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Archivi della categoria: Evoluzione

Abitare l’intreccio del mondo vivente, Sofia Belardinelli (da Il Tascabile)

19 sabato Nov 2022

Posted by Paola in Evoluzione, Filosofia, Scienza, Società, Terra

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Estratto interno – Articolo completo: https://www.iltascabile.com/scienze/margulis-eco-evo-devo-evoluzione/

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(…) La visione propugnata da Margulis si poneva in netto contrasto con questa narrazione. La vita si basa sulla cooperazione, scriveva la biologa, piuttosto che sulla competizione: dallo sviluppo individuale (ontogenesi) fino ai fenomeni macroevolutivi come la speciazione, tutto dipende in primo luogo da una pacifica collaborazione tra viventi, che si realizza spesso sotto forma di unioni simbiotiche.

Tale proposta, sebbene scientificamente solida e molto esplicativa, era inaccettabile per la teoria dominante: un suo riconoscimento, anche solo parziale, avrebbe messo in discussione troppi dei suoi capisaldi. Ma uno dei meriti di Margulis, dotata di grande caparbietà e conscia della validità delle proprie ipotesi, fu proprio questo: aprire una crepa nel muro di certezze su cui poggiava l’evoluzionismo “gene-centrico” novecentesco, creare le condizioni per l’avvio di un dibattito sui fondamenti teorici di questo campo della ricerca scientifica.

In tal modo, insomma, veniva per la prima volta messa in dubbio l’effettiva oggettività della descrizione del mondo naturale costruita, a partire dal nucleo esplicativo darwiniano, dalla Sintesi Moderna della biologia evoluzionistica. Una volta riconosciuto che processi quali la competizione, l’individualismo, la lotta hanno un’importanza tutto sommato secondaria in natura rispetto a processi come la cooperazione multilivello e la simbiosi, diviene infatti evidente come quella narrazione sia figlia di una specifica Weltanschaaung, la stessa che ha portato, quasi parallelamente, all’emersione del capitalismo. L’operazione teorica di Margulis e dei (pochi) studiosi che, in quegli anni, iniziavano a mettere in discussione gli assunti principali della Sintesi Moderna consisteva, perciò, anche nell’allontanamento (seppur parziale) da uno dei punti nodali della visione darwiniana: la descrizione della natura incentrata sul principio di selezione naturale, il quale agisce in risposta alle necessità che emergono da un preciso contesto ecologico – quello della lotta per l’esistenza (struggle for existence) – e che il naturalista inglese aveva elaborato a partire dalle analisi malthusiane sul contrasto tra gli alti tassi di fecondità delle popolazioni naturali e l’insuperabile scarsità delle risorse disponibili.

Processi quali la competizione, l’individualismo, la lotta hanno un’importanza tutto sommato secondaria in natura rispetto a processi come la cooperazione multilivello e la simbiosi.

Proprio grazie all’avanguardistico lavoro di Margulis e degli scienziati che, nei decenni successivi, seguirono la sua suggestione di un altro modo di intendere il mondo naturale, la comprensione della fitta rete di relazioni collaborative che permea il mondo vivente ha compiuto nel tempo grandi progressi, rivelando che, proprio come ipotizzato dalla biologa statunitense, la cooperazione è un motore evolutivo fondamentale e operante ad ogni livello.

Oggi sono sempre più numerosi i ricercatori che abbracciano questa prospettiva, riconoscendo alla cooperazione un ruolo di primo piano nella storia della vita sulla Terra. I meccanismi collaborativi che muovono la vita sono indagati sempre più a fondo e, a poco a poco, emerge con chiarezza quanto la visione unicamente focalizzata su geni, selezione naturale e competizione fosse ristretta e parziale. Questo non significa – come sottolineano in un meraviglioso manuale Scott Gilbert e David Epel, due dei più importanti studiosi di una nuova branca dell’evoluzione, l’ecologia dello sviluppo o eco-evo-devo – che concetti come la competizione e la selezione naturale non siano più validi, o che debbano essere abbandonati. Essi mantengono, senz’altro, tutta la loro rilevanza teorica e pratica, ma devono essere inseriti all’interno di un più ampio quadro di fenomeni e processi che caratterizza il mondo dei viventi nella sua pluralità. (segue)

Testo integrale: https://www.iltascabile.com/scienze/margulis-eco-evo-devo-evoluzione/

Quando abbiamo iniziato a “vedere” il colore blu?, Davide Giorgio Berta

02 mercoledì Nov 2022

Posted by Paola in Evoluzione, Linguaggio, Scienza

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Perchè il cielo è blu? È una delle domande più comuni poste da bambini e adulti, a meno che non si provenga dall’antica Grecia, dove il blu non lo consideravano proprio. Se pensiamo che questo Paese è conosciuto in tutto il mondo per i suoi tipici tetti blu, le acque cristalline e una bandiera bianca e blu, è logico supporre che abbia una lunga tradizione con questo colore. Invece, niente di più sbagliato. Leggendo Omero, il famoso poeta greco dell’VIII secolo a.C., notiamo che la parola “blu” non viene menzionata una singola volta. Nelle centinaia di pagine de “L’Iliade“, il nero è menzionato 170 volte, il bianco 100, il rosso 13 volte, il giallo e il verde 10 volte ciascuno, mentre il blu non compare mai. Un fatto curioso è che Omero descrive l’oceano, color “vino scuro”. Altre stranezze cromatiche riguardano il “verde miele” e il “viola pecora”.

