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Il numero: l’archetipo dell’ordine, M. Teodorani

05 martedì Feb 2019

Posted by Paola in I Ching, Inserimenti, Linguaggio, Neoscienze, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

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Il numero: l’archetipo dell’ordine, Massimo Teodorani [estratto da: Sincronicità, Macro Edizioni]

Il numero stesso è un archetipo. Del resto se ne era accorto bene lo stesso Jung proprio quando studiava l’I Ching e le sue caratteristiche sincroniche. I numeri hanno un significato profondo, ed è questa la ragione per la quale essi apparivano così frequentemente nelle pratiche divinatorie dell’I Ching. Essendo il numero un archetipo, esso è connesso direttamente alla sincronicità. Dal momento che lo scopo del numero è quello di portare ordine, Jung lo denominò “archetipo dell’ordine”. Il numero inoltre appare in quei simboli del “sé” – ovvero di quella parte di noi che ci ricollega all’inconscio collettivo – che sono i mandala, i quali hanno spesso la struttura quaternaria, oppure fatta da multipli di 4.

Come si vedrà in seguito, proprio la struttura quaternaria del mandala giocherà un ruolo predominante nel porre le basi della psicofisica sognata da Pauli e da Jung. Il numero sembra essere usato dall’inconscio proprio per creare ordine. Non è dunque un artefatto dell’uomo, bensì la manifestazione di una realtà superiore che noi possiamo usare come strumento sia per metterci in collegamento sincronico con la dimensione superiore che per costruire le leggi della scienza che hanno alla loro base una formulazione matematica.

I numeri servono come mediatori tra la realtà esterna e quella mentale. Pauli era completamente d’accordo con Jung al punto tale che riteneva che il concetto di archetipo dovesse essere compreso in maniera tale da includere le idee delle serie continue dei numeri interi in aritmetica e il concetto di continuo in geometria. Questo potrebbe aiutare a capire per quale ragione le teorie matematiche, proprio come quelle su cui lavorava Pauli, che sono nate solo ed esclusivamente da intuizioni provenienti dal profondo della psiche, possano poi essere messe in pratica per spiegare la realtà fisica.

L’inconscio stesso è infatti in grado di produrre spontaneamente strutture matematiche consistenti di numeri naturali e in certi casi anche di “matrici” (proprio come quelle che usò Pauli per descrivere quantitativamente certi importanti concetti della meccanica quantistica), al fine di esplicitare palesemente e alla luce della coscienza delle forme di ordine. I numeri, dunque, sembrano rappresentare sia un attributo della materia che il fondamento inconscio dei nostri processi mentali. Per questa ragione, sia per Jung che per Pauli, le forme rappresentate dai numeri sono quel particolare elemento che unisce i regni della materia e della psiche. (…)

Il numero è sia un veicolo di conoscenza che un legante tra due mondi tra loro complementari e costituenti quella totalità che si esplica nel mondo quantico.

Noi sappiamo che quel linguaggio simbolico che è la matematica rappresenta le fondamenta della fisica moderna. Ma allora ci si potrebbe chiedere: quali sono le fondamenta della matematica e per quale ragione funzionano così bene? Se non siamo in grado di rispondere a questa domanda, allora la scienza che riusciamo a padroneggiare così bene è basata su cose che ancora non capiamo. In sostanza lo scopo di Pauli era di rispondere anche a questa domanda, e la risposta la si trova solo concependo una nuova fisica che unisca la materia alla mente.

L’ipotesi archetipica del numero fu particolarmente sviluppata da  un’altra importante analista della scuola di Jung che ebbe in cura Pauli, la dottoressa Marie-Louise von Franz. Questa studiosa, sicuramente la massima divulgatrice del pensiero di Jung, arrivò a fissare con chiarezza i concetti di archetipo studiati come una sonata di piano a quattro mani da Pauli e da Jung. Von Franz arrivò a capire che tutti i fenomeni mentali e fisici sono aspetti complementari della stessa realtà unitaria trascendentale.

Alla base di essi esistono certe fondamentali forme dinamiche chiamate “archetipi”. Ogni specifico processo, sia esso fisico o mentale, è una particolare rappresentazione di alcuni di questi archetipi. In modo particolare, gli archetipi del numero forniscono la base per tutte le possibili espressioni simboliche. È dunque possibile, in linea di principio, che un “linguaggio neutro”, costruito sulla base di queste rappresentazioni simboliche astratte che sono gli archetipi del numero, possa fornire una descrizione altamente unificata di tutti i fenomeni mentali, psichici, parapsichici e fisici. (…)

Estratto da: Sincronicità, il legame tra Fisica e Psiche da Pauli e Jung a Chopra – Macro Edizioni

Massimo Teodorani è un astrofisico e divulgatore scientifico. Dopo la laurea in Astronomia ha conseguito il dottorato di ricerca in fisica stellare. Ha lavorato presso gli osservatori di Bologna e al radiotelescopio del CNR di Medicina (BO). Svolge tuttora ricerche teoriche nel campo del progetto SETI e prosegue la sua ricerca sulla fisica dei fenomeni luminosi anomali. Per Macro Edizioni ha pubblicato numerosi libri tra cui: Tesla, lampo di genio; Bohm, la Fisica dell’Infinito; Marco Todeschini, spaziodinamica e psicobiosifica; Entanglement; e Teletrasporto.

Tutti i rischi di una vita da astronauta, S. Valesini

03 giovedì Gen 2019

Posted by Paola in Inserimenti, Società

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Tutti i rischi di una vita da astronauta, Simone Valesini (da Galileo, 27/08/2012)

Ma quanto è pericolosa ora la vita di un astronauta, con il suo andirivieni dallo spazio? Dall’impresa lunare del 1969, ormai i viaggi spaziali sono diventati routine. E con questi anche i problemi di salute. Gli autori di fantascienza immaginano da sempre pericoli di ogni tipo pronti a piombare sugli incauti astronauti durante i loro lunghi viaggi interplanetari. Nella realtà, ovviamente, i problemi degli astronauti sono di tutt’altra natura, ma non per questo necessariamente meno gravi.

Il corpo umano d’altronde si è evoluto per sopravvivere all’interno dell’atmosfera e del campo gravitazionale terrestre. Osteoporosi, esposizione alle radiazioni solari, disfunzioni del sistema immunitario, sono solo alcune delle conseguenze a cui l’essere umano va incontro quando viaggia nello spazio, al di fuori del suo ambiente naturale. Se mai vorremo compiere lunghi viaggi interplanetari, come ad esempio quello verso Marte, gli scienziati dovranno prima trovare la soluzione a tutti questi problemi. Come fa notare Wired.com.

Nausea spaziale – Come marinai che si abituano al rollare delle onde, gli astronauti hanno bisogno di tempo per abituarsi all’assenza di gravità. Spesso questo porta effetti spiacevoli come: nausea, illusioni visive e disorientamento. La sindrome da adattamento allo Spazio (Sas), colpisce circa metà dei soggetti che si trovano a viaggiare nello spazio, con livelli diversi di gravità. I sintomi sono classificati scherzosamente sulla scala Garn, così chiamata in onore di Jake Garn, astronauta che nel 1985, durante un viaggio sullo space shuttle, sembra abbia patito il caso più grave di nausea spaziale nella storia della Nasa.

