 18. Tiki – 19. L’atto di uccidere – 20. La corsa dell’antilope nera – 21. Il re Soma – Antecedenti e conseguenti – Fonti

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Intervista a Roberto Calasso (Che tempo che fa, 2010) Presentazione del libro

Prologo, J. O’Donohue (da Anam Cara)

11 mercoledì Nov 2020

Posted by Paola in Libri, Percezione, Percorsi spirituali, Spiritualità, Tempo

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Prologo, John O’Donohue (dal libro “Anam Cara”, Ed. Corbaccio – fuori catalogo)

È strano essere qui. Il mistero non ci lascia mai soli. Dietro la nostra immagine, dietro le nostre parole, prima dei nostri pensieri, dietro la nostra mente, il silenzio di un altro mondo è in attesa. Un mondo vive in noi; nessun altro può portarci notizie di questo mondo interiore.

Ognuno è un artista: aprendo le labbra, facciamo uscire suoni dalla montagna che giace sotto l’anima; questi suoni sono le parole. Il mondo è pieno di parole; sono tanti a parlare senza sosta, ad alta voce, quietamente, nelle stanze, per strada, alla televisione, alla radio, sul giornale, nei libri. Il rumore delle parole trattiene per noi quello che chiamiamo mondo. Prendiamo suoni gli uni dagli altri e facciamo progetti, predizioni, benediciamo e bestemmiamo. Ogni giorno, la nostra tribù di linguaggio tiene insieme il mondo. L’emissione delle parole rivela quanto ciascuno di noi inesorabilmente crei. Ogni persona porta il suono fuori dal silenzio e convince l’invisibile a farsi visibile.

Gli esseri umani sono nuovi, qui; sopra di noi, le galassie danzano verso l’infinito; sotto i nostri piedi, è l’antica terra e di questa argilla siamo splendidamente plasmati. La più piccola pietra, tuttavia, è milioni di anni più vecchia di noi. Nei nostri pensieri l’universo silenzioso cerca un’eco.

Un mondo sconosciuto vuole essere riflesso: le parole sono gli specchi inclinati che fermano i nostri pensieri. Fissiamo lo sguardo in queste parole-specchi e cogliamo barlumi di significato, di appartenenza e protezione; dietro le loro lucenti superfici sono tenebra e silenzio. Le parole sono come il dio Giano, guardano all’interno e all’esterno contemporaneamente.

Se finiamo per assuefarci all’esterno, la nostra interiorità ci abbandonerà e saremo affamati di un desiderio che nessuna immagine, nessuna persona o azione potrà placare. Per rimanere integri dobbiamo restare fedeli alla nostra vulnerabile complessità; per mantenere il nostro equilibrio dobbiamo tener legati l’interno e l’esterno, il visibile e l’invisibile, il noto e l’ignoto, il temporale e l’eterno, il vecchio e il nuovo. Nessun altro può affrontare per noi questo impegno: siamo l’unico accesso a un mondo interiore.

Questa sanità è anche santità: essere santi significa essere naturali, amare i mondi che giungono a equilibrio in noi. Dietro alla facciata di immagine e distrazione, ogni persona è un artista in questo primario e ineludibile senso: ciascuno di noi è destinato e privilegiato a essere l’artista interiore che possiede un mondo unico e gli dà forma.

La presenza umana è un sacramento creatore e tumultuoso, un segno visibile della grazia invisibile. In nessun altro luogo esiste un accesso così intimo e spaventoso al mistero. L’amicizia è la dolce grazia che ci rende liberi di avvicinare, riconoscere e abitare questa avventura. Questo libro vuole essere uno specchio inclinato che ci permetta di intravedere la presenza e la potenza dell’amicizia interiore ed esteriore.

L’amicizia è una forza creatrice e sovversiva, o pretende che l’intimità sia la legge segreta della vita e dell’universo. Il viaggio dell’uomo è un continuo atto di trasfigurazione; se lo accostiamo nell’amicizia, ciò che è ignoto, impersonale, negativo e minaccioso a poco a poco rivela la sua segreta affinità con noi.

In quanto artista, l’uomo è sempre attivo nella rivelazione. L’immaginazione è la grande amica dell’ignoto, incessantemente essa invoca e libera la potenza del possibile. L’amicizia, dunque, non deve essere ridotta a un rapporto esclusivo o sentimentale; è una forza ben più estesa e intensa.