Inizialmente si pensava che gli antichi Greci vedessero i colori in modo diverso da come li percepiamo oggigiorno, o che fossero tutti daltonici. Tuttavia non è così. Ora sappiamo che la visione dei colori si è sviluppata circa 30 milioni di anni fa, quindi non è possibile che i Greci antichi vedessero i colori in modo diverso. La situazione diventa ancora più curiosa quando vengono considerate anche altre civiltà antiche: quasi nessuna ha mai utilizzato la parola “blu” nei propri testi.

Dai testi islandesi agli antichi poemi epici indiani risalenti a circa 4000 anni fa, dagli antichi scritti cinesi fino all’originale Bibbia ebraica, nessuno menziona il colore blu, mentre tutti menzionano il nero, il bianco e il rosso, e molti, inclusa la Bibbia, anche il verde e il giallo. Ad esempio, in questi testi l’oceano viene descritto come ampio, tempestoso e silenzioso, ma mai blu.

A partire dalla metà del XIX secolo, i linguisti iniziarono ad analizzare la storia delle lingue e scoprirono qualcosa di peculiare: in ogni cultura, il bianco e il nero sono i primi colori a comparire, poi subentra il rosso, poi il giallo e infine il verde. Il blu è sempre l’ultimo colore ad essere introdotto nel linguaggio di ogni cultura. Nel corso degli anni, i ricercatori hanno scoperto alcune piccole eccezioni con l’ordine di apparizione di verde e giallo, che ogni tanto si scambiano di posizione, ma il rosso è sempre il terzo e il blu l’ultimo.

Perché questo ordine? Ci sono due teorie principali.

Una è più semplice e riguarda il processo evolutivo. Il bianco e il nero aiutano a distinguere tra notte e giorno, luce e buio, e sono i più chiari e utili, quindi ogni cultura li assimila per primi. Il rosso è spesso associato al sangue oppure a un pericolo. Inoltre anche i volti umani e la comunicazione sfruttano il colore rosso, per esempio attraverso la risposta galvanica della pelle, come quando si arrossisce o si è stressati. Il verde e il giallo potrebbero essere stati introdotti nel linguaggio in seguito alla necessità di distinguere tra cibi maturi e acerbi. E il blu? Ci sono pochissime cose blu con le quali si interagisce: i frutti blu sono piuttosto rari, e lo stesso vale per gli animali.

In base alla seconda ipotesi, una parola non entra a far parte del linguaggio di un popolo fino a quando le persone non hanno utilizzato l’elemento che questa descrive. Il rosso è il colore più facile e accessibile, perché basta prendere un pezzo di argilla secca e usarlo come un pastello. Pensiamo alle pitture rupestri: la maggior parte dei dipinti contengono il nero e il rosso. Mentre il blu? È uno dei colori più difficili da creare. Per migliaia di anni, nessuno è stato in grado di produrlo, ad eccezione degli antichi Egizi, che infatti avevano una parola per descriverlo. (segue)

Testo integrale:https://trustinscience.com/2021/10/15/colore-blu/

Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Julian Jaynes (libro)

31 domenica Lug 2022

Posted by Paola in Coscienza, Evoluzione, Filosofia, Libri, Neoscienze, Società, Storia

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Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Julian Jaynes – Edizioni Adelphi

La coscienza della coscienza, Cap. I – Estratto

Quando ci poniamo la domanda:”che cos’è la coscienza?”, diventiamo coscienti della coscienza. E la maggior parte di noi ritiene che proprio questa coscienza della coscienza sia la coscienza. Ma non è così.

Quando siamo coscienti della coscienza, siamo convinti che la coscienza è la cosa più evidente che si possa immaginare. Pensiamo che la coscienza sia l’attributo che definisce tutti i nostri stati di veglia, i nostri stati d’animo e sentimenti, i nostri ricordi, pensieri, attenzioni e volizioni. Ci sentiamo confortevolmente sicuri che la coscienza è la base dei concetti, dell’apprendimento e del ragionamento, del pensiero e del giudizio, e che è tale perchè registra e immagazzina le nostre esperienze man mano che si verificano, consentendoci di esaminarle introspettivamente e di imparare da esse a nostro arbitrio. Siamo anche pienamente coscienti che tutto questo meraviglioso complesso di operazioni e di contenuti che chiamiamo coscienza è situato da qualche parte all’interno della testa.

A un esame critico, tutte queste proposizioni si rivelano erronee. Esso sono il costume con cui la coscienza si è mascherata per secoli. Sono le idee errate che hanno impedito di pervenire a una soluzione del problema dell’origine della coscienza. Dimostrare questi errori e indicare che cosa non è la coscienza è il compito lungo, ma io spero avventuroso, di questo capitolo.—

Indice: Introduzione [Il problema della coscienza] – I. La mente dell’uomo [1. La coscienza della coscienza – 2.  La coscienza – 3. La mente dell’Iliade – 4. Il doppio cervello – 5. L’origine della civiltà] – II. La testimonianza della storia [1. Dèi, tombe e idoli – 2. Teocrazie bicamerali in possesso della scrittura – 3. Le cause della coscienza – 4. Una nuova mente in Mesopotamia – 5. La coscienza intellettuale della Grecia – 6. La coscienza morale dei khabiru] – III. Vestigia della mente bicamerale nel mondo moderno [1. La ricerca dell’autorizzazione – 2. Dei profeti e della possessione – 3. Della poesia e della musica – 4. L’ipnosi – 5. La schizofrenia – 6. Gli auspici della scienza] – Post scriptum (1990)