Il malessere dura di solito solo per qualche giorno, ma può comunque risultare pericoloso. Per esempio gli astronauti sono obbligati a prendere antiemetici prima di indossare le tute spaziali per missioni all’esterno della nave, perché il vomito all’interno della tuta, in assenza di gravità, rappresenterebbe un rischio molto concreto di rimanere strozzati. Oggi che diverse aziende private promettono di farsperimentare l’assenza di peso durante i viaggi turistici nello spazio, l’effetto della Sas potrebbe diventare una realtà concreta nella vita di un numero crescente di persone. Dopotutto, chi vorrebbe andarsene in giro in una elegante cabina della Virgin Galactic, piena di passeggeri e del loro vomito fluttuante?

I piedi che si spellano e altre situazioni imbarazzanti – Anche quando un astronauta inizia ad abituarsi alla vita nello Spazio, il suo corpo continua a subire diversi strani cambiamenti. L’assenza di peso fa sì che i fluidi all’interno del corpo si muovano più liberamente, concentrandosi in particolare nel busto e nella testa. Questo conferisce alla faccia degli astronauti un aspetto gonfio, che oltre a risultare buffo può causare irritazioni delle mucose e naso chiuso.

Anche la postura si modifica, e un po’ alla volta tutti si trovano a passare il tempo in una strana posizione ingobbita, simile alla posizione fetale. Ma quello che è sicuramente l’effetto più strano della permanenza nello Spazio avviene solitamente a metà missione, quando la pianta dei piedi dell’astronauta si spella come durante la muta di un rettile. Questo avviene perché i calli sotto la pianta del piedi risultano inutili dopo mesi in cui ci si aggira fluttuando, senza poggiare i piedi in terra, e conclusa la loro utilità cadono, lasciando Spazio alla pelle sottostante, giovane e rosea.

Ultimo imbarazzante problema: l’assenza di peso causa un rilassamento progressivo dei muscoli addominali che provoca il rilascio di un gran numero di quelle che vengono definite flatulenze dell’astronauta.

Microbi nello Spazio – I microbi, che sulla Terra si trovano in ogni crepa e fessura, apparentemente sono riusciti a colonizzare anche lo Spazio. Un test eseguito sulla stazione spaziale russa Mir ha scoperto, per esempio, la presenza di 234 specie di batteri e funghi microscopici che vivevano a bordo con gli astronauti. Molti dei batteri erano probabilmente innocui, se non benefici, ma può sempre esserci qualche mela marcia. E infatti il personale della Stazione in servizio tra il 1995 e il ’98 ha riportato un numero significativo di infezioni microbiche, come congiuntiviti, difficoltà respiratorie acute e infezioni dentali.

Test medici hanno dimostrato anche che gli antibiotici sono meno efficaci nello Spazio, e vanno presi in concentrazioni maggiori perché abbiano effetto. Ma più inquietante ancora è stata probabilmente la scoperta che il batterio della salmonella diviene ancora più virulento vivendo in assenza di gravità.

Una missione spaziale di lunga durata, come un viaggio verso Marte, può soltanto aumentare le probabilità che malattie infettive pericolose possano svilupparsi e infettare l’equipaggio. A peggiorare il quadro vi è il fatto che i viaggi spaziali compromettono il sistema immunitario degli astronauti, rendendoli più sensibili agli effetti dei microbi. I ricercatori sperano che gli antiossidanti si rivelino efficaci per contrastare alcuni di questi effetti pericolosi.

Perdita di massa ossea e muscolare – Probabilmente l’effetto più noto dell’assenza di gravità è il progressivo deterioramento dei muscoli e delle ossa. Un astronauta perde in media dall’uno al due per cento della sua massa ossea per ogni mese che trascorre nello Spazio, e anche la massa muscolare svanisce, al ritmo molto più sostenuto del cinque percento a settimana. Non è dunque un caso che la Nasa consideri questo problema uno dei pericoli principali per i voli spaziali di lunga durata.

L’effetto è comunque molto soggettivo. Se alcuni astronauti hanno perso anche il 20 percento della loro massa ossea in 6 mesi, dovendo poi essere trasportati in barella al loro rientro sulla Terra, altri sono più fortunati. Il russo Valery Polyakov, attuale detentore del record di permanenza nello Spazio, riuscì a camminare dalla sua capsula fino ad una sedia al ritorno da un viaggio di 438 giorni nello Spazio.

Al momento un diligente esercizio fisico rimane la miglior terapia a disposizione degli astronauti per mantenersi in forze durante i viaggi spaziali. Sulla Stazione Spaziale Internazionale (Iss) gli astronauti si legano a un tapis roulant progettato per minimizzare le vibrazioni, che potrebbero rovinare i sensibilissimi esperimenti a microgravità che vengono svolti sull’Iss: il Combined Operational Load Bearing External Resistance Treadmill, o più confidenzialmente Colbert. Il nome viene dal comico Stephen Colbert, che riuscì a piazzare il suo nome al primo posto in un concorso per battezzare un nuovo ambiente della stazione spaziale, facendosi votare in massa dai suoi fan.

Dopo una contrattazione con la Nasa, e la minaccia che avrebbero dato il suo nome al gabinetto spaziale della stazione, dovette accontentarsi di dare il suo nome al tapis roulant degli astronauti.

Cecità spaziale – Forse un giorno un equipaggio intrepido riuscirà a superare il lungo viaggio di otto mesi per Marte, per scoprire solo una volta in orbita che nessuno, pilota incluso, è più in grado di vedere i comandi della nave. La colpa allora sarebbe di quella che in mancanza di un termine migliore possiamo definire cecità spaziale, cioè la graduale perdita della vista sperimentata da moltissimi astronauti durante le missioni in assenza di gravità.

L’effetto sembra essere proporzionale alla quantità di tempo trascorso nello Spazio: circa il 30 percento degli astronauti impegnati in missioni brevi ha riferito di avere subito un calo della vista, mentre la percentuale raddoppia nel caso di astronauti impegnati in missioni di lunga durata.

La cecità spaziale è una sindrome venuta alla luce solo di recente, per colpa della reticenza delle precedenti generazioni di astronauti, spaventati dall’idea di poter essere considerati non più idonei per le missioni spaziali per via del calo della vista.

Gli scienziati non sono ancora riusciti a comprendere cosa causi questi sintomi, ma hanno suggerito che potrebbero essere collegati a un aumento della pressione dei fluidi all’interno del cranio, che andando a premere sul nervo ottico provocherebbero una sindrome conosciuta come papilledema, disturbo può portare anche alla perdita completa della vista. Sebbene parlare di cecità sia forse esagerato, anche un semplice calo della vista potrebbe essere un problema serio per gli astronauti, soprattutto in missioni di una certa durata.

Tempeste solari e radiazioni – Circa tre mesi dopo il ritorno dell’Apollo 16 dalla Luna, un’enorme esplosione sconvolse la superficie solare, lanciando terribili radiazioni e miliardi di particelle cariche in direzione della Terra. In quel caso fu solo la fortuna a evitare che la tempesta solare, una delle più grandi e pericolose dell’era spaziale, colpisse l’Apollo 16 o l’Apollo 17, che sarebbe stato lanciato solo quattro mesi dopo.

Le tempeste solari e le radiazioni che queste generano sono uno dei più grandi ostacoli per i viaggi spaziali di lungo periodo. Se durante la super tempesta del ’72 gli astronauti si fossero trovati al di fuori del campo magnetico terrestre, sarebbero quasi sicuramente rimasti uccisi dalle radiazioni.

