Sul determinismo e il perseguimento dei propri sogni (Rubrica di Consigli Stoici), di Massimo Pigliucci (2017)
[Lo Stoicismo è una filosofia pratica, e come Epitteto ricorda spesso ai suoi studenti: “Se non hai imparato queste cose per mostrarle nella pratica, per che cosa le hai imparate?” (Discorso I, 29-35) Essendo d’accordo, ho dato inizio alla rubrica “Consigli Stoici”, una versione filosoficamente informata e, si spera, utile, delle rubriche classiche nei giornali di tutto il mondo. Se desiderate sottoporre una domanda alla rubrica Consigli Stoici, inviate un’email a <massimo at howtobeastoic dot org>. Vi prego di considerare che i consigli dati in questa rubrica si basano su opinioni strettamente personali e riflettono la mia comprensione, forse non corretta, della filosofia stoica.]
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D. scrive: “Qual è la reazione di uno stoico ai concetti moderni di QI (Quoziente d’Intelligenza, ndt) e di genetica? Nelle società dove un alto QI è legato al raggiungimento di traguardi accademici in materie di elevati contenuti, e conseguenti benefici conferiti dalla società, cosa farebbe uno stoico di fronte a questo determinismo genetico? Cosa risponderebbe uno stoico a chi avesse un’intelligenza mediocre ma che vuole disperatamente raggiungere una competenza in abilità di alto livello? Una vita a perseguire i propri sogni, anche costantemente e inevitabilmente fallendo, è più significativa di una vita in cui si è rinunciato ai propri sogni? Oppure, si dovrebbe consigliare di vivere una vita più pratica? Gli stoici avevano il concetto del talento innato?”
Un’ottima domanda e, se posso dirlo un po’ immodestamente, ha fatto la domanda alla persona giusta, poiché non sono soltanto un praticante dello stoicismo, ma sono un biologo specializzato proprio nelle interazioni gene-ambiente.
Quindi, permettimi di iniziare con un po’ di background scientifico. Come sai, gli stoici pensavano che fosse importante studiare non solo l’ “etica” (termine con il quale intendevano il modo in cui si vive la vita) ma anche la fisica (che comprendeva le scienze naturali). Questo perché non ci si può orientare nel mondo in modo efficace se non si ha un’idea soddisfacente di come il mondo in realtà funziona. Quindi, una conoscenza scientifica di base è molto più attuale a come uno stoico si approccia alle questioni etiche.
Sia il concetto di ereditarietà che quello di QI è molto controverso. E non intendo solo negli ambiti politico-ideologici. Sì, è vero che la sinistra tende a rifiutare ogni discussione su QI ed ereditarietà perché li vede come un indebolimento della libertà umana, così come è vero che è tipico della destra abbracciarli al fine di mantenere ciò che preferiscono, lo status quo sociale. Sto parlando di dibattiti scientifici. Un buon compendio delle questioni principali si può trovare nel saggio del mio amico e collega Jonathan Kaplan [1] e molto altro nel mio libro Phoenotypic Plasticity: Beyond Nature and Nurture.
La conclusione, comunque, è questa:
1. Il QI misura una porzione dell’“intelligenza” analitica (comunque la si vuole definire) fortemente influenzata culturalmente e, di conseguenza, il risultato del test varia a seconda dell’età, il livello di istruzione e la modalità del parto. Con questo non s’intende dire che il test non misuri nulla che valga la pena di essere misurato, ma che qualunque sia la cosa misurata, viene ridotta semplicisticamente a un singolo numero che esclude un buon numero di complessità rilevanti.
2. L’ereditarietà non – ripeto – non misura il grado di determinazione genetica di un tratto. Tanto per cominciare, l’ereditarietà è una misurazione statistica che ha senso solo a livello di popolazione e non di individuo. Quindi, quando noi diciamo, per esempio, che l’altezza di un uomo ha un’ereditarietà dell’80%, non significa che l’80% della mia altezza dipende dai geni e il 20% dalle influenze ambientali. Significa, piuttosto, che l’80% della cosiddetta variazione fenotipica dell’altezza in una determinata popolazione si collega statisticamente con la variazione genetica di quella popolazione. Per comprendere perché questo non è la stessa cosa del determinismo genetico, consideriamo questo semplice esempio: l’ereditarietà del numero delle narici negli umani è zero perché, fondamentalmente, non c’è una variazione per questo tratto della nostra specie (tutti quanti abbiamo due narici). Eppure questo tratto è, come risulta, fortemente determinato geneticamente: non esiste ambiente dove si sviluppino una, o tre, o un altro numero di narici che non siano due.