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Julian Jaynes (1920-1997) – La sua carriera di ricercatore fu dedicata al tema della coscienza intesa come “la differenza tra ciò che gli altri vedono di noi e la nostra auto consapevolezza unita al senso profondo che la sostiene. [Wikipedia] – Julian Jaynes Society

Genesi: il grande racconto delle origini, G. Tonelli – Conferenza (2019, Video)

04 sabato Set 2021

Posted by Paola in Conferenza, Evoluzione, Filosofia, Inserimenti, Neoscienze, Storia, Video

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Genesi: il grande racconto delle origini – Guido Tonelli, Conferenza Rinascimento Culturale (2019) (Video)

Guido Tonelli (1950) è un fisico, accademico e divulgatore scientifico italiano, professore ordinario presso l’Università di Pisa. Ha partecipato ed è stato portavoce dell’esperimento CMS presso il CERN, che ha portato alla scoperta del bosone di Higgs. (Wikipedia)

Libri di Guido Tonelli

Plasmare il sé in un mondo disincantato, R. Tarnas (estratto da: Cosmo e Psiche)

19 domenica Mag 2019

Posted by Paola in Coscienza, Evoluzione, Filosofia, Libri, Percezione

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Plasmare il sé in un mondo disincantato, R. Tarnas (estratto da: Cosmo e Psiche–Un approccio psicologico alla conoscenza dell’Universo, Edizioni Mediterranee 2012)

(Estratto dal Cap. 1 – La trasformazione del Cosmo)

La nostra concezione del mondo non è semplicemente il modo in cui lo vediamo. Essa si estende all’interno per formare il nostro essere più interiore e all’esterno per costituire il mondo. Rispecchia, ma anche rafforza e perfino crea le strutture, le blindature e le possibilità della nostra vita interiore. Configura profondamente la nostra esperienza psichica e somatica, gli schemi secondo cui percepiamo, conosciamo e interagiamo con ciò che ci circonda. Non meno potentemente tale concezione – le nostre credenze e teorie, le elaborazioni, le metafore, i miti, gli assunti interpretativi – costella la nostra realtà esterna, plasmando e lavorando i malleabili potenziali del mondo in mille forme di interazione sottilmente reciproca. Le visioni del mondo creano mondi.

Forse il modo più sintetico di definire l’attuale concezione del mondo consiste nel concentrarsi su ciò che di fatto la distingue da tutte le altre. Parlando in via molto generale, a caratterizzare il pensiero moderno è la fondamentale tendenza ad affermare e sperimentare una separazione radicale tra soggetto e oggetto, una netta divisione tra il sé umano e il mondo che lo comprende. Tale prospettiva può essere contrapposta a quella che ha finito per essere chiamata visione primitiva del mondo, tipica delle culture indigene tradizionali. Il pensiero primitivo non riconosce questa decisa separazione, non la ammette, mentre quello moderno non solo la sostiene, ma è essenzialmente basato su di essa.

L’uomo delle origini percepisce il circostante mondo naturale come pervaso di significato, la cui portata è al tempo stesso umana e cosmica. Vede spiriti nelle foreste, avverte presenze nel vento e nel mare, nei fiumi, sulle montagne. Ravvisa significati nel volo di due aquile sull’orizzonte, nella congiunzione di due pianeti nel cielo, nei cicli della Luna e del Sole. Al mondo primitivo viene attribuita un’anima. Esso comunica e persegue degli scopi. È pieno di segni e simboli, implicazioni e intenzioni. È animato dalle stesse risonanti realtà psicologiche che gli esseri umani sperimentano dentro di sé. Una continuità si estende dal mondo interiore dell’uomo a quello esterno. Nell’esperienza primordiale quello che posso chiamare “mondo esterno” possiede un aspetto interiore continuo con la soggettività umana. Intelligenza creativa e reattiva, spirito e anima, significa o intento sono ovunque. L’uomo è un microcosmo nel macrocosmo del mondo, partecipe della sua realtà interiore e unito al tutto in modo sia tangibili che invisibili.

L’esperienza primitiva ha luogo, per così dire, all’interno di un’anima mundi, un’anima del mondo, una matrice vivente di significato incarnato. La psiche umana è radicata in una psiche globale, della quale partecipa in maniera complessa e da cui è costantemente definita. Il funzionamento di questa anima mundi, con la sua mutevolezza e diversità, viene espresso con un linguaggio mitico e numinoso. Poiché si ritiene che il mondo parli attraverso simboli, può verificarsi una comunicazione diretta di significati e intenti da esso all’uomo. I tanti particolari del mondo empirico possiedono tutti un significato simbolico e archetipico che fluisce tra interno e esterno, tra il sé e il mondo. In questo stato di consapevolezza relativamente indifferenziato, gli esseri umani percepiscono se stessi come direttamente partecipi – emotivamente, misticamente, consequenzialmente – e in comunicazione con la vita interiore del mondo naturale e del cosmo. Per essere più precisi, questa partecipation mystique implica un complesso senso di partecipazione diretta dell’uomo non solo al mondo, ma anche ai poteri divini, e di questi al mondo in virtù della loro presenza immanente e onnipervasiva.