La Nasa è quindi tenuta per legge a proteggere i suoi equipaggi da eventi del genere, nonché dagli effetti a lungo termine delle radiazioni con cui vengono in contatto nello Spazio. Infatti, anche l’esposizione cumulativa alle radiazioni che si ha nello Spazio è un rischio concreto per la salute, poiché aumenta sensibilmente le probabilità di sviluppare tumori. Le linee guida della NASA stimano che per rimanere al di sotto di una percentuale di rischio del tre percento, un uomo dovrebbe passare al massimo 268 giorni nello Spazio, e una donna 159. Una missione per Marte impiegherebbe invece 520 giorni tra andata e ritorno, troppi perché oggi si possa tentare senza correre un serio pericolo.

Polvere tossica – La maggior parte dei rischi dei viaggi spaziali deriva dall’assenza di gravità, ma neppure quando riescono a raggiungere la relativa sicurezza offerta da pianeti e satelliti gli astronauti possono ritenersi al sicuro. Infatti anche questi portano con loro tutta una serie di pericoli strani e potenzialmente letali, derivanti principalmente dalla polvere.

La superficie lunare, per esempio, è completamente ricoperta di regolith, particelle di polvere microscopiche generate dalle eruzioni vulcaniche e dall’impatto dei meteoriti, che hanno la spiacevole tendenza ad appiccicarsi a qualunque superficie. Durante la loro permanenza sul satellite, gli astronauti dell’Apollo si trovarono ben presto sommersi da questa polvere lunare, che può irritare gli occhi, la pelle, o peggio ancora, se respirata, può creare un disturbo molto serio chiamato silicosi.

Nonostante i rischi della polvere lunare, quella marziana potrebbe dimostrarsi ancora più pericolosa. Il Pianeta Rosso è così chiamato perché è ricoperto da una sottile polvere di ossido di ferro, che alcuni ricercatori ritengono sia in grado di corrodere i composti organici come la plastica e la gomma, e di produrre bruciature sulla pelle umana. Gli astronauti che in futuro si troveranno a viaggiare verso queste due destinazioni dovranno quindi prendere serie precauzioni per sigillare a dovere le loro basi.

La psicologia nello Spazio – Viaggiare verso una stazione spaziale su una specie di petardo gigante, sottoposto ad accelerazioni e decelerazioni estreme. Oppure vivere in condizioni disagevoli, confinato e isolato da familiari e amici: sono alcune delle esperienze stressanti che possono diventare veri e propri traumi psicologici per gli astronauti.

Una lista dei sintomi psicologici sperimentati dagli astronauti russi e statunitensi durante le missioni spaziali comprende: affaticamento, letargia, paura di avere l’appendicite, dolori ai denti comparsi dopo avere sognato di avere dolore ai denti, paura di diventare impotenti.

Ad esempio, in passato il comando missione dello Skylab imponeva ritmi di lavoro massacranti all’equipaggio, spesso accorciando le pause pranzo e proibendo agli astronauti di dedicarsi alla loro attività preferita: guardare la Terra e lo Spazio dai finestrini della stazione. Stremato da questo trattamento inumano, nel dicembre del 1973 l’equipaggio dello Skylab scioperò, arrivando ad atteggiamenti di aperta ostilità e minaccia nei confronti dei loro superiori.

Per fortuna esistono anche effetti psicologici positivi dei viaggi spaziali. Durante la loro permanenza nello Spazio, molti astronauti hanno infatti sperimentato quello che Frank White ha definito effetto visione totale. L’effetto è un senso di meraviglia e soggezione nei confronti dell’Universo, che porta a sperimentare epifanie spirituali come un sentimento di unità con la natura, di trascendenza, e di fratellanza universale.

Lo Spazio dunque regala anche esperienze incredibili, e gli psicologi della Nasa stanno cercando di sfruttarle per scopi terapeutici. Ad esempio fare foto della Terra dalla Stazione Spaziale Internazionale potrebbe avere degli effetti benefici sulla mente degli astronauti.

Fonte: Galileo, Giornale di Scienza 27/08/2012 (www.galileonet.it)

Minuscoli universi chiamati “uomini”, E. Boncinelli

19 mercoledì Dic 2018

Posted by Paola in Evoluzione, Inserimenti, Neoscienze, Percezione

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Dagli atomi alle galassie – Minuscoli universi chiamati «uomini», Edoardo Boncinelli (2003)

Ànthropos micròs còsmos, l’uomo è un piccolo universo, un microcosmo.

Con questa affermazione contenuta in un frammento di Democrito del quarto secolo avanti Cristo inizia la fortuna di un concetto che è stato ripreso innumerevoli volte attraverso i secoli: quello che raffigura appunto l’uomo come un microcosmo, un’immagine rimpicciolita dell’universo stesso e un suo compendio. Soprattutto nel Medio Evo quest’immagine è molto piaciuta e ha dato luogo ad innumerevoli riflessioni che tendono a fare dell’uomo un piccolo universo a sé ma anche un tramite per penetrare, per analogia o allusione, i misteri del cosmo e controllarne le trasformazioni. «Fintanto che il cervello resterà un mistero, resterà un arcano anche l’universo» ha detto il grande neurobiologo spagnolo Ramòn y Cajal non troppo tempo fa. Che ne è oggi di questa idea, oggi che la scienza ci ha rivelato l’esistenza di mondi arcani e remoti, nell’infinitamente piccolo come nell’infinitamente grande? Da una parte ci sono gli atomi, più piccoli di un milionesimo di millimetro, e le particelle ancora più minuscole che li compongono; dall’altra le stelle e le galassie, per le quali si ragiona in termini di milioni di chilometri. Noi ci troviamo più o meno nel mezzo e abitiamo un mondo caratterizzato da oggetti le cui dimensioni vanno dal millimetro al chilometro e tempi che vanno dal secondo al decennio.

Questo è anche il mondo nel quale si è sviluppata ed evoluta la vita sul nostro pianeta. È naturale, perciò, che tutti gli animali siano in grado di percepire e comprendere gli eventi che hanno luogo a questa scala. Anche il nostro cervello è in grado di osservare e comprendere facilmente realtà che si misurano in termini di metri e di minuti. Non siamo invece particolarmente attrezzati a rappresentarci eventi che abbiano luogo a scale molto diverse e ci siamo anche stupiti, chi sa perché, del fatto che la fisica atomica e nucleare ci abbiano dimostrato che gli atomi e le particelle subatomiche non sono solo più piccoli ma sono anche molto diversi. Queste minuscole entità obbediscono cioè a leggi diverse e inconsuete che sono difficili pure da riassumere. In tempi più recenti abbiamo anche appreso che gli oggetti celesti di grandi dimensioni presentano proprietà nuove e diverse. Negli immensi spazi siderali si aggirano oggetti che incurvano con la sola loro presenza il continuo spazio-temporale, enormi quantità della cosiddetta materia oscura, per non parlare dell’energia oscura, e quelle particolarissime entità che sono i buchi neri.

Perché dovremmo meravigliarci del fatto che non riusciamo a capire e talvolta neppure a dire come funzionano questi mondi così lontani e inattingibili? Eravamo fatti per ben altro. I nostri sensi e la nostra capacità di rappresentare e immaginare sono sintonizzati sul quotidiano e il consueto. Considerando i mondi dell’infinitamente piccolo e dello straordinariamente grande non possiamo che affidarci ad analogie o ad immagini mentali più o meno fedeli. Oppure a leggi matematiche non facilmente interpretabili, quelle leggi che per quanto riguarda gli oggetti del nostro mondo sono poco più di riassunti di un gran numero di affermazioni, ma che per i fenomeni che hanno luogo in questi mondi remoti rappresentano l’unica forma possibile di conoscenza e di previsione.