3. Contrariamente a quanto comunemente malinteso, l’ereditarietà è una misura locale e non generale, nel senso che varia per la particolare costituzione genetica di una popolazione come per l’ambiente in cui l’individuo cresce. Questo, a sua volta, significa che non ha senso dire che l’ereditarietà del QI è “x”. Si dovrebbe, invece, dire che l’ereditarietà del QI per quella particolare popolazione e in quella particolare gamma di ambienti è “x”. Cambiate la costituzione genetica della popolazione, o dell’ambiente, e otterrete un numero differente. Talvolta un numero radicalmente differente.
4. Per di più, ciò che importa veramente non è il singolo numero dato all’ereditarietà (a livello di una popolazione), ma a una serie di funzioni individuali (per ciascuno di noi) che si collegano al fenotipo (in questo caso, il QI), il genotipo e l’ambiente, per via di quella che viene chiamata “norma di reazione”. Una norma di reazione è una curva specifica di un genotipo che appare come in questa immagine:
La conoscenza del set delle norme di reazione in una popolazione di organismi ci dice con precisione come la costituzione genetica di questi organismi interagisce con la gamma ambientale per incontrarsi, verosimilmente, con quegli organismi che sono sensibili a una gamma di fenotipi corrispondente. Questa interattività genotipo-ambiente si manifesta nel fenomeno conosciuto come plasticità fenotipica, il fatto che laddove non vi siano norme di reazioni piatte (p.e., non parallele all’asse dell’ambiente) il fenotipo espresso per un dato genotipo sarà una funzione dell’ambiente.
5. In ultimo, in termini di background scientifico, si evince che è pressoché impossibile misurare le norme di reazione negli umani, per il semplice motivo che non possiamo clonare le persone e crescerle in condizioni controllate (vi sono questioni sia logistiche che etiche a precluderlo). Quindi, possiamo soltanto ipotizzare indirettamente il dato di plasticità di un determinato tratto. Nel caso del QI, noi sappiamo che è plastico (dato che è influenzato da uno sviluppo precoce, dalla disponibilità di risorse materiali, dall’istruzione e così via), ma non sappiamo quanto, e neppure conosciamo la variabilità della plasticità nella specie umana.
Mi scuso per essermi dilungato su questo, ma come ho detto – da una prospettiva strettamente stoica – fare chiarezza scientifica è necessario. Ora, avendo saldamente in mente questo background scientifico, risponderò più specificamente alle tue domande.
Dato che non conosciamo il grado di determinismo genetico del QI (che, come ho detto, non si misura con l’ereditarietà), in un certo senso le tue prime domande si vanificano. Lo stoico non se ne farebbe nulla del QI e della genetica per la semplice ragione che non se ne sa molto. Non è una conoscenza pratica su cui basarsi.
Vorrei puntualizzare che gli stessi stoici furono, di fatto, sia materialisti che deterministi: credevano in una causa ed effetto universale. Le persone tendono a dimenticare che la nostra genetica non è la sola cosa che contribuisce a determinare la nostra vita. Le influenze ambientali sono anche loro deterministiche, e così pure (complesse e difficilissime da misurare) lo sono le interazioni genetico-ambientali, congiuntamente raccolte dalle idee di plasticità e norme di reazione. Così, in un certo senso, dal punto di vista stoico la domanda è mal posta: a prescindere che sia dai geni, dalle condizioni ambientali o (molto più realisticamente) da entrambi, la nostra vita è comunque determinata.
[Questo spesso, ed erroneamente, porta le persone a una sorta di nichilismo. Tratterò la risposta stoica a questa reazione, nota come “argomento futile”, la prossima settimana.]
Comunque, per quanto riguarda l’intelligenza, le tue domande successive restano pertinenti: cosa direbbe uno stoico a chi è dotato di un’intelligenza mediocre ma vuole disperatamente raggiungere una competenza in abilità di alto livello? Una vita a perseguire i propri sogni, anche costantemente e inevitabilmente fallendo, è più significativa di una vita in si è rinunciato ai propri sogni?