Per contrasto, il pensiero moderno sperimenta una divisione fondamentale tra un sé umano soggettivo e un mondo esterno oggettivo. Fatta eccezione per l’uomo, il cosmo è considerato totalmente impersonale e inconsapevole. Qualunque bellezza e valore gli esseri umani possano percepire nell’universo, questo è di per sé semplice materia in movimento, meccanicistica e priva di scopo, governata dal caso e dalla necessità. È del tutto indifferente alla consapevolezza e ai valori umani. Il mondo esterno all’uomo manca di intelligenza consapevole, di interiorità e di significato e intento propri. Dalla prospettiva contemporanea, l’individuo primordiale unisce e confonde interiore ed esteriore, e pertanto vive in uno stato di costante illusione magica, in un mondo antropologicamente distorno, speciosamente riempito del significato soggettivo della psiche umana. Per il pensiero moderno, l’unica fonte di significato nell’universo è la consapevolezza umana.

Secondo un altro modo di descrivere la situazione, si potrebbe dire che il pensiero attuale considera il mondo all’interno di una implicita struttura empirica in cui il soggetto è separato e in un certo senso contrapposto all’oggetto. Il nostro mondo è pieno di oggetti che il soggetto umano incontra e in base ai quali agisce dalla sua unica posizione di autonomia consapevole. Viceversa, il pensiero primordiale vede il mondo più come un soggetto inserito in un mondo di soggetti, senza alcun limite assoluto tra loro. In questa prospettiva, il mondo è pieno di soggetti. Il mondo primordiale è impregnato di soggettività, interiorità e di intrinseci significati e intenti.

(…) Il sistematico riconoscimento che la fonte esclusiva di significato e scopo nel mondo è la mente umana e che è un errore madornale proiettare ciò che è umano sul non umano, costituisce uno dei presupposti fondamentali – forse il presupposto fondamentale – del metodo scientifico moderno. La scienza attuale cerca con rigore eccessivo di “deantropomorfizzare” la cognizione. I fatti sono là, i significati vengono trasmessi qui. La realtà è considerata semplice, cruda, oggettiva, non abbellita dall’umano e dal soggettivo, non distorta da valori e aspirazioni. Vediamo emergere questo impulso chiaramente visibile nel pensiero moderno dai tempi di Bacone e Cartesio in poi. Se l’oggetto va adeguatamente compreso, il soggetto deve osservarlo e analizzarlo ponendo la massima cura nel sopprimere l’ingenua tendenza dell’uomo di investirlo di caratteristiche che può attribuire solo a se stesso. Affinché vi sia una conoscenza autentica e valida, il mondo oggetti – la natura, il cosmo – deve essere visto come fondamentalmente privo di tutte quelle qualità soggettivamente e interiormente presenti nella mente umana in quanto suoi fattori costituenti: consapevolezza e intelligenza, senso di scopo e intento, capacità di espressione e comunicazione, immaginazione morale e spirituale. Percepire tali qualità come intrinsecamente esistenti nel mondo vuol dire “contaminare” l’atto di conoscere con quelle che sono in realtà proiezioni umane.

(…) Privare il mondo della soggettività, della sua capacità di esprimere intenzionalmente un significato tramite l’oggettivazione e il disincanto accentua radicalmente il senso di libertà e la soggettività autonoma del sé umano, la sua fondamentale convinzione di poter plasmare e determinare la propria esistenza. Allo stesso tempo, il disincanto intensifica la capacità dell’uomo di vedere il mondo naturale fondamentalmente come un contesto da modellare e una risorsa da sfruttare a proprio vantaggio. Quando il mondo perde le sue strutture tradizionali di significato predeterminato, quando queste vengono successivamente “penetrate” e decostruite, le condizioni dell’esistenza umana – sia esterna che interiore – diventano sempre più aperte al cambiamento e allo sviluppo, sempre più soggette all’influenza, all’innovazione e al controllo umani.

(…) Parlando in termini molto generali, possiamo dire che mentre il sé umano, guidato dalle sue simbolizzazioni in evoluzione culturali, religiose, filosofiche e scientifiche, otteneva una concretezza e una distinzione sempre maggiori rispetto al mondo, progressivamente si appropriava di ogni intelligenza e anima, significato e scopo che in precedenza percepiva nel mondo, tanto da finire per localizzare queste realtà esclusivamente nel proprio interno. Per contro l’uomo, appropriandosi di ogni intelligenza e anima, significato e scopo che in precedenza percepiva nel mondo, acquisiva rispetto a esso concretezza e distinzioni sempre maggiori, accompagnate da una crescente autonomia man mano che tali significati e scopi venivano considerati sempre più plasmabili dalla volontà e dall’intelligenza umane. I due processi – informare il sé e appropriarsi dell’anima mundi – si sono sostenuti e rafforzati a vicenda, con la conseguenza di svuotare gradualmente il mondo esterno di ogni significato e scopo intrinseci.

(…) In realtà, per sintetizzare un processo estremamente complicato, la realizzazione dell’autonomia umana è stata pagata con l’esperienza dell’alienazione. Quanto è preziosa la prima, tanto dolorosa è la seconda.

– Estratto da: Cosmo e Psiche, Richard Tarnas – Edizioni Mediterranee

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– Anima Mundi – https://it.wikipedia.org/wiki/Anima_del_mondo

– La psiche è l’espressione Cosmo, Intervista a R. Tarnas

Minuscoli universi chiamati “uomini”, E. Boncinelli

19 mercoledì Dic 2018

Posted by Paola in Evoluzione, Inserimenti, Neoscienze, Percezione

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Dagli atomi alle galassie – Minuscoli universi chiamati «uomini», Edoardo Boncinelli (2003)

Ànthropos micròs còsmos, l’uomo è un piccolo universo, un microcosmo.