L’uomo e la sua storia si collocano in una nicchia spazio-temporale molto ristretta, una sorta di meso-mondo collocato a mezza strada fra un micro-mondo e un mega-mondo. A quello apparteniamo e quello siamo in grado di comprendere. Ciò significa che gli altri mondi non esistono o che non hanno le proprietà che noi gli attribuiamo? Nemmeno un po’. La nostra stessa esistenza è anzi la migliore dimostrazione della necessità del piccolo e del grande. Senza di questi non potremmo esistere e probabilmente non potrebbe esistere neppure la vita. Prendiamo gli atomi. Anche un tavolo o una roccia sono costituiti di molecole e di atomi ma per comprendere molte delle loro proprietà questo fatto può essere ignorato. Non così per la vita e per la vita intelligente. Un essere vivente deve necessariamente essere costituito di cellule e per poter pensare deve possedere anche un cospicuo numero di cellule nervose. Le cellule sono a loro volta piccoli mondi organizzati e sufficientemente autonomi che non possono non essere formati da un numero enorme di unità costitutive elementari. Se i mattoni del mondo fossero delle dimensioni a noi familiari, anche solo dell’ordine dei millimetri, non ci sarebbero esseri viventi e noi non ci saremmo.

All’estremo opposto, oggi sappiamo che se l’universo non fosse tanto grande, non sarebbe trascorso abbastanza tempo dall’inizio del tutto e questo non sarebbe stato sufficiente perché potesse evolvere una forma di vita intelligente su un pianeta che presenti condizioni ambientali relativamente stabili come la nostra Terra. Insomma, perché noi esistiamo è necessario che il mondo contenga realtà incommensurabili che si comportino in maniera incomprensibile. Il sorprendente è che almeno in parte riusciamo a comprenderle. E a parlarne.

Fonte: SWIF, 28/11/2003

Edoardo Boncinelli è stato capo del Laboratorio di Biologia Molecolare dello Sviluppo presso il Dipartimento di Ricerca Biologica e Tecnologica (DIBIT) dell’Istituto Scientifico H. San Raffaele; è inoltre professore di Biologia e Genetica presso l’Università Vita-Salute e Direttore di ricerca CNR presso l’Istituto di Farmacologia Molecolare e Cellulare del CNR di Milano.

Fisico di formazione, si è dedicato allo studio della genetica e della biologia molecolare degli animali superiori e dell’uomo prima a Napoli (presso l’Istituto Internazionale di Genetica e Biofisica, I.I.G.B., del CNR), dove ha percorso le tappe fondamentali della sua carriera scientifica, e poi a Milano. E’ membro dell’Accademia Europea e dell’EMBO, l’Organizzazione Europea per la Biologia Molecolare, ed è stato Presidente della Società Italiana di Biofisica e Biologia Molecolare. [ndr]

http://www.boncinelliedoardo.com/

L’allucinazione, L. Watson

15 martedì Mag 2018

Posted by Paola in Coscienza, Evoluzione, Inserimenti, Neoscienze, Percezione, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

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L’allucinazione, Lyall Watson – (estratto da “SuperNatura”, ed. Rizzoli (1974), attualmente fuori catalogo)

Le droghe e le pratiche allucinogene rivelano qualcosa che sembra caratteristico dell’uomo. Esse illuminano soltanto le frange di una estensione mentale così vasta che è difficile da comprendere. Sidney Cohen, direttore dell’Istituto di salute mentale nel Maryland, descrive il cervello come «una fabbrica di simboli il cui scopo principale è la gestione del corpo. La sua attività secondaria sembra essere quella di riflettere sulle cose, sul dove vanno e sul che cosa significano. La sua capacità unica di interrogarsi e di essere consapevole è del tutto inutile ai fini della sopravvivenza fisica» (76). Le occhiate che abbiamo incominciato a rivolgere alla sfera cerebrale, sollevano infatti alcuni problemi evoluzionistici senza precedenti. Nessun biologo affermerebbe che le attività straordinarie del cervello siano inutili per la sopravvivenza: il cervello è parte di noi e noi siamo parte dell’ecologia come qualunque altra specie. Quello che abbiamo fatto al nostro ambiente è naturale come il tuono o il lampo. Il nostro cervello ha fatto di noi una grande forza dell’evoluzione, e ci vorrà molta immaginazione e creatività da parte sua per tirarci fuori dalle attuali difficoltà. Ma sono d’accordo con Cohen sul fatto che l’estensione del potenziale umano ispiri sgomento; noi sembriamo avere acquistato capacità al di là dei nostri bisogni attuali e drammatici e sembriamo schiacciati da questo peso.

La natura fa raramente qualcosa senza una buona ragione, eppure ha attraversato qualche difficoltà lungo gli ultimi dieci milioni di anni – un tempo molto breve secondo le sue misure – per rifornirci di un’enorme corteccia cerebrale dalla capacità apparentemente illimitata. Abbiamo acquistato questo organo incredibile a spese di parecchi altri, eppure ne usiamo soltanto una piccola parte. Che fretta c’era? Perché abbiamo corso così in fretta lungo questa linea di sviluppo? Avremmo certamente potuto cavarcela con molto meno. Al momento siamo come una piccola famiglia di inquilini che hanno occupato un vasto palazzo ma non sentono il bisogno di muoversi oltre il comodo e ben fornito appartamento localizzato in un angolo del sottosuolo.

Una consapevolezza quasi subliminare del resto della struttura ci ha sempre tentato. Brevi sguardi gettati nelle altre stanze hanno portato pochi avventurosi individui a fare sforzi più precisi di esplorazione, ma i metodi tradizionali hanno avuto soltanto un parziale successo. Alcuni hanno tentato delle tecniche ritmiche, come i canti cristiani o i movimenti ondeggianti della preghiera indù, o le danze vorticose dei dervisci, onde provocare uno stato di trance che potesse portarli al di là della barriera. Alcuni hanno tentato di alterare la chimica del loro corpo con una profonda respirazione o col digiuno o con la rinuncia al sonno. Alcuni hanno cercato una dissociazione nel dolore fisico attraverso l’auto-flagellazione o la mutilazione o impiccandosi al soffitto. Gli indiani Sioux usavano il caldo e la sete nel loro rituale solare per raggiungere una specie di crudele delirio; gli egizi cercarono l’isolamento sociale nei loro rituali nel tempio. La cosa che tutti questi metodi hanno in comune è che cercano di arrestare il flusso di informazioni con cui l’ambiente circostante cerca di sommergerli; sia eliminando l’afflusso di sensazioni, sia rendendole monotone e prive di significato. Quando questo è fatto, alcune fra le porte della mente cominciano a schiudersi.