Vorrei iniziare dicendo che uno stoico non direbbe nulla a nessuno, a meno che non gli sia chiesto esplicitamente (come tu stai facendo con me). Non si impugna lo stoicismo come un bastone per colpire gli altri sulla testa. È, innanzitutto e principalmente, per il proprio miglioramento personale.
Comunque, supponendo che qualcuno ti chieda un consiglio, la prima risposta come stoico sarebbe che la sola vita degna di essere perseguita è quella dell’eccellenza morale ottenuta con la pratica delle virtù. E questo non ha nulla a che vedere con il tipo di lavoro ci si ritrova a fare, cosa che cade sotto la categoria degli indifferenti preferibili. Sull’argomento Seneca dice:
“La virtù non è cambiata dalle situazioni; quelle spiacevoli e difficili non la rendono peggiore, come non la rendono migliore quelle gioiose e liete. … Metti da una parte un uomo onesto e ricco, dall’altra uno nullatenente ma che possiede tutto dentro di sé: entrambi saranno ugualmente uomini onesti, anche se godono di una diversa fortuna. (Lettera LXVI, Sui vari aspetti della virtù, 15 e 22). [2]
Cambia “ricchezza” e “fortuna” con “professione” e “QI”, e il senso è lo stesso.
Poi, gli stoici erano persone molto pratiche: se qualcosa si rivela irraggiungibile, allora è folle continuare a sognarci sopra. Si deve invece fare il punto della situazione e focalizzarsi su che cosa si può fare e farlo al meglio.
Io posso sognare di essere un grande calciatore ma non ne ho la costituzione, non sono portato e non ho iniziato ad allenarmi quando ero abbastanza giovane. Sarebbe sciocco da parte mia continuare a sognarci sopra trascurando la mia professione attuale, rischiando forse la povertà per la mia famiglia come conseguenza dei miei sogni. Lo stesso si applica nel voler essere un attore, un musicista, uno scrittore o un banchiere di Wall Street (anche se devo ammettere che quest’ultimo è il più remoto dei miei sogni).
Ci tengo a dire, tuttavia, che questo non è un consiglio a rassegnarsi di fronte all’avversità. Anche ben prima di diventare stoico, ero determinato a perseguire una carriera accademica. Sapevo che questo era pressoché impossibile in Italia, dove sono cresciuto, per la cronica carenza di fondi e ancor più per il canceroso livello di nepotismo nelle università. Così me ne sono andato e mi sono trasferito negli Stati Uniti, dove una combinazione di fortuna, determinazione e qualche talento mi hanno permesso di diventare ciò che sognavo di diventare.
Se avessi beneficiato dello Stoicismo fin dall’inizio, avrei fatto esattamente la stessa cosa, ma il mio atteggiamento sarebbe stato più sano. Proprio come nel caso del famoso arciere nel “De Finibus” di Cicerone, diventare un professore universitario sarebbe stato “da scegliere e non da desiderare”, in quanto la decisione di perseguire questa carriera e gli sforzi che ho fatto, spettavano a me; ma l’esito finale non è stato:
“Se un uomo si proponesse di colpire con un giavellotto o una freccia un bersaglio, il suo scopo finale, che per noi corrisponde al sommo bene, farebbe tutto quel che può per centrarlo. L’uomo, in questo contesto, dovrebbe fare di tutto per colpirlo; benché faccia di tutto per colpirlo, per noi il suo “Fine ultimo”, per così dire, corrisponderebbe a ciò che chiamiamo il Sommo Bene nel vivere la vita, e colpire il bersaglio, in realtà, per noi sarebbe “da scegliere” e non “da desiderare”.” (Cicerone, De Finibus Bonorum et Malorum, III 22)
Traduzione: Paola (con revisione dell’autore)
Testo originale: On determinism and the pursuit of your dreams
Note
[2] Citazione in italiano da: Seneca, Lettera a Lucilio – Ed. Acrobat (a cura di Patrizio Sanasi)
* Genotipo – Costituzione genetica, patrimonio ereditario di un individuo. Il risultato dell’interazione fra il genotipo di un individuo e l’ambiente nel quale i geni si esprimono costituisce il fenotipo. (NdT, da Treccani.it)
* Fenotipo – In genetica, l’insieme delle caratteristiche morfologiche e funzionali di un organismo determinate dall’interazione fra la sua costituzione genetica e l’ambiente. (NdT, da Treccani.it)