Con questa affermazione contenuta in un frammento di Democrito del quarto secolo avanti Cristo inizia la fortuna di un concetto che è stato ripreso innumerevoli volte attraverso i secoli: quello che raffigura appunto l’uomo come un microcosmo, un’immagine rimpicciolita dell’universo stesso e un suo compendio. Soprattutto nel Medio Evo quest’immagine è molto piaciuta e ha dato luogo ad innumerevoli riflessioni che tendono a fare dell’uomo un piccolo universo a sé ma anche un tramite per penetrare, per analogia o allusione, i misteri del cosmo e controllarne le trasformazioni. «Fintanto che il cervello resterà un mistero, resterà un arcano anche l’universo» ha detto il grande neurobiologo spagnolo Ramòn y Cajal non troppo tempo fa. Che ne è oggi di questa idea, oggi che la scienza ci ha rivelato l’esistenza di mondi arcani e remoti, nell’infinitamente piccolo come nell’infinitamente grande? Da una parte ci sono gli atomi, più piccoli di un milionesimo di millimetro, e le particelle ancora più minuscole che li compongono; dall’altra le stelle e le galassie, per le quali si ragiona in termini di milioni di chilometri. Noi ci troviamo più o meno nel mezzo e abitiamo un mondo caratterizzato da oggetti le cui dimensioni vanno dal millimetro al chilometro e tempi che vanno dal secondo al decennio.

Questo è anche il mondo nel quale si è sviluppata ed evoluta la vita sul nostro pianeta. È naturale, perciò, che tutti gli animali siano in grado di percepire e comprendere gli eventi che hanno luogo a questa scala. Anche il nostro cervello è in grado di osservare e comprendere facilmente realtà che si misurano in termini di metri e di minuti. Non siamo invece particolarmente attrezzati a rappresentarci eventi che abbiano luogo a scale molto diverse e ci siamo anche stupiti, chi sa perché, del fatto che la fisica atomica e nucleare ci abbiano dimostrato che gli atomi e le particelle subatomiche non sono solo più piccoli ma sono anche molto diversi. Queste minuscole entità obbediscono cioè a leggi diverse e inconsuete che sono difficili pure da riassumere. In tempi più recenti abbiamo anche appreso che gli oggetti celesti di grandi dimensioni presentano proprietà nuove e diverse. Negli immensi spazi siderali si aggirano oggetti che incurvano con la sola loro presenza il continuo spazio-temporale, enormi quantità della cosiddetta materia oscura, per non parlare dell’energia oscura, e quelle particolarissime entità che sono i buchi neri.

Perché dovremmo meravigliarci del fatto che non riusciamo a capire e talvolta neppure a dire come funzionano questi mondi così lontani e inattingibili? Eravamo fatti per ben altro. I nostri sensi e la nostra capacità di rappresentare e immaginare sono sintonizzati sul quotidiano e il consueto. Considerando i mondi dell’infinitamente piccolo e dello straordinariamente grande non possiamo che affidarci ad analogie o ad immagini mentali più o meno fedeli. Oppure a leggi matematiche non facilmente interpretabili, quelle leggi che per quanto riguarda gli oggetti del nostro mondo sono poco più di riassunti di un gran numero di affermazioni, ma che per i fenomeni che hanno luogo in questi mondi remoti rappresentano l’unica forma possibile di conoscenza e di previsione.

L’uomo e la sua storia si collocano in una nicchia spazio-temporale molto ristretta, una sorta di meso-mondo collocato a mezza strada fra un micro-mondo e un mega-mondo. A quello apparteniamo e quello siamo in grado di comprendere. Ciò significa che gli altri mondi non esistono o che non hanno le proprietà che noi gli attribuiamo? Nemmeno un po’. La nostra stessa esistenza è anzi la migliore dimostrazione della necessità del piccolo e del grande. Senza di questi non potremmo esistere e probabilmente non potrebbe esistere neppure la vita. Prendiamo gli atomi. Anche un tavolo o una roccia sono costituiti di molecole e di atomi ma per comprendere molte delle loro proprietà questo fatto può essere ignorato. Non così per la vita e per la vita intelligente. Un essere vivente deve necessariamente essere costituito di cellule e per poter pensare deve possedere anche un cospicuo numero di cellule nervose. Le cellule sono a loro volta piccoli mondi organizzati e sufficientemente autonomi che non possono non essere formati da un numero enorme di unità costitutive elementari. Se i mattoni del mondo fossero delle dimensioni a noi familiari, anche solo dell’ordine dei millimetri, non ci sarebbero esseri viventi e noi non ci saremmo.

All’estremo opposto, oggi sappiamo che se l’universo non fosse tanto grande, non sarebbe trascorso abbastanza tempo dall’inizio del tutto e questo non sarebbe stato sufficiente perché potesse evolvere una forma di vita intelligente su un pianeta che presenti condizioni ambientali relativamente stabili come la nostra Terra. Insomma, perché noi esistiamo è necessario che il mondo contenga realtà incommensurabili che si comportino in maniera incomprensibile. Il sorprendente è che almeno in parte riusciamo a comprenderle. E a parlarne.

Fonte: SWIF, 28/11/2003

Edoardo Boncinelli è stato capo del Laboratorio di Biologia Molecolare dello Sviluppo presso il Dipartimento di Ricerca Biologica e Tecnologica (DIBIT) dell’Istituto Scientifico H. San Raffaele; è inoltre professore di Biologia e Genetica presso l’Università Vita-Salute e Direttore di ricerca CNR presso l’Istituto di Farmacologia Molecolare e Cellulare del CNR di Milano.