La tecnica della deprivazione sensoriale è stata perfezionata in molte recenti ricerche. All’Università McGill i soggetti vennero confinati in una stanzetta acusticamente isolata e portavano occhialoni che ammettevano soltanto una luce diffusa. A Princeton vennero tenuti in un cubicolo piccolo, isolato visivamente e acusticamente, e a temperatura costante. E in Oklahoma e nello Utah essi vennero immersi in una cisterna scura d’acqua mantenuta a temperatura del sangue in modo che essi non ricevessero né luce né suono né sensazioni tattili dal loro ambiente. L’immediata reazione in tutti questi studi fu il ritirarsi da questa monotonia dentro il sonno, ma una volta che questa possibilità di fuga venne impedita ed essi non poterono più dormire, i volontari incominciarono a incontrare nuove difficoltà. Tutti i soggetti persero il senso del tempo e sottovalutarono il suo scorrere; alcuni dormirono per oltre ventiquattr’ore e affermarono che era stato soltanto un’ora o due. Il disorientamento e la mancanza di informazioni da parte dell’ambiente circostante rese loro difficile pensare seriamente e costruire giudizi normali. I sogni incominciarono ad apparire più frequentemente, talvolta con spaventosa intensità, e prima o poi l’assoluta irrealtà della situazione portò la maggior parte dei soggetti all’esperienza dell’allucinazione. Non si tratta solo di «fantasmi» sensoriali come i bagliori di luce o i rintocchi di campana, ma avvenimenti completi, complessi e interamente convincenti (329).

Quello che sembra accadere è che in circostanze normali la grande quantità di informazioni che noi riceviamo è regolata dalla formazione reticolare, che seleziona e lascia passare solo ciò di cui abbiamo bisogno e di cui “possiamo occuparci in quel momento. In condizioni di deprivazione sensoriale noi riceviamo molto poco, cosicché ogni pezzetto di informazione riceve molto di più della quantità solita di attenzione, e diventa enormemente ingrandita. La nostra visione si restringe, cosicché gonfiamo quello che riceviamo fino a riempire l’intero schermo, come un film fatto passare al microscopio. Quindi parte dell’allucinazione è semplicemente un primo piano migliorato della realtà, ma c’è qualcosa di più. Lasciato senza il suo solito sbarramento di stimoli, il cervello abbellisce la realtà e la elabora, attingendo alla sua riserva di inconsce cianfrusaglie per riempire il tempo e lo spazio a disposizione. Eppure neanche questo va abbastanza lontano, perché ci sono aspetti dell’allucinazione che sembrano risiedere al di fuori sia delle possibilità coscienti del cervello sia dì quelle incoscienti.

Quasi ogni sottocultura ha cercato prima o poi una radice, un’erba o una bacca per far avanzare il processo di dissociazione. I persiani avevano una pozione chiamata soma, la quale, secondo gli annali sanscriti «rendeva un uomo simile a un dio». Elena di Troia aveva il nepente. In India e in Egitto hanno sempre usato hashish e marijuana. In Europa e in Asia c’era il magnifico fungo a macchie rosse Amanita, che uccideva le mosche e rendeva furiosi gli antichi cavali scandinavi. Il Messico ha la sua gloria mattutina fiore di cactus, e diversi «funghi divini». Tutte queste piante contengono agenti chimici che provocano stati trascendentali, e molti di essi sono stati usati come additivi in cerimonie magiche e religiose, ma la sostanza psichedelica più sconvolgente e significativa di tutte non cresce spontaneamente in natura ma dev’essere estratta dai grani della segala cornuta. Si tratta dell’acido lisergico dietilamidico, o LSD.

Questo acido è stato provato su molti animali, ma sembra avere avuto un piccolo effetto su di loro a eccezione forse, del ragno, il quale costruisce una ragnatela un po’ più fantasiosa. Esso sembra interessare direttamente i livelli più alti del pensiero, e anche una piccola porzione, circa un trecentimillesimo di oncia, provoca effetti profondi sull’uomo. A seconda di come è preso, gli effetti cominciano entro una mezz’ora, raggiungono il massimo circa un’ora e mezzo dopo, e terminano sei o anche sette ore più tardi. La maggior parte dell’azione cerebrale sembra essere confinata al sistema reticolare e al sistema limbico, che regola le esperienze emotive. Quindi esso lavora direttamente in queste zone di filtraggio e di confronto delle esperienze sensoriali, e in quelle aree che determinano i sentimenti individuali su questo materiale. La parola, la capacità di camminare, e la maggior parte delle attività fisiche restano totalmente non influenzate. La pressione sanguigna e il polso sono normali, i riflessi sono acuti, e non vi sono spiacevoli effetti secondari. Sembra che l’LSD operi soltanto nella zona di più alta consapevolezza del cervello umano, in quella che noi crediamo la nostra personalità.

L’effetto psicologico più considerevole, come nella privazione sensoriale, è un rallentarsi del tempo: le lancette dell’orologio sembrano non muoversi affatto. Questa specie di eterno presente è molto simile a una versione prolungata del modo in cui il tempo può arrestarsi in momenti di grande pericolo personale. Noi abbiamo nella nostra fisiologia la capacità di produrre questo effetto nei casi di emergenza, e l’LSD sembra portarla un passo più in là, ma senza che abbia più a che fare con la sopravvivenza fisica. La separazione fra l’io e il non-io, l’antico, primevo rifugio dell’inconscio, scompare molto presto, e i confini dell’io si dissolvono. Cohen dice : «La sottile protezione della ragione lascia via libera alla fantasticheria, l’identità è sommersa da sentimenti oceanici di unità, e il fatto di vedere perde i significati convenzionali impostici dagli oggetti visti».

È importante a tal proposito rendersi conto che noi di solito percepiamo soltanto quello che possiamo concepire. Noi costringiamo le sensazioni a coincidere con la nostra idea di come le cose dovrebbero essere. L’esperimento classico di dotare la gente di occhiali che invertono ogni cosa lo dimostra in modo definitivo. Entro un giorno o due il cervello incomincia a correggere il campo visivo e questa gente ricomincia a vedere tutto ancora nel modo «giusto», ma quando si tolgono gli occhiali il mondo intero risulta capovolto. Quindi il mondo viene visto non com’è, ma come dovrebbe essere. Parte del problema è che noi riceviamo tante di quelle sensazioni da essere obbligati a scegliere, e a ritrovarci con una visione della realtà attentamente selezionata e molto ristretta. L’LSD ha la capacità di toglierci i paraocchi e di farci vedere le cose con occhi nuovi, come se fosse la prima volta. In questa condizione possiamo ricominciare ad apprezzare i suoni dei colori, il profumo della musica, e le trame degli umori. Le api e i pipistrelli è i calamari del profondo mare, pur senza possedere l’estensione della nostra sensibilità e dei nostri interessi, fanno questo continuamente.

I bambini vedono di solito le cose con enorme chiarezza. E’ possibile che quello che chiamiamo allucinazione sia una parte normale di ogni esperienza infantile (i loro disegni sembrano confermarlo); ma quando diventiamo adulti le nostre visioni si oscurano e alla fine si estinguono, perchè esse di solito hanno un valore sociale negativo. Ogni società si basa su certe regole di condotta che indicano normalità, e per una combinazione di queste pressioni sociali e il nostro bisogno di adattamento la maggior parte di noi finisce dentro questi limiti. Pochi sfuggono a ciò e vengono classificati come pazzi e privati della loro libertà con la scusa che abbisognano di assistenza, ma in realtà il loro confinamento ha soprattutto lo scopo di proteggere la società piuttosto che questi individui da se stessi. L’unione Sovietica non fa misteri a questo proposito e regolarmente incrimina i dissenzienti sostenendo che essi devono essere pazzi se non vanno d’accordo con lo Stato. Pochi individui riescono a scuotere le restrizioni della normalità e a farne a meno, perché fanno questo all’interno di una sfera religiosa nella quale queste attività rivoluzionarie sono consentite in quanto sono state definite «di ispirazione divina».

