Sulla “chiusura”, Paola (nota  al gruppo di pratica)

Vorrei condividere alcuni pensieri sull’importanza di una “chiusura“ appropriata.

Nel nostro paradigma il concetto di chiusura non sottintende esclusione ma conclusione. Nella nostra chiusura non c’è l’idea di liberarsi di qualcosa dandogli un calcio, di eliminarlo o cacciarlo via, di disfarcene in quanto sgradevole e indesiderato. Non è così. La nostra chiusura è un momento di riconoscimento del valore di un’esperienza, è un momento in cui noi volutamente e consapevolmente non giudichiamo in senso di positivo o negativo, ma consideriamo l’utilità o il servizio che l’esperienza, il rapporto, l’evento o la cosa che si è chiusa o sta chiudendosi, ci ha donato. Lo andiamo a considerare come un nutrimento che ci è stato dato, che ci ha fatto crescere e comprendere meglio alcuni aspetti di noi.

Nel corso della nostra vita dobbiamo riconoscere e prendere coscienza dei momenti in cui una cosa si trasforma o cambia, che non è più quella che intendevamo, o che non va più bene, per noi o gli altri. Pertanto, quando la cosa finisce per cause esterne, oppure decidiamo di abbandonarla o di togliere noi stessi dalla situazione, prendiamo atto che per noi – ribadisco per “noi” e non necessariamente per le altre parti in causa – la situazione, l’evento, il contesto si sono esauriti.

A volte delle nuove iniziative non partono proprio perché non hanno lo spazio o la libertà necessaria a svilupparsi a causa delle influenze delle esperienze passate. E mi riferisco alle esperienze negative tanto quanto a quelle positive. Generalmente, tendiamo a considerare condizionanti solo gli eventi che riteniamo negativi, mentre di quelli positivi vogliamo farne tesoro. Tuttavia, per quanto riguarda i condizionamenti non si possono usare due pesi e due misure secondo criteri di “piacevolezza” personale. A tal proposito vorrei citare il pensiero di C. G. Jung: “Non dobbiamo soggiacere a nulla, nemmeno al bene. Un cosiddetto bene al quale si soccombe perde il carattere etico. Non che diventi cattivo in sé, ma è il fatto di esserne succubi che può avere cattive conseguenze. Ogni forma di intossicazione è un male, non importa se si tratta di alcol, morfina o idealismo. Dobbiamo guardarci dal considerare il male e il bene come due opposti.

Un’esperienza esaltante o profondamente felice lascia un’impronta condizionante sulle esperienze future tanto quanto un’esperienza tragica. Condiziona la percezione assumendo il carattere di termine di paragone per una felicità futura, crea uno schema altrettanto inficiante a vivere liberamente ogni diversa manifestazione del nuovo e del diverso, bloccando ogni altro diverso godimento.

È per questo motivo che noi riconosciamo l’importanza di operare un qualche atto di chiusura, soprattutto per ciò che si è già dichiaratamente concluso e che fa parte di un passato decisamente alle nostre spalle. Dal punto di vista del nostro paradigma tutto ciò che non ci serve più, che si è ormai esaurito e che vogliamo lasciare, deve essere chiuso in modo appropriato. Abbiamo il compito verso noi stessi di entrare in contatto con queste forze limitanti e scioglierle, così da non restare legati a immagini di noi cristallizzanti e disattivanti.

Quando riconosciamo o consideriamo la conclusione di qualcosa, dobbiamo esprimerla; dobbiamo compiere un atto che in qualche modo lo attesti in modo manifesto e palese nella realtà di consenso. Può essere con un rituale, oppure con una festa, un biglietto, un regalo, un pensiero: azioni e gesti accompagnati da un sincero e reale ringraziamento. Anche se l’esperienza non è stata piacevole, dovrebbe essere portata a buon fine con grazia e in armonia.

Per me, gli elementi di un atto di chiusura sono: 1) Riconoscimento che l’esperienza o l’evento si sono conclusi. 2) Apprezzamento e gratitudine per il dono che l’esperienza o l’evento mi ha lasciato come conoscenza o saggezza. 3) Ringraziamento e congedo senza giudizio.

Questi tre punti dovrebbero essere sentiti sinceramente e non essere azioni o parole dette per formalità.

Anche se è stata vissuta con un senso di profondo dolore o infelicità, se non si vuole che una certa esperienza influenzi il proprio futuro, deve essere congedata con sincera gratitudine, con il pensiero che è solo per suo merito che si è giunti a questo nostro momento di reale (e non immaginario) punto di svolta. La Provvida Sventura di manzoniana memoria, insegna.

Altrettanto vale nel chiudere un’esperienza ritenuta felice, quelle di cui si è portati a dire: “più di così non potrò avere…”, o “ il futuro non sarà mai più così radioso…”, o anche “non troverò più una persona/un lavoro/un contesto migliore di…”. E lo stesso vale quando questa felicità ci è stata data da un profondo affetto che ci ha lasciato: è bene congedarla.

Vorrei sottolineare che oggetto dell’atto di chiusura sono le esperienze o gli eventi, e non le persone. Le persone di per sé sono anime eterne e da esse non ci separeremo mai, le troviamo sempre e comunque nostre compagne di viaggio. Le persone sono gli attori che allestiscono la scena di cui noi siamo protagonisti, e nei loro diversi ruoli danno l’estro alla nostra interpretazione. Pertanto è possibile chiudere appropriatamente qualcosa di nostro: un atteggiamento, un’abitudine, un’esperienza di cui riconosciamo realmente di aver assimilato il valore e che, di conseguenza, sono diventate per noi preziose. In caso contrario ci ritroveremo in breve tempo a riviverle in apparentemente altre diverse scene con differenti attori.

Perché dobbiamo farlo in questo modo? Innanzitutto perché chiudere formalmente con riconoscenza e apprezzamento rompe i ponti e impedisce al passato di protendere i suoi tentacoli nel nostro futuro. Inoltre, con queste tre attenzioni – in particolare con la gratitudine – noi recuperiamo l’energia emozionale che abbiamo immesso in quel vissuto, e la recuperiamo con il valore aggiunto di una saggezza che ci porterà senza fallo a superare con facilità e grazia ogni altra situazione simile. Una volta appresa e assimilata la comprensione diventata nostra, la manifesteremo in modo libero e spontaneo.

Un’ulteriore nota: il distacco. L’esperienza insegna che se eseguito con puro intento e sincerità emozionale, l’atto di chiusura è efficace e spesso pressoché immediato. Tuttavia, ci sono situazioni in cui la persona, pur essendo ormai libera da quel passato, continua a trovarsi in una certa situazione per il bene degli altri partecipanti.

Noi che intendiamo vivere in armonia con tutto e tutti, accettiamo anche il ruolo che interpretiamo per gli altri attori sulla scena per tutto il tempo che serve, perché anch’essi sono a loro volta protagonisti della loro rappresentazione e noi siamo ugualmente, e coerentemente, attori che danno a loro l’estro della loro libera interpretazione. Così può capitare che ci troviamo a continuare a vivere un evento che non ci appartiene più e accorgerci con stupore che, nonostante tutto, lo viviamo e vi agiamo con libertà e senso di impermanenza. In tale situazione, invece di depauperarci, ci apriamo a nuove possibilità. —

Paola, Paradigma 3