Fisico di formazione, si è dedicato allo studio della genetica e della biologia molecolare degli animali superiori e dell’uomo prima a Napoli (presso l’Istituto Internazionale di Genetica e Biofisica, I.I.G.B., del CNR), dove ha percorso le tappe fondamentali della sua carriera scientifica, e poi a Milano. E’ membro dell’Accademia Europea e dell’EMBO, l’Organizzazione Europea per la Biologia Molecolare, ed è stato Presidente della Società Italiana di Biofisica e Biologia Molecolare. [ndr]

http://www.boncinelliedoardo.com/

L’allucinazione, L. Watson

15 martedì Mag 2018

Posted by Paola in Coscienza, Evoluzione, Inserimenti, Neoscienze, Percezione, Realtà Parallele, Stati altri di coscienza

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L’allucinazione, Lyall Watson – (estratto da “SuperNatura”, ed. Rizzoli (1974), attualmente fuori catalogo)

Le droghe e le pratiche allucinogene rivelano qualcosa che sembra caratteristico dell’uomo. Esse illuminano soltanto le frange di una estensione mentale così vasta che è difficile da comprendere. Sidney Cohen, direttore dell’Istituto di salute mentale nel Maryland, descrive il cervello come «una fabbrica di simboli il cui scopo principale è la gestione del corpo. La sua attività secondaria sembra essere quella di riflettere sulle cose, sul dove vanno e sul che cosa significano. La sua capacità unica di interrogarsi e di essere consapevole è del tutto inutile ai fini della sopravvivenza fisica» (76). Le occhiate che abbiamo incominciato a rivolgere alla sfera cerebrale, sollevano infatti alcuni problemi evoluzionistici senza precedenti. Nessun biologo affermerebbe che le attività straordinarie del cervello siano inutili per la sopravvivenza: il cervello è parte di noi e noi siamo parte dell’ecologia come qualunque altra specie. Quello che abbiamo fatto al nostro ambiente è naturale come il tuono o il lampo. Il nostro cervello ha fatto di noi una grande forza dell’evoluzione, e ci vorrà molta immaginazione e creatività da parte sua per tirarci fuori dalle attuali difficoltà. Ma sono d’accordo con Cohen sul fatto che l’estensione del potenziale umano ispiri sgomento; noi sembriamo avere acquistato capacità al di là dei nostri bisogni attuali e drammatici e sembriamo schiacciati da questo peso.

La natura fa raramente qualcosa senza una buona ragione, eppure ha attraversato qualche difficoltà lungo gli ultimi dieci milioni di anni – un tempo molto breve secondo le sue misure – per rifornirci di un’enorme corteccia cerebrale dalla capacità apparentemente illimitata. Abbiamo acquistato questo organo incredibile a spese di parecchi altri, eppure ne usiamo soltanto una piccola parte. Che fretta c’era? Perché abbiamo corso così in fretta lungo questa linea di sviluppo? Avremmo certamente potuto cavarcela con molto meno. Al momento siamo come una piccola famiglia di inquilini che hanno occupato un vasto palazzo ma non sentono il bisogno di muoversi oltre il comodo e ben fornito appartamento localizzato in un angolo del sottosuolo.

Una consapevolezza quasi subliminare del resto della struttura ci ha sempre tentato. Brevi sguardi gettati nelle altre stanze hanno portato pochi avventurosi individui a fare sforzi più precisi di esplorazione, ma i metodi tradizionali hanno avuto soltanto un parziale successo. Alcuni hanno tentato delle tecniche ritmiche, come i canti cristiani o i movimenti ondeggianti della preghiera indù, o le danze vorticose dei dervisci, onde provocare uno stato di trance che potesse portarli al di là della barriera. Alcuni hanno tentato di alterare la chimica del loro corpo con una profonda respirazione o col digiuno o con la rinuncia al sonno. Alcuni hanno cercato una dissociazione nel dolore fisico attraverso l’auto-flagellazione o la mutilazione o impiccandosi al soffitto. Gli indiani Sioux usavano il caldo e la sete nel loro rituale solare per raggiungere una specie di crudele delirio; gli egizi cercarono l’isolamento sociale nei loro rituali nel tempio. La cosa che tutti questi metodi hanno in comune è che cercano di arrestare il flusso di informazioni con cui l’ambiente circostante cerca di sommergerli; sia eliminando l’afflusso di sensazioni, sia rendendole monotone e prive di significato. Quando questo è fatto, alcune fra le porte della mente cominciano a schiudersi.

La tecnica della deprivazione sensoriale è stata perfezionata in molte recenti ricerche. All’Università McGill i soggetti vennero confinati in una stanzetta acusticamente isolata e portavano occhialoni che ammettevano soltanto una luce diffusa. A Princeton vennero tenuti in un cubicolo piccolo, isolato visivamente e acusticamente, e a temperatura costante. E in Oklahoma e nello Utah essi vennero immersi in una cisterna scura d’acqua mantenuta a temperatura del sangue in modo che essi non ricevessero né luce né suono né sensazioni tattili dal loro ambiente. L’immediata reazione in tutti questi studi fu il ritirarsi da questa monotonia dentro il sonno, ma una volta che questa possibilità di fuga venne impedita ed essi non poterono più dormire, i volontari incominciarono a incontrare nuove difficoltà. Tutti i soggetti persero il senso del tempo e sottovalutarono il suo scorrere; alcuni dormirono per oltre ventiquattr’ore e affermarono che era stato soltanto un’ora o due. Il disorientamento e la mancanza di informazioni da parte dell’ambiente circostante rese loro difficile pensare seriamente e costruire giudizi normali. I sogni incominciarono ad apparire più frequentemente, talvolta con spaventosa intensità, e prima o poi l’assoluta irrealtà della situazione portò la maggior parte dei soggetti all’esperienza dell’allucinazione. Non si tratta solo di «fantasmi» sensoriali come i bagliori di luce o i rintocchi di campana, ma avvenimenti completi, complessi e interamente convincenti (329).