Ben lontana dall’essere confinata, la maggior parte della gente che ha questo tipo di esperienza trascendentale ritorna alla società con una nuova visione delle cose e comincia a cambiare la propria vita e quella degli altri – non sempre per il meglio. Alcuni santi e profeti sono stati certamente pazzi, ma non ha senso definirli tutti insani. La loro esperienza non è unica. Quasi ognuno di noi, in qualche momento della sua vita, ha un momento di rapimento o di estasi ispirata da un lampo di bellezza, dall’amore, da un’esperienza sessuale o da un intuito. Queste visioni momentanee di perfezione e di godimento estetico sono frammenti di uno stato che i cristiani chiamano «divino amore», i buddisti Zen «satori», gli indù «moksha», e i vedanta «samadhi». Simili esperienze sono così poco comprese da essere tutte ammucchiate nel misticismo e considerate come soprannaturali. Nel senso che essi non possono essere ospitati nella definizione di «sanità» culturale, questi stati sono «insani», ma ci può aiutare a capirli meglio il fatto di rinunciare a questa pesante etichetta e di riferirci a essi come a stati di non-sanità.

Non c’è niente di soprannaturale in essi, e l’importanza di prodotti chimici come l’LSD è di mostrarlo molto chiaramente, semplicemente togliendo gli strati superficiali di «sanità» e facendoci di nuovo diventare naturali. Uno degli effetti più comuni delle sostanze psichedeliche è di acuire la ricettività e di consentire di raccogliere i suggerimenti ambientali con squisita sensibilità. In situazioni sperimentali di laboratorio i soggetti all’LSD spesso sembrano leggere nella testa dell’esaminatore, ma è chiaro dalle analisi che essi stanno semplicemente reagendo, nel modo in cui fanno molti animali, ai più piccoli cambiamenti di tono, di espressione facciale, di posizione. Noi siamo sempre capaci di raggiungere questo genere di percezione subliminare, che è davvero supernaturale se la paragoniamo ai nostri livelli normali di reazione, ma nella più vasta arena biologica questi talenti sono cosa molto comune e del tutto naturale. Il nostro stato di veglia «sana» è uno stato di inibizione.

Parte di questo è necessario per evitare di essere schiacciati dalla quantità di sensazioni sopraggiungenti, ma le barriere erette, dal sistema reticolare a loro volta ci tolgono molto di ciò che è pieno di magia e di ispirazione. Questo è assurdo quando ormai disponiamo di un cervello che per la prima volta è capace di apprezzare queste meraviglie. Non sto raccomandando una dissociazione di massa e una fuga generale dentro queste zone di insanità. Blake, Van Gogh, Verlaine, Coleridge e Baudelaire vissero e lavorarono molto spesso in uno stato di coscienza trascendentale, e soffrirono tremendamente nel loro sforzo di rompere le barriere della ragione e della realtà.

Ora, forse più che in qualsiasi altro momento della nostra evoluzione, abbiamo bisogno di vedere chiaramente i problemi che ci affliggono, ma il nostro sforzo diventa inutile se non impariamo ad apprezzare il fatto di essere diventati padroni del nostro destino. Abbiamo bisogno di sapere dove stiamo andando e come ci arriveremo. Abbiamo già incominciato a fare uso dei nostri talenti coscienti ma abbiamo totalmente trascurato quelli che sono raggiungibili dall’altra parte della mente. La natura ci ha dato tutto l’equipaggiamento necessario a questo scopo, nello spazio che è contenuto tra le nostre orecchie, e le tecniche di ipnosi, di autosuggestione, di sogno e di allucinazione ci danno un’idea dei poteri che possediamo. Tutto quello che dobbiamo fare è usarli saggiamente.

(76) Gohen S.Drugs of Hallucination London: Paladin, 1971 (329) Dernon, I. A. Inside the black room London: Penguin, 1966

Una nota sulla “chiusura”, Paola

27 mercoledì Dic 2017

Posted by Paola in Inserimenti, Paola, Percezione, Tempo

≈ Commenti disabilitati su Una nota sulla “chiusura”, Paola

Sulla “chiusura”, Paola (nota  al gruppo AL)

Vorrei condividere alcuni pensieri sull’importanza di una “chiusura“ appropriata.

Nel nostro paradigma il concetto di chiusura non sottintende esclusione ma conclusione. Nella nostra chiusura non c’è l’idea di liberarsi di qualcosa dandogli un calcio, di eliminarlo o cacciarlo via, di disfarcene in quanto sgradevole e indesiderato. Non è così. La nostra chiusura è un momento di riconoscimento del valore di un’esperienza, è un momento in cui noi volutamente e consapevolmente non giudichiamo in senso di positivo o negativo, ma consideriamo l’utilità o il servizio che l’esperienza, il rapporto, l’evento o la cosa che si è chiusa o sta chiudendosi, ci ha donato. Lo andiamo a considerare come un nutrimento che ci è stato dato, che ci ha fatto crescere e comprendere meglio alcuni aspetti di noi.

Nel corso della nostra vita dobbiamo riconoscere e prendere coscienza dei momenti in cui una cosa si trasforma o cambia, che non è più quella che intendevamo, o che non va più bene, per noi o gli altri. Pertanto, quando la cosa finisce per cause esterne, oppure decidiamo di abbandonarla o di togliere noi stessi dalla situazione, prendiamo atto che per noi – ribadisco per “noi” e non necessariamente per le altre parti in causa – la situazione, l’evento, il contesto si sono esauriti.

A volte delle nuove iniziative non partono proprio perché non hanno lo spazio o la libertà necessaria a svilupparsi a causa delle influenze delle esperienze passate. E mi riferisco alle esperienze negative tanto quanto a quelle positive. Generalmente, tendiamo a considerare condizionanti solo gli eventi che riteniamo negativi, mentre di quelli positivi vogliamo farne tesoro. Tuttavia, per quanto riguarda i condizionamenti non si possono usare due pesi e due misure secondo criteri di “piacevolezza” personale. A tal proposito vorrei citare il pensiero di C. G. Jung: “Non dobbiamo soggiacere a nulla, nemmeno al bene. Un cosiddetto bene al quale si soccombe perde il carattere etico. Non che diventi cattivo in sé, ma è il fatto di esserne succubi che può avere cattive conseguenze. Ogni forma di intossicazione è un male, non importa se si tratta di alcol, morfina o idealismo. Dobbiamo guardarci dal considerare il male e il bene come due opposti.”

Un’esperienza esaltante o profondamente felice lascia un’impronta condizionante sulle esperienze future tanto quanto un’esperienza tragica. Condiziona la percezione assumendo il carattere di termine di paragone per una felicità futura, crea uno schema altrettanto inficiante a vivere liberamente ogni diversa manifestazione del nuovo e del diverso, bloccando ogni altro diverso godimento.

È per questo motivo che noi riconosciamo l’importanza di operare un qualche atto di chiusura, soprattutto per ciò che si è già dichiaratamente concluso e che fa parte di un passato decisamente alle nostre spalle. Dal punto di vista del nostro paradigma tutto ciò che non ci serve più, che si è ormai esaurito e che vogliamo lasciare, deve essere chiuso in modo appropriato. Abbiamo il compito verso noi stessi di entrare in contatto con queste forze limitanti e scioglierle, così da non restare legati a immagini di noi cristallizzanti e disattivanti.