Il pensiero dei celti non fu deduttivo nè sistematico. Nella loro speculazione lirica, tuttavia, essi portarono a espressione la sublime unità di vita ed esperienza. Il pensiero celtico non era oppresso dal dualismo, non separava quanto si appartiene. L’immaginazione celtica esprime chiaramente l’amicizia interiore che stringe in un unico abbraccio Natura, divinità, mondo sotterraneo e mondo umano. Il dualismo che separa il visibile dall’invisibile, il tempo dall’eternità, l’umano dal divino era totalmente estraneo a loro; il sentimento di un’amicizia ontologica produceva un mondo di esperienza permeato di una ricca trama di differenza, ambivalenza, simbolismo e immaginazione. Per la nostra dolorosa e tormentata separazione, la possibilità di questa amicizia ricca di fantasia e unificante è il dono dei celti.

La concezione celtica dell’amicizia tova ispirazione culmine nella sublime nozione dell’anam cara. Anam è la parola gaelica per anima; cara quella per amico. Anam cara significa perciò anima- amica. L’anam cara era una persona cui si potevano confidare i segreti più intimi della propria vita; questa amicizia era un atto di riconoscimento e appartenenza. Se si aveva un anam cara, l’amicizia sfidava ogni convenzione e categoria.

Prendendo ispirazione da ciò, nel Primo capitolo esploreremo l’amicizia tra le persone, dove è centrale il riconoscimento e il risveglio dell’antica appartenenza tra due amici. Poiché il cuore dell’uomo non è mai nato definitivamente, l’amore è il continuo nascere della creatività dentro e fra di noi. Esamineremo il desiderio come presenza del divino, e l’anima come dimora dell’appartenenza.

Nel Secondo capitolo delineeremo una spiritualità dell’amicizia con il corpo. Il corpo è la nostra casa di argilla, la nostra unica dimora nell’universo. Il corpo è nell’anima: questo riconoscimento gli conferisce una dignità sacra e mistica. I sensi sono soglie divine: una spiritualità dei sensi è una spiritualità della trasfigurazione.

Nel Terzo capitolo affronteremo l’arte dell’amicizia interiore. Quando cessiamo di temere la solitudine, una nuova creatività si risveglia in noi; il benessere interiore, dimenticato o trascurato, inizia a rivelarsi. Facciamo ritorno a casa dentro di noi e impariamo a restarvi. I pensieri sono i nostri sensi interiori; permeati di silenzio e solitudine, portano alla luce il mistero del paesaggio interiore.

Nel Quarto capitolo rifletteremo sul lavoro come poetica di crescita. L’invisibile anela a farsi visibile, a esprimersi nelle nostra azioni. È questo il recondito desiderio alla base del lavoro. Quando la nostra vita interiore può mostrarsi amica del mondo esterno del lavoro, una nuova immaginazione si risveglia e grandi cambiamenti hanno luogo.

Nel Quinto capitolo affronteremo la nostra amicizia con la vecchiaia, il Tempo del raccolto della vita. Studieremo la memoria come il luogo in cui nostri giorni svaniti si raccolgono in segreto, e comprenderemo che il cuore appassionato non invecchia. Il tempo è l’eternità che vive pericolosamente.

Nel Sesto capitolo metteremo alla prova l’amicizia necessaria con il nostro compagno originario e definitivo: la morte che, invisibile, fin dalla nascita cammina con noi sul sentiero della vita. La morta è la grande ferita dell’universo, l’origine di ogni paura e negatività. L’amicizia con la nostra morte ci permetterà di celebrare l’eternità dell’anima che la morte non può colpire.

L’immaginario dei celti amava il cerchio, riconosceva come il ritmo dell’esperienza, della natura e della divinità seguisse un modello circolare. Anche la struttura di questo libro segue il ritmo circolare: si apre affrontando l’amicizia come risveglio ed esplora poi i sensi come soglie immediate e creatrici. Ciò pone il fondamento per una valutazione positiva della solitudine, che a sua volta cerca espressione nel mondo esterno del lavoro e dell’azione. Man mano che le nostre energie esterne diminuiscono, siamo messi di fronte al compito dell’invecchiamento e della morte. Questa struttura segue il circolo della vita che si dirige a spirale verso la morte e tenta di illuminare il profondo invito che essa offre.

Questi capitoli si chiudono in cerchio attorno a un nascosto, silenzioso Settimo capitolo, che abbraccia l’antico innominato nel cuore della personalità umana. Qui ha sede l’indicibile, l’ineffabile. In sostanza, questo libro ricerca una fenomenologia dell’amicizia in forma lirico-speculativa, prendendo ispirazione dall’implicita e lirica metafisica della spiritualità celtica. Più che una frammentaria analisi erudita, si propone come una riflessione in qualche modo più ampia, un colloquio interiore con l’immaginario celtico, nel tentativo di tematizzarne l’implicita filosofia e spiritualità dell’amicizia. —

– Estratto da “Anam Cara”, di John O’Donohue – edizione italiana Corbaccio (al momento fuori catalogo) Traduzione di Annalisa Agrati

John O’Donohue (1956-2008)

(Vedi anche – Nel mondo eterno, tempo e spazio sono diversi?)

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