Quello che sembra accadere è che in circostanze normali la grande quantità di informazioni che noi riceviamo è regolata dalla formazione reticolare, che seleziona e lascia passare solo ciò di cui abbiamo bisogno e di cui “possiamo occuparci in quel momento. In condizioni di deprivazione sensoriale noi riceviamo molto poco, cosicché ogni pezzetto di informazione riceve molto di più della quantità solita di attenzione, e diventa enormemente ingrandita. La nostra visione si restringe, cosicché gonfiamo quello che riceviamo fino a riempire l’intero schermo, come un film fatto passare al microscopio. Quindi parte dell’allucinazione è semplicemente un primo piano migliorato della realtà, ma c’è qualcosa di più. Lasciato senza il suo solito sbarramento di stimoli, il cervello abbellisce la realtà e la elabora, attingendo alla sua riserva di inconsce cianfrusaglie per riempire il tempo e lo spazio a disposizione. Eppure neanche questo va abbastanza lontano, perché ci sono aspetti dell’allucinazione che sembrano risiedere al di fuori sia delle possibilità coscienti del cervello sia dì quelle incoscienti.

Quasi ogni sottocultura ha cercato prima o poi una radice, un’erba o una bacca per far avanzare il processo di dissociazione. I persiani avevano una pozione chiamata soma, la quale, secondo gli annali sanscriti «rendeva un uomo simile a un dio». Elena di Troia aveva il nepente. In India e in Egitto hanno sempre usato hashish e marijuana. In Europa e in Asia c’era il magnifico fungo a macchie rosse Amanita, che uccideva le mosche e rendeva furiosi gli antichi cavali scandinavi. Il Messico ha la sua gloria mattutina fiore di cactus, e diversi «funghi divini». Tutte queste piante contengono agenti chimici che provocano stati trascendentali, e molti di essi sono stati usati come additivi in cerimonie magiche e religiose, ma la sostanza psichedelica più sconvolgente e significativa di tutte non cresce spontaneamente in natura ma dev’essere estratta dai grani della segala cornuta. Si tratta dell’acido lisergico dietilamidico, o LSD.

Questo acido è stato provato su molti animali, ma sembra avere avuto un piccolo effetto su di loro a eccezione forse, del ragno, il quale costruisce una ragnatela un po’ più fantasiosa. Esso sembra interessare direttamente i livelli più alti del pensiero, e anche una piccola porzione, circa un trecentimillesimo di oncia, provoca effetti profondi sull’uomo. A seconda di come è preso, gli effetti cominciano entro una mezz’ora, raggiungono il massimo circa un’ora e mezzo dopo, e terminano sei o anche sette ore più tardi. La maggior parte dell’azione cerebrale sembra essere confinata al sistema reticolare e al sistema limbico, che regola le esperienze emotive. Quindi esso lavora direttamente in queste zone di filtraggio e di confronto delle esperienze sensoriali, e in quelle aree che determinano i sentimenti individuali su questo materiale. La parola, la capacità di camminare, e la maggior parte delle attività fisiche restano totalmente non influenzate. La pressione sanguigna e il polso sono normali, i riflessi sono acuti, e non vi sono spiacevoli effetti secondari. Sembra che l’LSD operi soltanto nella zona di più alta consapevolezza del cervello umano, in quella che noi crediamo la nostra personalità.

L’effetto psicologico più considerevole, come nella privazione sensoriale, è un rallentarsi del tempo: le lancette dell’orologio sembrano non muoversi affatto. Questa specie di eterno presente è molto simile a una versione prolungata del modo in cui il tempo può arrestarsi in momenti di grande pericolo personale. Noi abbiamo nella nostra fisiologia la capacità di produrre questo effetto nei casi di emergenza, e l’LSD sembra portarla un passo più in là, ma senza che abbia più a che fare con la sopravvivenza fisica. La separazione fra l’io e il non-io, l’antico, primevo rifugio dell’inconscio, scompare molto presto, e i confini dell’io si dissolvono. Cohen dice : «La sottile protezione della ragione lascia via libera alla fantasticheria, l’identità è sommersa da sentimenti oceanici di unità, e il fatto di vedere perde i significati convenzionali impostici dagli oggetti visti».

È importante a tal proposito rendersi conto che noi di solito percepiamo soltanto quello che possiamo concepire. Noi costringiamo le sensazioni a coincidere con la nostra idea di come le cose dovrebbero essere. L’esperimento classico di dotare la gente di occhiali che invertono ogni cosa lo dimostra in modo definitivo. Entro un giorno o due il cervello incomincia a correggere il campo visivo e questa gente ricomincia a vedere tutto ancora nel modo «giusto», ma quando si tolgono gli occhiali il mondo intero risulta capovolto. Quindi il mondo viene visto non com’è, ma come dovrebbe essere. Parte del problema è che noi riceviamo tante di quelle sensazioni da essere obbligati a scegliere, e a ritrovarci con una visione della realtà attentamente selezionata e molto ristretta. L’LSD ha la capacità di toglierci i paraocchi e di farci vedere le cose con occhi nuovi, come se fosse la prima volta. In questa condizione possiamo ricominciare ad apprezzare i suoni dei colori, il profumo della musica, e le trame degli umori. Le api e i pipistrelli è i calamari del profondo mare, pur senza possedere l’estensione della nostra sensibilità e dei nostri interessi, fanno questo continuamente.