Quando riconosciamo o consideriamo la conclusione di qualcosa, dobbiamo esprimerla; dobbiamo compiere un atto che in qualche modo lo attesti in modo manifesto e palese nella realtà di consenso. Può essere con un rituale, oppure con una festa, un biglietto, un regalo, un pensiero: azioni e gesti accompagnati da un sincero e reale ringraziamento. Anche se l’esperienza non è stata piacevole, dovrebbe essere portata a buon fine con grazia e in armonia.

Per me, gli elementi di un atto di chiusura sono: 1) Riconoscimento che l’esperienza o l’evento si sono conclusi. 2) Apprezzamento e gratitudine per il dono che l’esperienza o l’evento mi ha lasciato come conoscenza o saggezza. 3) Ringraziamento e congedo senza giudizio.

Questi tre punti dovrebbero essere sentiti sinceramente e non essere azioni o parole dette per formalità.

Anche se è stata vissuta con un senso di profondo dolore o infelicità, se non si vuole che una certa esperienza influenzi il proprio futuro, deve essere congedata con sincera gratitudine, con il pensiero che è solo per suo merito che si è giunti a questo nostro momento di reale (e non immaginario) punto di svolta. La Provvida Sventura di manzoniana memoria, insegna.

Altrettanto vale nel chiudere un’esperienza ritenuta felice, quelle di cui si è portati a dire: “più di così non potrò avere…”, o “ il futuro non sarà mai più così radioso…”, o anche “non troverò più una persona/un lavoro/un contesto migliore di…”. E lo stesso vale quando questa felicità ci è stata data da un profondo affetto che ci ha lasciato: è bene congedarla.

Vorrei sottolineare che oggetto dell’atto di chiusura sono le esperienze o gli eventi, e non le persone. Le persone di per sé sono anime eterne e da esse non ci separeremo mai, le troviamo sempre e comunque nostre compagne di viaggio. Le persone sono gli attori che allestiscono la scena di cui noi siamo protagonisti, e nei loro diversi ruoli danno l’estro alla nostra interpretazione. Pertanto è possibile chiudere appropriatamente qualcosa di nostro: un atteggiamento, un’abitudine, un’esperienza di cui riconosciamo realmente di aver assimilato il valore e che, di conseguenza, sono diventate per noi preziose. In caso contrario ci ritroveremo in breve tempo a riviverle in apparentemente altre diverse scene con differenti attori.

Perché dobbiamo farlo in questo modo? Innanzitutto perché chiudere formalmente con riconoscenza e apprezzamento rompe i ponti e impedisce al passato di protendere i suoi tentacoli nel nostro futuro. Inoltre, con queste tre attenzioni – in particolare con la gratitudine – noi recuperiamo l’energia emozionale che abbiamo immesso in quel vissuto, e la recuperiamo con il valore aggiunto di una saggezza che ci porterà senza fallo a superare con facilità e grazia ogni altra situazione simile. Una volta appresa e assimilata la comprensione diventata nostra, la manifesteremo in modo libero e spontaneo.

Un’ulteriore nota: il distacco. L’esperienza insegna che se eseguito con puro intento e sincerità emozionale, l’atto di chiusura è efficace e spesso pressoché immediato. Tuttavia, ci sono situazioni in cui la persona, pur essendo ormai libera da quel passato, continua a trovarsi in una certa situazione per il bene degli altri partecipanti.

Noi che intendiamo vivere in armonia con tutto e tutti, accettiamo anche il ruolo che interpretiamo per gli altri attori sulla scena per tutto il tempo che serve, perché anch’essi sono a loro volta protagonisti della loro rappresentazione e noi siamo ugualmente, e coerentemente, attori che danno a loro l’estro della loro libera interpretazione. Così può capitare che ci troviamo a continuare a vivere un evento che non ci appartiene più e accorgerci con stupore che, nonostante tutto, lo viviamo e vi agiamo con libertà e senso di impermanenza. In tale situazione, invece di depauperarci, ci apriamo a nuove possibilità. —

Paola, Paradigma 3

Nel mondo eterno, tempo e spazio sono diversi?, J. O’Donohue

31 martedì Ott 2017

Posted by Paola in Inserimenti, Libri, Percezione, Realtà Parallele, Spiritualità, Stati altri di coscienza

≈ Commenti disabilitati su Nel mondo eterno, tempo e spazio sono diversi?, J. O’Donohue

OLYMPUS DIGITAL CAMERANel mondo eterno, tempo e spazio sono diversi? – Estratto da “Anam Cara” di John O’Donohue, Edizioni Corbaccio (attualmente fuori catalogo)

Spazio e tempo sono il fondamento dell’identità e della percezione umana, senza di loro non esiste percezione.

L’elemento spaziale indica che ci troviamo in uno stato di costante separazione. Io sono qui, tu sei lì; persino la persona a cui siamo più vicini, quella che amiamo, rimane un mondo separato da noi. È questo lo strazio dell’amore: due persone si avvicinano al punto da desiderare realmente di divenire una sola, ma i loro spazi separati mantengono la distanza fra loro. Nello spazio siamo sempre lontani.

L’altra componente della percezione e dell’identità è il tempo; anch’esso ci separa costantemente. Il tempo è essenzialmente lineare, non continuo e frammentario. I giorni passati sono scomparsi, svaniti; il futuro non è ancora arrivato; tutto ciò che abbiamo è il minuscolo gradino dell’istante presente.

Quando l’anima lascia il corpo, non è più oppressa dallo spazio e dal tempo; è libera, e distanza e separazione cessano di ostacolarla. I morti sono i nostri più stretti vicini, sono tutt’attorno a noi. Quando domandarono a Meister Eckhart dove va l’anima di una persona dopo la morte, egli rispose che non va da nessuna parte. In quale altro luogo potrebbe andare? In quale altro luogo è il mondo dell’eternità? Non può che trovarsi qui. Abbiamo dato erroneamente una dimensione spaziale all’eternità, l’abbiamo relegata in una sorta di distante galassia.

Il mondo eterno non è un luogo ma un diverso stato di essere; l’anima della persona non va da nessuna parte perché non c’è nessun altro luogo dove andare. Ciò suggerisce che i morti siano qui insieme a noi, nell’aria in cui ci muoviamo quotidianamente. L’unica differenza tra noi e loro è che adesso rivestono una forma invisibile. Lo sguardo umano non riesce a vederli, ma possiamo sentire la presenza di quelli che abbiamo amato e sono morti. Con il raffinamento dell’anima possiamo sentirli, sentire che sono vicini.

Esiste un’intera mitologia irlandese su druidi e sacerdoti dotati di speciali poteri. Mio padre ci raccontava spesso di un suo conoscente che era molto amico del sacerdote del paese. I due uomini erano soliti fare lunghe passeggiate e un giorno il conoscente chiese al sacerdote dove si trovavano i morti. Egli rispose di non fare domande del genere,  ma, poiché l’altro insisteva, gli disse che glielo avrebbe mostrato a patto che non lo raccontasse a nessuno. Inutile dirlo, l’uomo non mantenne parola. Il sacerdote alzò la mano destra e l’uomo vide le anime dei defunti che si affollavano per ogni dove come gocce di rugiada sui fili d’erba.

Spesso solitudine e isolamento sono la conseguenza di una mancanza di immaginazione spirituale, dimentichiamo che uno spazio vuoto non esiste; ma ogni spazio è colmo di presenza, in particolare di coloro che si trovano ora in una forma eterna, invisibile.

Per chi è morto, anche il mondo del tempo è differente. Qui siamo imprigionati in un tempo lineare: il passato è dimenticato, perduto; il futuro ci è ignoto. Per i defunti il tempo è completamente differente, poiché vivono nel cerchio dell’eternità.

Nei capitoli precedenti abbiamo parlato del paesaggio, di come quello irlandese resista alla linearità e di come il pensiero celtico non abbia mai apprezzato la linea ma abbia sempre amato la forma circolare. All’interno del cerchio inizio e fine sono fratelli, nel riparo che l’eterno offre all’unità dell’anno e della terra.

Penso che nel mondo eterno il tempo sia diventato il circolo dell’eternità; forse, quando una persona raggiunge questo mondo può guardare indietro a quello che qui chiamiamo passato e sapere tutto del futuro. Per i morti il presente è presenza totale. Probabilmente i nostri amici defunti ci conoscono meglio di come abbiano mai potuto in vita; sanno tutto di noi, anche cose che possono deluderli. Ma poiché sono trasfigurati, la loro comprensione e compassione sono proporzionate a tutto quanto sono venuti a sapere su di noi.

Credo che i nostri amici defunti si preoccupino e abbiano cura di noi. Spesso il nostro cammino è minacciato da un macigno di sofferenza sul punto di precipitare su di noi, ma i nostri amici tra i morti lo trattengono fino a che non siamo passati.

Uno degli sviluppi che nei prossimi secoli potrebbero verificarsi nell’evoluzione e nella coscienza umana è una nuova relazione globale con il mondo invisibile dell’eternità. Potremmo legarci in modo creativo con i nostri amici nel mondo invisibile.  —

– Estratto da: Anam Cara – Il libro della saggezza celtica, John O’Donohue [Capitolo Sei]

Ispirazione, C. Pinkola Estes

20 domenica Ago 2017

Posted by Paola in Inserimenti

≈ Commenti disabilitati su Ispirazione, C. Pinkola Estes

Ispirazione, Clarissa Pinkola Estes (2011)

Amici miei, non smarrite il cuore. Noi siamo stati fatti per questi tempi. Ultimamente ho sentito che molti sono profondamente confusi, e con ragione. Sono preoccupati per le vicende del nostro mondo di oggi. Sono tempi, i nostri, di stupori quotidiani e di rabbia spesso giustificata per il degrado ultimo di ciò che maggiormente sta a cuore alle persone civili e idealiste.

Avete ragione nelle vostre valutazioni. Il prestigio e la presunzione alle quali alcuni si sono ispirati nell’approvare atti efferati contro bambini, vecchi, la gente semplice, i poveri, gli indifesi, i bisognosi, toglie il fiato. Nonostante ciò, vi sollecito, vi chiedo, vi domando per favore di non inaridire lo spirito piangendo questi tempi difficili. Soprattutto non perdete la speranza. Specialmente perchè siamo stati fatti per questi tempi. Sì. Per anni abbiamo imparato, praticato, ci siamo allenati proprio in attesa d’incontrarci esattamente sul campo di questo impegno…

Sono cresciuta nella zona dei Grandi Laghi e so riconoscere una barca capace di tenere il mare quando ne vedo una. In quanto ad anime risvegliate, in acqua non ci sono mai state barche più capaci  di quanto ce ne siano ora nel mondo. E sono tutte molto ben equipaggiate e capaci di inviarsi segnali l’un l’altra come mai nella storia dell’umanità… Guardate oltre la prua, ci sono milioni di barche di anime virtuose con voi in acqua. Anche se la vostra superficie è sferzata da ogni onda in questa tempestosa agitazione, vi assicuro che le lunghe assi di legno che compongono il vostro scafo provengono da una foresta più grande. E’ risaputo che il legno ben venato tiene testa alle tempeste, resiste, regge e avanza nonostante tutto.

In ogni periodo buio c’è la tendenza a perdersi d’animo per quanto è sbagliato o non guarito nel mondo. Non focalizzatevi su questo. C’è anche la tendenza a indebolirsi indugiando su ciò che è fuori dalla propria portata, su ciò che non può ancora esserci. Non focalizzatevi lì. Questo è mancare il vento e non alzare le vele. Noi siamo necessari, ecco tutto quello che possiamo sapere ora.  Ed anche se incontriamo resistenza, più sarà così più incontreremo grandi anime che ci saluteranno, ameranno e guideranno, e le riconosceremo quando compariranno. Non avevate detto di credere? Non avevate detto di ascoltare una voce più grande? Non avevate chiesto la grazia? Non vi ricordate che essere nella grazia significa sottomettersi a una voce più grande?…

Il nostro compito non è quello di fermare il mondo intero tutto in una volta, ma quello di prodigarsi per migliorare la parte del mondo nel nostro raggio d’azione. Ogni piccola e pacifica cosa che un’anima può fare per aiutare un’altra anima, per assistere una parte di questo povero mondo sofferente, sarà d’immenso aiuto. Non ci è dato sapere quale sarà l’azione o chi farà in modo che la massa critica penda verso il bene durevole. Ciò di cui c’è bisogno per un cambiamento sostanziale è una miriade di azioni, aggiungendo, aggiungendo ancora, aggiungendo di più, in continuazione. Sappiamo che non tocca a “tutti sulla Terra” portare giustizia e pace, ma solamente a un piccolo e determinato gruppo che non si arrenderà alla prima, alla seconda, o alla centesima raffica di vento.

Una delle azioni più rasserenanti e potenti che potete fare per intervenire in un mondo in tempesta è stare in piedi e mostrare la vostra anima. Un’anima sul ponte nei momenti bui risplende come l’oro. La luce dell’anima lancia scintille, emette bagliori, fa segnali di fuoco, attizza ciò che è appropriato. Mostrare il faro dell’anima in tempi oscuri come questi – essere tenaci e mostrare compassione verso gli altri – sono entrambe azioni di immenso ardimento e grandissima necessità. Le anime angosciate prendono luce dalle altre anime che sono completamente accese e che la mostrano spontaneamente. Se volete calmare il tumulto, questa è una delle cose più potenti che potete fare.

Ci sarà sempre un momento in cui vi sentirete scoraggiati. Io stessa ho provato lo scoraggiamento molte volte nella vita, ma non gli tengo il posto, non lo prendo in considerazione. Non gli permetto di mangiare nel mio piatto. Il motivo è questo: fin nelle ossa so una cosa, come la sapete voi. Ed è che non ci può essere disperazione quando ricordate il perché siete venuti sulla Terra, di chi siete al servizio e chi vi ha mandato qui. Le buone parole che diciamo e le buone azioni che facciamo non sono nostre: sono parole e azioni dell’Uno che ci ha portati qui. Con questo spirito, spero che scriverete questo sulla vostra parete: “Una grande nave ormeggiata nel porto è indubbiamente al sicuro. Ma non è per questo che le grandi navi sono state costruite”.

Che questo vi giunga con molto amore e con la preghiera di ricordare da chi voi venite e perché siete venuti su questa bellissima e necessaria Terra.

Clarissa Pinkola Estes, Ph.D.

Estratto dal sito: www.huna.org

Traduzione a cura di * Paola * per Stazione Celeste Newsletter

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