I bambini vedono di solito le cose con enorme chiarezza. E’ possibile che quello che chiamiamo allucinazione sia una parte normale di ogni esperienza infantile (i loro disegni sembrano confermarlo); ma quando diventiamo adulti le nostre visioni si oscurano e alla fine si estinguono, perchè esse di solito hanno un valore sociale negativo. Ogni società si basa su certe regole di condotta che indicano normalità, e per una combinazione di queste pressioni sociali e il nostro bisogno di adattamento la maggior parte di noi finisce dentro questi limiti. Pochi sfuggono a ciò e vengono classificati come pazzi e privati della loro libertà con la scusa che abbisognano di assistenza, ma in realtà il loro confinamento ha soprattutto lo scopo di proteggere la società piuttosto che questi individui da se stessi. L’unione Sovietica non fa misteri a questo proposito e regolarmente incrimina i dissenzienti sostenendo che essi devono essere pazzi se non vanno d’accordo con lo Stato. Pochi individui riescono a scuotere le restrizioni della normalità e a farne a meno, perché fanno questo all’interno di una sfera religiosa nella quale queste attività rivoluzionarie sono consentite in quanto sono state definite «di ispirazione divina».

Ben lontana dall’essere confinata, la maggior parte della gente che ha questo tipo di esperienza trascendentale ritorna alla società con una nuova visione delle cose e comincia a cambiare la propria vita e quella degli altri – non sempre per il meglio. Alcuni santi e profeti sono stati certamente pazzi, ma non ha senso definirli tutti insani. La loro esperienza non è unica. Quasi ognuno di noi, in qualche momento della sua vita, ha un momento di rapimento o di estasi ispirata da un lampo di bellezza, dall’amore, da un’esperienza sessuale o da un intuito. Queste visioni momentanee di perfezione e di godimento estetico sono frammenti di uno stato che i cristiani chiamano «divino amore», i buddisti Zen «satori», gli indù «moksha», e i vedanta «samadhi». Simili esperienze sono così poco comprese da essere tutte ammucchiate nel misticismo e considerate come soprannaturali. Nel senso che essi non possono essere ospitati nella definizione di «sanità» culturale, questi stati sono «insani», ma ci può aiutare a capirli meglio il fatto di rinunciare a questa pesante etichetta e di riferirci a essi come a stati di non-sanità.

Non c’è niente di soprannaturale in essi, e l’importanza di prodotti chimici come l’LSD è di mostrarlo molto chiaramente, semplicemente togliendo gli strati superficiali di «sanità» e facendoci di nuovo diventare naturali. Uno degli effetti più comuni delle sostanze psichedeliche è di acuire la ricettività e di consentire di raccogliere i suggerimenti ambientali con squisita sensibilità. In situazioni sperimentali di laboratorio i soggetti all’LSD spesso sembrano leggere nella testa dell’esaminatore, ma è chiaro dalle analisi che essi stanno semplicemente reagendo, nel modo in cui fanno molti animali, ai più piccoli cambiamenti di tono, di espressione facciale, di posizione. Noi siamo sempre capaci di raggiungere questo genere di percezione subliminare, che è davvero supernaturale se la paragoniamo ai nostri livelli normali di reazione, ma nella più vasta arena biologica questi talenti sono cosa molto comune e del tutto naturale. Il nostro stato di veglia «sana» è uno stato di inibizione.

Parte di questo è necessario per evitare di essere schiacciati dalla quantità di sensazioni sopraggiungenti, ma le barriere erette, dal sistema reticolare a loro volta ci tolgono molto di ciò che è pieno di magia e di ispirazione. Questo è assurdo quando ormai disponiamo di un cervello che per la prima volta è capace di apprezzare queste meraviglie. Non sto raccomandando una dissociazione di massa e una fuga generale dentro queste zone di insanità. Blake, Van Gogh, Verlaine, Coleridge e Baudelaire vissero e lavorarono molto spesso in uno stato di coscienza trascendentale, e soffrirono tremendamente nel loro sforzo di rompere le barriere della ragione e della realtà.

Ora, forse più che in qualsiasi altro momento della nostra evoluzione, abbiamo bisogno di vedere chiaramente i problemi che ci affliggono, ma il nostro sforzo diventa inutile se non impariamo ad apprezzare il fatto di essere diventati padroni del nostro destino. Abbiamo bisogno di sapere dove stiamo andando e come ci arriveremo. Abbiamo già incominciato a fare uso dei nostri talenti coscienti ma abbiamo totalmente trascurato quelli che sono raggiungibili dall’altra parte della mente. La natura ci ha dato tutto l’equipaggiamento necessario a questo scopo, nello spazio che è contenuto tra le nostre orecchie, e le tecniche di ipnosi, di autosuggestione, di sogno e di allucinazione ci danno un’idea dei poteri che possediamo. Tutto quello che dobbiamo fare è usarli saggiamente.

(76) Gohen S.Drugs of Hallucination London: Paladin, 1971 (329) Dernon, I. A. Inside the black room London: Penguin, 1966

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